zara
Di origine araba (zahr, nome popolare del " dado "), è in D. affidato a un unico luogo della Commedia (dove si può anche leggere azara o azzara, più prossimo alle forme galliche: cfr. Petrocchi, ad l.), in Pg VI 1 Quando si parte il gioco de la zara, / colui che perde si riman dolente, / repetendo le volte, e tristo impara; / con l'altro se ne va tutta la gente.
La deliziosa scenetta trova piena sintonia e quasi conferma ‛ storica ' - almeno come fatto di costume - in un brano del giurista bolognese Odofredo (m. 1265) ricordato dal Tamassia: " sicut videmus in lusoribus ad taxillas [dadi] vel similem ludum, nam multi stare solent ad videndum ludum, et quando unus lusorum obtinet in ludo, illi instantes solent petere aliquid sibi dari de lucro illo in ludo habito, et illi lusores dare solent ". Quanto al gioco della z. (denominato altrimenti ‛ ludus morbiolae ', ‛ ludus taxillorum ' o ‛ ludus aleae ' e a Bologna, con locuzione oltremodo espressiva, ‛ ludus ad gnaffum '), una ricca letteratura, che comprende fra gli altri numerosi trecentisti (Petrarca nel De Remediis, Antonio Beccari, Franco Sacchetti, Eustache Deschamps, il Vannozzo nella frottola Dè, bona zente), ci restituisce realistiche pagine di vita medievale mettendone in luce la straordinaria diffusione. Ciò avveniva a dispetto dei continui divieti e delle norme restrittive contro gli abusi, negli statuti comunali, dopo che a Bologna nel 1272 si era consentito " ludum azardi et biscazariae in quatuor locis tantum in civitate vel burgis "; ma nel 1419 - degenerata la consuetudine in malcostume - si proibì qualsiasi gioco di azzardo e si chiusero le botteghe di ‛ bescazerii ' e ‛ marochi ' (cfr. anche Contini, in nota a Ruggieri Apugliese, in Poeti I 891; cfr. anche II 271).
Nella forma più comune fuori d'Italia, esso consisteva, pur con varie differenze di dettaglio da luogo a luogo, nel gettare sul tavoliere tre dadi: era considerato vincitore chi riusciva ad ottenere egual numero sui tre dadi o almeno su due dadi, e nel caso che più giocatori ottenessero questo medesimo risultato vinceva il numero complessivo maggiore. Norme alquanto diverse regolavano invece il gioco nella forma più in voga in Italia: ciascun giocatore gettava sul banco tre o, più raramente, due dadi, dichiarando nello stesso tempo ad alta voce un numero; chi non riusciva a indovinare con la sua dichiarazione (che pure, da parte dei più abili, era frutto di accurati calcoli di probabilità) il numero uscente era considerato perdente e doveva versare come posta una quantità di monete pari al numero uscito; vinceva invece, e intascava le monete così raccolte, il giocatore la cui preventiva dichiarazione era confermata dai dadi. Erano considerati nulli, cioè non dichiaratili né perdenti, né vincenti (e detti zara per un arbitrario collegamento di questo termine con " zero "), i numeri ottenibili con una sola combinazione tra i tre o due dadi (ossia i due numeri più bassi e i due numeri più alti possibili: 3 e 4, 17 e 18 per il gioco con tre dadi; 2 e 3, 11 e 12 per il gioco con due dadi).
Bibl. - G. Libri, Histoire des sciences mathématiques en Italie, II, Parigi 1838, 188-189; L. Zdekauer, Il giuoco in Italia nei secoli XIII e XIV e specialmente in Firenze, in " Arch. Stor. Ital. " s. 4, XVIII (1886) 20-74; N. Tamassia, Una nota dantesca, in " Giorn. stor. " XXI (1896) 456-457; G. Ungarelli - F. Giorgi, Documenti riguardanti il giuoco in Bologna nei secoli XIII-XIV, in " Atti Mem. R. Deputazione St. Patria Romagna " s. 3, XI (1901) 360 ss.; E. Levi, Francesco di Vannozzo e la lirica nelle corti lombarde durante la seconda metà del secolo XIV, Firenze 1908, 35-47, 309-311; P. Sella, Nomi latini di giuochi negli statuti italiani (secoli XIII-XVI), in " Archivum Latinum Medii Aevi " V (1930) 199 ss.; I. Negri-V. Vercelloni, I giochi di dadi d'azzardo e di passatempo dei gentiluomini e dei pirati, Milano 1958, 21; L. Scorrano, D., Ariosto e il gioco della zara, in " L'Alighieri " XIII (1972) 2, 62-67.