ZANOBI da Strada
ZANOBI (Zenobi, Zenobio) da Strada. – Nacque nel 1312 a Strada dell’Impruneta, a qualche chilometro da Firenze, da Giovanni di Domenico Mazzuoli da Strada (che non deve essere confuso con il nipote omonimo detto Lo Stradino). Nessuna notizia si ha sulla madre.
Proprio alla scuola di grammatica del padre acquisì i primi rudimenti di latino, studiando al fianco di Giovanni Boccaccio, di un anno più giovane di lui, e di Niccolò Acciaiuoli, che gli era invece più grande di due. Nel 1332, alla morte del padre, Zanobi gli subentrò insieme al fratello Eugenio nella gestione della scuola, e lì rimase fino al 1349 quando venne nominato segretario reale alla corte angioina della regina Giovanna e di re Luigi di Taranto (il documento dell’Archivio di Stato di Napoli, Registri Angioini, che data al 4 novembre il decreto di nomina regia fu distrutto probabilmente durante la guerra, ma può ancora leggersi in Forcellini, 1912, pp. 244-246). Zanobi si trasferì quindi a Napoli forse già nel 1350 e lì strinse ulteriormente i rapporti con l’allora gran siniscalco Niccolò Acciaiuoli, di cui divenne stretto collaboratore. Ignoto è il destinatario della prima traccia autografa lasciata da Zanobi, l’epistola inviata da Napoli dopo il 1352 (Firenze, Biblioteca nazionale, Magl. VIII 1439). Negli anni successivi venne nominato cantore della basilica di San Nicola a Bari e rettore della chiesa di San Pietro in corte a Salerno (Forcellini, 1912, pp. 260 s.). Resta notizia anche di un canonicato acquisito più tardi a Treviso (Gargan, 2011, pp. 41, 221). Prima del 1355 risulta sposato, come si evince da una lettera di Niccolò a Iacopo Acciaiuoli (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ashb. 1830, I 141). Sempre negli anni tra il 1352 e il 1355 si colloca un’altra epistola scritta in veste di segretario di Lapa, sorella del gran siniscalco (Ashb. 1830, I 64).
Nel 1355 venne nominato suo vicario da un altro Acciaiuoli, Angelo, cugino del gran siniscalco, eletto il 18 marzo alla carica di vescovo di Montecassino. Nell’ottobre di quell’anno si trasferì alle pendici del monte, presso l’attuale Piedimonte San Germano (allora solo San Germano, come risulta dalle sottoscrizioni alle opere composte in quegli anni), dove rimase almeno fino alla morte del vescovo. Tre documenti relativi a questi anni e conservati a Montecassino coinvolgono Zanobi: il consenso all’elezione del monaco cassinese Nicola da Nogerone quale priore di S. Benedetto di Norcia (Archivio dell’Abbazia di Montecassino, Aula II, Capsula LIII, f. S. Benedetto de Calcaria, n. 2, 18 marzo 1356); la concessione di un casale rogata «in domibus habitationis reverendi ac nobilis viri domini Zenobii de Florentia laureati poete vicario in spiritualibus et temporalibus» (Aula II, Capsula LXXVII, S. Germano, n. 4421, 4 giugno 1356); la concessione di una casa a Tommaso di Pietro Pontecorvo (ibid., 20 gennaio 1357). Risalgono a questi anni anche tre lettere in volgare conservatesi in autografo e aventi tutte come destinatario Iacopo di Donato Acciaiuoli: Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ashb. 1830, I 116 (Acerra, 24 gennaio-Napoli, 27 gennaio 1355), in cui si fa riferimento a Giovanni da Firenze (o dal Casentino) allora suo segretario «familiaris et cappellanus»; Ashb. 1830, II 501 (Napoli, 27 maggio 1354); Ashb. 1830, II 502 (Foggia, 11 dicembre 1354).
Proprio nel 1355, grazie all’intervento strategico del potente protettore Niccolò Acciaiuoli, venne incoronato poeta nel duomo di Pisa. Il 14 maggio, durante la festa dell’Ascensione (come attesta un testimone oculare della cerimonia, Giovanni Porta de Annoniaco), o secondo altre fonti (ibid., 90 inf. 14, c. 151r) il 24 maggio, giorno di Pentecoste, dopo la celebrazione della messa solenne da parte del cardinale Pietro de Columbario, l’imperatore Carlo IV lo coronò d’alloro per poi accompagnarlo in corteo attraverso tutta Pisa. In quella occasione Zanobi poté declamare l’orazione composta per la circostanza.
Nell’ottobre del 1357, alla sopraggiunta morte del vescovo Angelo Acciaiuoli, rientrò a Napoli, per lasciare definitivamente la corte angioina già due anni dopo: nel 1359 mosse infatti alla volta di Avignone in seguito al conferimento della carica di segretario apostolico di papa Innocenzo VI, vacante da febbraio a causa della morte del napoletano Francesco Calvo. Zanobi portò con sé 3500 fiorini d’oro a parziale rimborso del debito che il regno di Sicilia, feudo pontificio soggetto a censo annuo, aveva allora con il papa (Die Einnahmen..., 1955, p. 213).
Nonostante i diversi spostamenti, Zanobi doveva aver mantenuto la proprietà della casa a Firenze se ancora nel marzo del 1352 risultava risiedere nel quartiere di Santa Maria Novella al gonfalone della vipera (Archivio di Stato di Firenze, Estimo, 306, c. 93v, relativo al «Magister Çenobius doctor in gramaticha») e se, sei anni dopo, ricevette un’ingiunzione di pagamento per insolvenza della seconda e terza rata delle tasse, poiché si trovava allora «in partibus Apulee cum domino rege Sicilie» (Provvisioni, Registri, 45, c. 128rv, 12 febbraio 1357, indizione fiorentina corrispondente al 1358).
Ad Avignone Zanobi si dedicò principalmente a impegni diplomatici e politici, occupandosi soprattutto dei rapporti tra la S. Sede e la corte napoletana; in particolare tutelò gli affari della famiglia Acciaiuoli, tralasciando giocoforza le fatiche letterarie (di questo lo rimproverò ripetutamente Francesco Petrarca nella Familiare XX, 14, e nella Senile VI, 6). Mantenne costanti rapporti con l’amico Niccolò Acciauoli, di cui venne designato esecutore testamentario nel 1359; Zanobi morì tuttavia prima del gran siniscalco, il quale di contro volle che proprio due sentenze dell’amico poeta fossero incise sul suo sepolcro alla Certosa del Galluzzo. Di questo periodo si conservano tre apografi di alcuni registri della corrispondenza tenuta da Zanobi per la curia papale: Città del Vaticano, Archivio apostolico Vaticano, Reg. Vat. 240 e 241 relativi agli anni 1359-60; Archivio di Stato di Roma, Acquisti e doni, b. 23; Troyes, Bibliothèque de la Ville, 72, con lettere del nono anno di pontificato di Innocenzo VI relative ai rapporti tra la curia e alcuni sovrani d’Europa.
Grazie al prestigio acquisito ad Avignone, Zanobi si tenne in contatto sia con il circolo fiorentino attivo a Napoli sia con gli amici dello Studio di Firenze: proprio a lui (oltre che a Guido di ser Cantis e a Pietro Bini) i fiorentini si rivolsero il 4 luglio 1360 per un’intercessione presso il papa relativa a un privilegio (Gherardi, 1881, p. 136). Sempre in virtù della rilevante posizione ricoperta, nel 1360 venne assegnato ad Andrea, fratello di Zanobi, il priorato di San Salvatore a Firenze (Archivio di Stato di Roma, Acquisti e doni, 23, n. 4, c. 37r); addirittura il doge di Venezia gli si rivolse nel maggio dell’anno successivo per ottenere un privilegio da parte del pontefice (I libri commemoriali..., 1878, p. 321).
Al 12 agosto 1360 è datata l’ultima missiva inviata a Giovanni di Iacopo Acciaiuoli (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ashb. 1830, II 503), sulla cui autografia sussistono però vari dubbi.
Sono queste le ultime tracce dell’attività di Zanobi, che trovò la morte nella seconda ondata di peste nera che raggiunse la Francia nel 1360: morì infatti ad Avignone nell’estate del 1361 e lì venne sepolto.
Il Comune di Firenze nel 1396 ordinò che si erigesse un’arca marmorea in S. Maria del Fiore per onorare, insieme a quella di Dante, Petrarca e Boccaccio, anche la memoria di Zanobi. L’ordine non venne mai eseguito, ma resta ad attestare la fama da lui raggiunta al fianco delle tre corone fiorentine. Parimenti danno conto della considerazione dei contemporanei il ritratto (iconografico e poetico) di Zanobi tra i fiorentini illustri a Palazzo Vecchio, oggi perduto ma messo a punto da Coluccio Salutati, e quello realizzato tra il 1375 e il 1406 presso la sede dell’Arte dei giudici e dei notai progettato da Domenico Silvestri.
Alla fama di Zanobi da Strada contribuirono in larga parte gli stretti rapporti intrattenuti con i maggiori intellettuali dell’epoca, non sempre sereni e turbati soprattutto dalla laurea pisana spesso vista come immeritata. Inserito nel circolo dei cultori dei classici attivo a Firenze con Sennuccio del Bene, Francesco Nelli, Lapo da Castiglionchio, Bruno Casini e Francesco Bruni, furono però soprattutto i fitti scambi epistolari con Petrarca e Boccaccio ad accrescerne il prestigio.
Oltre ai riferimenti impliciti disseminati nelle loro opere, a partire dal 1350 Petrarca gli inviò dieci Familiares (XII, 3, 17, XIII, 9, 10, XV, 3, XVI, 9, 10, XIX, 2, XX, 14, XXII, 6), la Senile VI, 6 (ne pianse la morte in I, 2 e III, 3), due Epystole (III, 8 e III, 9) e le Varie 2 e 7 (= Disperse, 14 e 19). Boccaccio gli indirizzò invece le epistole VI e IX, cui si deve forse aggiungere l’VIII che, essendo acefala, risulta priva dell’intitulatio; pare significativo che Boccaccio le abbia trascritte tutte e tre nei propri zibaldoni. Non si conservano viceversa le missive inviate a questi destinatari da Zanobi.
Conseguenza e causa insieme dell’intrecciarsi di tali rapporti fu il ruolo di rilievo che Zanobi ebbe nello studio dei testi classici fin dalla sua permanenza presso la corte angioina e nella rimessa in circolazione di opere antiche attingendo dal prezioso patrimonio librario dell’abbazia benedettina di Montecassino (meno fruttuosa in tal senso la sua permanenza avignonese).
Se già nel 1348 Boccaccio trattava con Zanobi al fine di ottenere una copia del De lingua latina di Varrone (la ottenne entro il 1355 e corrisponde oggi al manoscritto di Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. 51.10, dove l’opera è conservata insieme alla Pro Cluentio ciceroniana), fu però tra il 1355 e il 1357 che Zanobi poté raggiungere alcuni manoscritti che ancora recano tracce del suo passaggio. A oggi sono stati identificati sette codici sicuramente annotati dalla sua mano. Alla Biblioteca apostolica Vaticana sono conservati: una miscellanea storica del XIV secolo (Vat. lat. 1860), un manoscritto datato 1275 contenente i Metamorphoseon libri ovidiani e la relativa Summa memorialis di Orico di Cavriana (Vat. lat. 5859), l’importante codice Vat. lat. 10690 testimone della cronaca siciliana dello pseudo Ugo Falcando da cui proprio Zanobi fece trarre il Par. lat. 5150, annotato sia da Petrarca sia da Boccaccio. Presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze sono invece preservati i due testimoni più significativi, latori entrambi di testi estremamente rari: il codice 29.2 dell’inizio del XIII secolo con Apuleio (Apologia; Metamorphoseon libri; Florida) e il manoscritto 68.2 della fine dell’XI secolo che tramanda, oltre ai testi apuleiani, i libri XI-XVI degli Annales di Tacito e i libri I-V delle Historiae. Sono da aggiungere infine il codice Napoli, Biblioteca nazionale, V F 21 del XIV secolo (epitome dell’Eneide; epitome delle Metamorfosi ovidiane; Paolo da Perugia, glosse all’Ars poetica di Orazio) e il manoscritto Paris, Bibliothèque nationale de France, 6366, dell’inizio del Trecento (Cicerone, Somnium Scipionis; Macrobio, Commentarius in Scipionis somnium; Apuleio, De deo Socratis; De Platone et eius dogmate; De mundo; Pseudo Apuleio, Asclepius).
Oltre all’intervento di stampo filologico-erudito su questi manoscritti (ripristino della scrittura beneventana sbiadita, introduzione di maiuscole e titoli correnti, proposta di correzioni per il restauro testuale), Zanobi ne annotò spesso fittamente i margini con un sistema di postillatura volto a isolare nomi propri e geografici, considerazioni grammaticali o ancora sommari e parafrasi del contenuto. Alla sua mano si affianca spesso quella degli amici cui comunicò i diversi ritrovamenti; in particolare si ritrova quella di Boccaccio, che per lungo tempo gli ha conteso la paternità di alcune riscoperte di testi classici.
A completare il profilo culturale di Zanobi da Strada resta la sua produzione letteraria, consistente in un numero di opere non particolarmente alto a causa dell’alternarsi di impegni politici e carriera diplomatica, nonché per la morte prematura a soli quarantanove anni. Si aggiunge a questo quadro la probabile dispersione di alcune opere: Zanobi aveva infatti disposto che i suoi libri venissero consegnati all’amico Niccolò Acciaiuoli dai parenti. Come attesta un’epistola inviata nel 1361 a Landolfo Caiazza, segretario e amico di Zanobi presso la corte papale, Acciaiuoli si preoccupò in effetti di raccogliere gli scritti di Zanobi e avuti i libri li fece pervenire tramite Ruggero di Sanseverino, siniscalco di Provenza, a Firenze, probabilmente presso la Certosa del Galluzzo. Alcuni manoscritti però non presero mai la via per la Toscana, altri approdarono tramite Niccolò Niccoli al convento domenicano di San Marco e di alcune opere resta solo traccia indiretta, a conferma che qualcosa è purtroppo andato perduto.
Entro il gennaio del 1348 Zanobi compose l’orazione Audite me beati sul versetto biblico di Proverbi 8, 32, fittamente intessuta di auctoritates che spaziano dai Padri della Chiesa a citazioni scritturali, dalle fonti classiche più o meno rare a quelle tardo-medievali, fino a citazioni tratte dallo stesso Petrarca. È conservata in testimone unico dallo Zibaldone magliabechiano di Boccaccio (Firenze, Biblioteca nazionale, Banco Rari 50, cc. 79v-82v), che ricevette il sermone in dono direttamente dall’amico; il Certaldese lo ringraziò nell’epistola Quam pium (Ep., VI).
L’altra orazione zanobiana conservatasi, Stat sua cuique, composta e pronunciata in occasione della laurea pisana del 1355, è tràdita da undici manoscritti ed è generalmente nota con il titolo De fama. Sulla scorta di quanto fatto pochi anni prima da Petrarca nella sua Collatio laureationis, Zanobi muove da tre versi (467-469) del decimo libro dell’Eneide e, servendosi delle medesime fonti già esibite nell’altro sermone, ragiona intorno all’umano desiderio di fama come via per prolungare il ricordo oltre la morte.
Legati all’incoronazione del 1355 sono anche gli unici tre componimenti poetici di Zanobi di cui resti traccia. Il manoscritto Trieste, Biblioteca civica, I 33 trasmette uno di seguito all’altro (cc. 97v-98r) il carme in 15 esametri Non possum non esse tuus e quello di 24 esametri Longius expectans tacui. Entrambi sono destinati a un amico di cui è ignota l’identità, ma che aveva probabilmente espresso alcune perplessità sull’opera e sullo stile di Zanobi: se nel primo componimento il poeta laureato cerca di stemperare le accuse ricevute in nome dell’amicizia, nel secondo si trova costretto a sferrare un attacco più violento così da difendersi più adeguatamente.
Il carme Quid faciam, que vita michi venne invece composto in risposta a un perduto carme di Boccaccio, scritto a Zanobi l’11 ottobre 1355 per congratularsi dell’alloro pisano. Nei 35 esametri fitti di echi petrarcheschi il neolaureato poeta si dichiara orientato allo studio dei grandi del passato, ma si confessa incerto sui temi cui dedicarsi da lì in avanti: chiede quindi consiglio all’amico rispetto alla decisione di dedicarsi al genere epico. Boccaccio rispose con l’epistola metrica Si bene conspexi, in cui, non senza ironia, suggeriva a Zanobi di dedicarsi con tenacia a quel proposito. È significativo che dei tre codici che trasmettono questo testo il manoscritto della Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat. 5223 sia stato allestito da Donato Albanzani (o nell’ambiente a lui vicino), mentre il manoscritto di Oxford, New College, 262 sia stato copiato da Lorenzo di Antonio Ridolfi da materiali direttamente risalenti allo scrittoio di Boccaccio. A riprova del rilievo di Quid faciam, que vita michi, Filippo Villani lo trascrisse integralmente nella seconda versione del profilo biografico di Zanobi messo a punto tra il 1395 e il 1396 (Villani, 1997, pp. 371 s.).
A questi testi devono infine essere aggiunti due volgarizzamenti. Su richiesta di Giovanni Villani, e quindi prima della peste del 1348 in cui lo storico trovò la morte, Zanobi aveva già tradotto il Somnium Scipionis di Cicerone. Tra il 1352 e il 1353 ottenne invece da Acciaiuoli l’onere di volgere i Moralia in Iob di Gregorio Magno. Particolarmente restio all’impresa tanto da essere ripreso in una lettera dal siniscalco nel dicembre del 1353, Zanobi riuscì a completare la versione dell’opera sino al capitolo 18 del libro XIX, lasciando che il volgarizzamento fosse completato dopo la sua morte da Giovanni da Samminiato. A oggi di questo testo sopravvivono ben 39 manoscritti, che ne fanno dunque l’opera più fortunata.
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