CEFFINO, Zanobio
Nacque a Firenze nell'anno 1499, ultimo figlio di Giuliano e di Francesca Di Girolami. In data non precisabile egli sposò Giulia, che era figlia di Alessandro Farnese: da questo matrimonio nacque Alessandro, che diverrà capitano della guardia del re di Francia, Enrico II. Il C. fu castellano papale di Cerchiano e della rocca di Montefiascone. Sotto il pontificato di Paolo III fu in rapporti con Baldassarre Turini, il datario apostolico che Raffaello aveva nominato suo esecutore testamentario.
Il Turini possedeva una villa sul Gianicolo, che Giulio Romano aveva abbellito con affreschi e decorazioni, e dove si svolgevano periodiche riunioni di intellettuali legati alla corte papale. Qui il C. poté essere ragguagliato sui fatti che portarono al processo e alla morte di Tommaso Moro (6 luglio 1535). Nell'opera che di lui ci è rimasta sull'argomento lo scrittore si dimostra perfettamente al corrente dell'abbondante pubblicistica che si era diffusa in Europa sul contrasto fra Enrico VIII e il potente cancelliere; la corte romana costituiva ovviamente l'ambiente più proprio per la discussione e l'analisi del fatto che in quel momento accentrava l'interesse universale. Al termine dell'opera il C. confida il proposito di riprendere a trattare di Tommaso Moro in altra sede ("Ma se il Cielo o Fortuna o più pia stella / mi presta il suo favor prima ch'io mora / spero la vita tua più alto ancora / cantar, tanto di te m'accendo ognora"), e di fatto la figura del santo ritorna, anche se di sfuggita, nella fatica letteraria più nota del C., il poemetto La peregrinazione spirituale, composto probabilmente negli anni che vanno dal 1540 al '43.
Rimasto vedovo, il C. prese l'abito clericale e vendette i beni che aveva in Calcinaia di Passignano ai padri di quell'abbazia. Le notizie biografiche che possediamo su di lui - dovute essenzialmente alla Istoria genealogica del Gamurrini - si arrestano a questo punto. Probabilmente trascorse gli ultimi anni nella città natale, dove aveva raggiunto buona fama di letterato e dove forse era bene accolto presso quei circoli di cultura savonaroliana che ebbero una notevole riviviscenza nella Firenze granducale. Non conosciamo l'anno della sua morte.
La prima opera del C., l'unica che fosse stata destinata alla stampa, è una descrizione di Roma in occasione delle feste allestite in città per l'ingresso di Carlo V e la sua solenne incoronazione imperiale (1530). Si tratta de La Triumphante entrata di Carlo V Imperatore Augusto nell'alma città di Roma con el significato delli archi triomphali et delle figure antiche in prosa et versi latini...,dedicata "alla Eccellenzia del Duca di Fiorenza" e datata "Di Roma alla VI d'Aprile MDXXXVI". Dové costituire, rispetto agli altri numerosi tributi che nella circostanza si ritennero in dovere di offrire altri letterati più o meno celebri, una sorta di relazione ufficiale affidata dal duca di Firenze al C., il cui tributo circolò infatti per l'Europa in varie traduzioni. L'opera tuttavia non risulta di particolare impegno; c'è il consueto sfoggio di erudizione antiquaria e una notevole pratica esecutiva, ma l'impianto è freddo e stucchevole, la rappresentazione non esorbita dai limiti del genere descrittivo e panegiristico che giunge al C. da una ininterrotta tradizione.
Più interessante è il tributo poetico dello scrittore toscano dedicato a Tommaso Moro. Il testo delle Stanze di Zanobio Ceffino cittadino fiorentino sopra l'eresia del re d'Inghilterra e sopra la morte di Tommaso Moro gran cancelliero fu rinvenuto in un manoscritto del British Museum (Additional 21.982) da N. Orsini, che ne diede notizia negli Studi sul Rinascimento italiano in Inghilterra (Firenze 1937), e pubblicato da A. Castelli in appendice al suo studio sul Ceffino.
Il manoscritto fiorentino della Peregrinazione spirituale (Biblioteca nazionale, Palat. 238), che contiene anche rime varie, sonetti e capitoli del C. e che si dimostra autografo come quello inglese, fu posseduto per qualche tempo da un discendente dello scrittore, Francesco Mario Ceffini, il quale vi appose una notizia che si dimostra utile per indagare la storia esterna dell'opera e anche la sua diffusione a Firenze presso un esponente molto noto della contemporanea cultura letteraria, B. Buonmattei. Annotò infatti F. Mario a proposito di Zenobio: "Scrisse alcune ottave in lode di Tommaso Moro, quali da me una volta furono vedute in un libro ms. app. di me e poi app. di Bened. Buonmattei, al quale l'aveva imprestata e per la sua morte si perse, ove era anche questa peregrinazione; ma in gran parte mandata a male dall'umido ch'avea consumato molte carte". Poi il redattore della nota cita tre versi della Peregrinazione spirituale in cui figura appunto Tommaso Moro fra i martiri che compaiono sotto un vittorioso duce ("Quel che ne par tra essi ancor novizio, / è quel di cui cantasti in dolci versi, / che si oppose all'inghilese vizio"). Dopo essere state quindi possedute dal Buonmattei, le stanze del C. giunsero, non si sa come, a Londra. Probabilmente la personalità dello scrittore era già sufficientemente nota nell'ambiente internazionale della corte pontificia perché il testo potesse imporsi anche all'estero tra le più ricercate testimonianze sulla tragica vicenda di Tommaso Moro; altri versi del C. (Le Stanze in lode del principe di Valdemonte) giacenti nel Cod. it. 1048della Bibliothèque nationale di Parigi, documentano peraltro la presenza del letterato fiorentino in un orizzonte di cultura tutt'altro che provinciale.
A parte il valore letterario di queste ottave - che è dubbio -, esse si inseriscono in una fitta trama di testimonianze sull'avvenimento luttuoso il cui valore documentario supera largamente quello artistico.
La notizia della decapitazione venne inoltre diffusa sul continente, unitamente a quella della morte di Giovanni Fisher, da lettere diplomatiche e private e soprattutto da una lettera inviata nel 1535 a Parigi da un testimone (fu edita per la prima volta da J. Le Laboureur, Mémoires de Michel de Castelnau, I,Bruxelles 1731, pp. 415 ss.), che venne tradotta quasi subito in inglese e alla quale attinsero in abbondanza i compilatori degli opuscoli che circolavano nelle varie città europee. Tra questi vanno almeno ricordati la Expositio fidelis de morte D. Thomae Mori et quorumdam aliorum insignum virorum in Anglia, "Anno MDXXXV. Lutetiae Parisiorm X Cal. Augusti" (che venne immediatamente tradotta in tedesco) e l'originale Beschreybung des urtheyls und todts weiland des Gross Cantzlers von Engenlandt, Herrn Thomas Morus. Darumb das er desselben Reichs Ratschlag und Newem Statuten mit hat wöllen anhangen, [Norimberga] 1535.
Proprio questa versione sembra essere stata la principale fonte per il poemetto del Ceffino. Dopo la protasi, l'invocazione e la dedica dell'opera a Baldassarre Turini il poemetto si apre con la scena in cui Enrico VIII manifesta al Consiglio la propria intenzione di divorziare da Caterina d'Aragona che è nell'impossibilità di assicurargli un erede. Il solo Tommaso Moro si oppone a tale proposito rinfacciando al sovrano la pretestuosità del motivo e scoprendo i fini politici che si celano sotto il desiderio di continuare la stirpe reale. Tommaso Moro viene accusato di ribellione e imprigionato. Durante il periodo di detenzione il prigioniero non manca di svelare ai messi del sovrano l'irreligiosità di Enrico VIII, il suo programma di sottrarsi dalla sovranità del pontefice, l'intenzione di aggiungere all'autorità temporale quella spirituale. A seguito di tale pervicacia nell'opposizione al re, a Tommaso Moro vengono confiscati i beni e si istruisce un processo a suo carico. Durante l'udienza cui partecipano i maggiori dignitari del regno il cancelliere non deflette dalla fede nella compattezza e nella concordia dell'intero mondo cristiano, dall'osservanza della religione romana e viene perciò condannato a morte nonostante l'intervento di autorevoli personaggi che tentano un'estrema mediazione presso Enrico VIII. In una scena che è tra le più significative del poemetto viene rappresentato l'estremo saluto che Tommaso Moro rivolge alla figlia prima di avviarsi al patibolo. Dopo di che viene pubblicamente eseguita la condanna.
Rispetto alle proprie fonti il C. si è permesso qualche libertà. Innanzi tutto i versi nei quali racconta il raduno di tutti i magnati del regno (dove Enrico VIII, proposto che essi abbiano ad accettare quanto egli ha deliberato intorno al suo divorzio contro il volere del papa, incontra la disapprovazione del proprio cancelliere) non rispecchiano la realtà storica degli avvenimenti. In effetti Tommaso Moro fu interpellato dal re circa il progetto del divorzio soltanto privatamente e in tal senso si esprimeva anche la lettera che fu la principale fonte del racconto del Ceffino. È probabile che egli volle raccogliere nell'unico episodio della seduta pubblica (una circostanza, del resto, tradizionalmente epica) tutto quanto era precedentemente avvenuto nei rapporti tra i protagonisti della vicenda e su cui egli non era informato. Parimenti immaginaria è la scena dell'incontro di Tommaso Moro con la figlia Margherita allorché il prigioniero è già venuto a conoscenza della propria condanna a morte. Mentre i documenti ci parlano della figlia ammutolita dal dolore, l'autore la rende protagonista di un discorso disperato: invenzione tutta letteraria, che impone uno squarcio patetico al racconto, peraltro piuttosto disadorno, e serve ad anticipare drammaticamente l'epilogo della vicenda.
Nonostante questo ed altri consimili accorgimenti, la serie di ottave si rivela di una mediocrità deludente: i caratteri individuali sono appena abbozzati, le scene d'assieme risentono pesantemente della convenzione epica quattrocentesca, lo stile è quello dell'agiografia. Culturalmente il motivo di maggiore interesse è forse costituito dalla riproposta - che si rende particolarmente sensibile specie nelle scene iniziali dell'opera - dello stile dei cantari popolareschi interiorizzati da una spiritualità tipicamente savonaroliana. Alcuni esordi ricordano molto da vicino le movenze del predicatore, i toni sono spesso accesi e rivelano una costante tensione oratoria, quasi si trattasse di convincere un pubblico ad ascoltare più che suscitare un interesse più propriamente letterario. Ed è sotto questo aspetto che l'opera del C. può riservare qualche interesse per chi voglia documentare entro quali limiti di stile, di genere letterario, fosse possibile la continuità dell'esperienza savonaroliana in un periodo già maturo per quella della Controriforma.
Certo dové nuocere all'opera la mancata revisione dello scrittore in vista di una stampa: la sintassi ellittica, caratteristica quasi di un parlante, i più che frequenti dialettismi, alcune oscurità nell'espressione, che giungono al punto di rendere equivoco qualche passaggio narrativo, sarebbero sicuramente scomparsi ad una rilettura attenta soprattutto sul piano formale. Tuttavia ciò non avrebbe intaccato profondamente l'intelaiatura dell'opera, che vuole riproporsi sul registro della moralità, esprimendo un contenuto ideale di vita, un exemplum di sacrificio cristiano.
Tali intendimenti sono coerentemente perseguiti anche nella Peregrinazione spirituale, il cui contenuto sembra ispirato dalla devozione del C. per il Savonarola, mentre nella forma lo scrittore ha avuto sicuramente come modello primo il poema dantesco. Vi si descrive in tre libri (il primo diviso in sette capitoli, il secondo in dieci, il terzo in undici) un viaggio ultraterreno onde offrire ai peccatori il richiamo a un'esperienza penitenziale. "Nel concetto generale può veramente dirsi la Commedia stessa di Dante compendiata da un debole ingegno poetico", scriveva Michele Barbi nel celebre studio Della fortuna di Dante nel secolo XVI, e sicuramente l'opera del C. veniva a confermare la fondamentale ipotesi di lavoro del filologo volta a stabilire un'equazione quasi sempre valida nel Cinquecento fiorentino di dantismo e rigorismo religioso, di "realismo" e di attesa riformistica, laddove una rilettura insistita di Petrarca poteva dare come risultato la fiducia nelle indulgenze e nella pietà divina nonostante gli errori dell'umana fragilità.
In effetti qui più che altrove il dettato del C. ama ostentare toni di drammatica riprovazione contro il peccato, i vizi del secolo, la difficoltà della redenzione, anche se la morale particolarmente aggressiva che avanza non colpisce mai - come avviene per gl'interpreti più audaci del savonarolismo cinquecentesco - la Curia romana e la sua politica repressiva nei confronti degli eretici. Anche più evidente rispetto alle ottave dedicate a Tommaso Moro divengono in questa opera i calchi popolareschi che l'autore si studia di riprodurre dai cantari epici e dalle storie dei santi, mentre sempre più arduo appare per il C. l'approdo ad una fantasia inventrice.
Modesto scrittore anche in quest'ultima sua opera a noi nota, la figura del C. non si impone tanto per la misura poetica delle sue rime quanto perché documenta una ben precisa e viva componente di cultura che si ravvisa a Firenze fra le maglie dell'incipiente tendenza alla Controriforma.
Bibl.: E. Gamurrini, Istoria geneal. delle famiglie nobili toscane et umbre, V, Firenze 1685, pp. 295 ss.; A. Palma di Cesuola, Il catalogo dei manoscritti ital. esistenti nel Museo Britannico di Londra, Torino 1890, p. 45; M. Barbi, Della fortuna di Dante nel secolo XVI, Pisa 1890, pp. 310-316; A. Castelli, Un poemetto ined. del sec. XVI…, in Aevum, XII (1938), pp. 285 ss.; F. Flamini, Il Cinquecento, Milano s.d., ad Ind.