BARTOLINI SALIMBENI, Zanobi
Nato a Firenze il 25 nov. 1485 da Bartolomeo e da Piera Tedaldi, fu educato, come i fratelli Leonardo, Lorenzo, Giovanni e Gherardo, nelle lettere e nelle armi ed ebbe dal governo fiorentino preminenti cariche nelle quali rivelò singolare abilità ed energia.
Dal febbraio del 1524 fino all'aprile dei 1526 esercitò le funzioni di capitano e di commissario generale di Pistoia e del suo territorio e represse con fermezza, ma anche con atti di giustizia sommaria talvolta assai discutibili, i disordini e l'anarchia cronica che sconvolgevano quella provincia dilaniata dagli odi delle fazioni dei Panciatichi e dei Cancellieri. Il B. risollevò la città dallo squallore, costringendo i contadini a prestar opera straordinaria per restaurare strade, ponti, mura, rocche, prigioni e bonificare terre paludose. Edificò il nuovo palazzo pretorio, coprendo le spese con particolari gabelle e coi proventi della condanna fiscale contro il Comune ribelle di Lizzano. Il suo comportamento tirrannico gli fece attribuire il soprannome popolaresco di "S. Zanobi".
Fu poi inviato commissario a Pisa, ma, caduti i Medici, di cui i Bartolini Salimbeni erano parenti e fautori, venne in sospetto e fu richiamato a Firenze. Ben presto tuttavia, nel fluttuante gioco delle maggioranze d'assemblea, mutati i parerì, fu riconfermato nella carica, né la Repubblica ebbe, in sostanza, a lagnarsi della sua lealtà: entrato in trattative coi due comandanti delle fortezze di Pisa e di Livorrio, i quali le tenevano per conto dei Medici, riusci a indurli a riconsegnare le fortezze a G. B. Bartolini Salimbeni, suo cugino e capitano fiorentino a Pisa. Nel dicembre dì quello stesso anno 1527 il B. fu eletto tra i Dieci di libertà e pace. Declinato l'invito di andare con altri ambasciatori a Venezia, si preoccupò della difesa della Repubblica, assoldando molti esperti capitani, tra cui Lucantonio Cuppano da Montefalco, Contazzo da Casalpò e Pasquino Corso. Il 19 luglio 1529, al minaccioso avvicinarsi dell'esercito imperiale, nell'adunanza della Pratica, consigliò che si assoldassero diecimila fanti, si fortificassero i confini verso Perugia e Firenzuola e si evitasse l'errore di far massa in un luogo solo attendendo il nemico passivamente sul territorio della Repubblica: propugnò invece una difesa attiva ed elastica - Il 13 agosto venne inviato commissario, generale di guerra ad Arezzo e ìn Val di Chiana. Ivi si trattenne fino al 7 settembre a organizzare con alacrità, malgrado la pessima salute (la sua obesità gli rendeva difficili i rapidi spostamenti richiesti dalle circostanze), la difesa della zona a lui affidata: egli assoldò nuove truppe, sollecitò l'invio di artiglierie e di denaro, diede un grande impulso alle fortificazioni.
Allo scopo di mantenere l'alleanza di Malatesta Baglioni, signore di Perugia, ottenne che il governo fiorentino il 20 agosto mandasse Bernardo da Verrazzano in veste di residente della Repubblica in quella città e iniziò egli stesso un fitto carteggio col Baglioni col quale condivideva l'opinione che occorresse tentar di respingere il nemico prima che quello fosse penetrato nel territorio della Repubblica. Invece il gonfaloniere della Repubblica, Francesco Carducci, preferì riunire tutte le forze sotto le mura di Firenze. Intanto gli Imperiali prendevano Perugia, costringendo il Baglioni a riparare a Firenze, occupavano Cortona e Arezzo, invadevano quasi tutta la Val di Chíana e si presentavano sotto Firenze al Pian di Ripoli, iniziando le operazioni dell'assedio.
Il B., nominato commissario generale alla guerra insieme con Raffaele Girolami, fortificò, su progetti di Michelangelo, le mura, le porte e le fortezze di S. Giorgio e di S. Miniato; trincerò la città tutt'attomo, serrò le botteghe per obbligar gli artigiani a dedicarsi ai lavori di fortificazione; impedì, meglio che poté, fughe e diserzioni; formò un corpo di 4.000 Popolani e pose 300 nobili a guardia del palazzo della Signoria. Il 19 ottobre, non senza suscitare malumori nei danneggiati, impose per pubblico decreto la demolizione di borghi, case, ville e conventi per un miglio intorno alla città. Prescrisse al Ferrucci la difesa di Empoli, indispensabile per i rifornimenti; aumentò i magazzini di salnitro e le provviste di legname cui deputò Carlo da Castiglionchío. Il 10 novembre sventò un assalto nemico alle mura; l'11 dicembre, profittando di un'assenza del principe d'Orange recatosi a Bologna, tentò una sortita che fallì per un ritardo nell'arrivo dei rincalzi.
Quando Malatesta Baglioni prese a sostenere la necessità della resa, il B., repubblicano temperato, dopo essersi battuto per un governo oligarchico in cui egli si lusingava di poter esser il mediatore e l'arbitro di opposte correnti, vista la piega degli eventi decisamente favorevole agli imperiali e ai Medici, prese un atteggiamento prudente e si diede malato. Caduto in sospetto agli oltranzisti per i suci legami di amicizia con Malatesta, fu messo da parte, ma quando, dopo la rotta di Gavinana, prevalse il partito favorevole alla resa, il B. fu incaricato delle trattative e poi chiamato a far parte del governo provvisorio che preparò il ritorno dei Medici. Nel momento della più aspra e sanguinosa reazione egli fu mandato ambasciatore presso Clemente VII dal quale riusci a farsi perdonare il proprio passato politico. Al ritomo fu eletto membro del consiglio dei Duecento e membro a vita del senato dei Quarantotto.
Morì a 48 anni, per un colpo apoplettico, nella sua villa di Rovezzano, l'8 giugno 1533. Da Costanza Pandolfini, con cui era sposato dal 1513, ebbe sette maschi e una femmina.
Il B., molto severamente giudicato tanto dai repubblicani intransingenti, come il Busini, che non gli perdona l'amicizia col traditore Malatesta, quanto dai Palleschi, come il Nerli, che lo accusa di ingratitudine verso i Medici, ebbe notevoli doti di politico e di organizzatore; energico e deciso, ma taciturno e freddo, restò incompreso a molti e, data la drammaticità degli eventi, simpatico a pochi. Fu, in sostanza, un ambizioso che tentò, in situazioni eccezionalmente difficili, di guidare gli eventi a pro, del suo "particulare", guicciardinianamente, ossia non ignobilmente, inteso: un ristretto governo di ottimati in cui egli fosse magna pars, esclusi Arrabbiati e Popolari da un lato, Palleschi - ossia dominazione medicea - dall'altro. Essendogli fallito il piano, riusci in extremis a sganciarsi e a salvare non solo la vita (che non fu poco se si pensa alla vera e propria strage e alla galera e al confino di tanti suoi colleghi di govemo), ma a conseguire cariche e onori da parte degli avversari.
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