ZEUSI (Ζεῦξις, Ζεύξιππος, Zeuxis)
Pittore vissuto nella seconda metà del V sec. a. C. Fu, secondo il giudizio degli antichi, uno dei più grandi pittori greci. La fama delle sue opere ispirò anche gli artisti del Rinascimento.
Plinio stabiliva la fioritura del pittore al quarto anno della xcv Olimpiade (397 a. C.) a preferenza della Olimpiade lxxxix (424-421) proposta da alcune delle sue fonti (Plin., Nat. hist., xxxv, 61). In realtà, la più antica testimonianza dell'attività di Z. risale agli anni tra il 434 ed il 429, nei quali si ambienta il Protagora: col nome di Zeuxippos, il pittore viene citato come esempio di persona particolarmente capace di dar consigli nella sua arte, benché giovane (Plat., Prot., 318 b). Z. appare poi come interlocutore nei Memorabili di Senofonte (i, 4, 3) e nel Simposio (iv, 63), ed è citato nel Gorgia (Plat., Gorg., 453 c). Negli Acarnesi, recitati il 426-5 a. C., si parla di un "Eros come quello che è stato dipinto con la corona di fiori", e lo scoliaste aggiunge che si trattava dell'"Eros giovanissimo e coronato di rose" dipinto da Z. nel tempio di Afrodite en kèpois (Aristoph., Acharn., 991): ultima citazione di un contemporaneo è quella di Isocrate (Antid., 2). Rivale di Timanthes e del più giovane Parrasio, Z. avrebbe conosciuto secondo Plinio, anche pittori della nuova generazione come Eupompos e Androkydes (Nat. hist., xxxv, 64), ma la sua attività non è sicuramente documentabile oltre l'inizio del IV sec., con il periodo trascorso al servizio del re Archelao di Macedonia (413-399 a. C.). Sostanzialmente le date tramandate da Plinio sembrano indicare i momenti estremi dell'attività dell'artista.
I due maestri, ai quali un epigramma di Apollodoros diceva che Z. aveva "portato via l'arte", Damophilos di Imera e Neseus di Thasos, avvicinerebbero Z. l'uno alla Magna Grecia, l'altro all'ambiente orientale e addirittura alla scuola di Polignoto; Plinio era incerto tra i due (Nat. hist., xxxv, 61), e in realtà il problema è legato a quello parimenti insoluto, della città di origine di Z., indicata dalle fonti in Eraclea, senza però che si sappia quale, delle città di questo nome. Ammettendo la provenienza da Eraclea in Magna Grecia, si potrebbe pensare che veramente i maestri fossero due, il primo in Italia, il secondo ad Atene, ma la città fu fondata nel 432 a. C. e quindi non può essere stata la sua patria, a meno di pensare che Z. vi fosse giunto giovanissimo con una famiglia di coloni. Si tratta più probabilmente di Eraclea sul Ponto.
Varî sono i luoghi dell'attività di Z., oltre la Sicilia e la Magna Grecia: Efeso, la Macedonia, forse Samo, ed Atene, dove si localizza il maggior numero di opere. A questo periodo va assegnato infatti l'Eros del tempio di Afrodite, la prima opera databile con buona approssimazione, come si è visto, di cui si può forse cogliere un'eco già negli Eroti di Meidias (v. eros) e che si è voluto anche identificare con la figura sorridente distesa su di un letto di rose, di un epigramma (Anth. Gr., xvi, 210); troppo vago è invece il riferimento all'Eros con l'arco dell'elegia di Properzio (Quicumque ille fuit puerum qui pinxit Amorem, ii, 12, 1 ss.). Alla produzione iniziale di Z. va assegnata anche la Penelope, nella piena tradizione polignotea dell'èthos (in qua pinxisse mores videtur, Plin., Nat. hist., xxxv, 63), che si può mettere in relazione con il tipo spesso raffigurato nella ceramica e in scultura dopo la metà del V sec., col gomito poggiato sulle ginocchia e la testa reclinata sulla mano (v. penelope). Ad Atene erano familiari anche certe figure di vènti, e di divinità marine, che Luciano richiama per descrivere un filosofo barbuto e scarmigliato "un Boreas in persona, e un Tritone, come quelli che ha dipinto Zeusi" (Luc., Timon, 54); ad Atene, o a Samo, si ambienta la gara con Parrasio, nella quale Z. presentò un fanciullo con un grappolo d'uva (Plin., Nat. hist., xxxv, 64), opera nota anche da un'altra versione dell'aneddoto (Senec., Controv., x, 5, 27); ma soprattutto era ammirata la Famiglia dei centauri, opera di stupefacente modernità, nella quale il tema mitico non era svolto in un episodio determinato, ma acquistava per la prima volta un sapore di genere. Il quadro, asportato da Silla nel saccheggio dell'89 a. C., andò perduto in naufragio al Capo Maléo: Luciano poté vederne la copia, lasciandoci una delle più suggestive pagine ecfrastiche della letteratura greca (Luc., Zeuxis, 3-8). La novità iconografica stava nella rappresentazione della femmina del centauro, che su di un prato allattava due piccoli, uno alla maniera umana l'altro come un puledro; dietro una quinta di paesaggio, si affacciava il centauro ridente con un leoncino tra le mani. Da tempo si è voluta riconoscere una derivazione dall'opera di Z. nella centauressa di un frammento di ceramica italiota, e con maggiori probabilità in un cammeo; il volto del centauro troverebbe pure confronti nella ceramica del IV sec. (v. centauri), ma soprattutto si dovrà valorizzare il mosaico da Villa Adriana che sembra un esatto pendant e quasi la drammatica continuazione della scena descritta da Luciano: l'aggressione delle fiere molestate dalla cattura del leoncino (v. mosaico, fig. 304). Per la città di Efeso, Z. aveva eseguito un Menelao in atto di offrire una libazione, apprezzato anche da Alessandro (Tzetz., Chil., viii, 388 ss.) e con ogni probabilità nell'Artemision era il quadro di Megabyzos, da intendere non il satrapo di Artaserse I, ma l'epiteto del grande sacerdote di Artemide (Aelian., Var. Hist., ii, 2; v. parraiso, nn. 9, 10).
In Macedonia eseguì per Archelao la decorazione del palazzo reale, forse nella nuova sede di Dion, ma a Pella viene ora segnalata la scoperta del probabile palazzo di Archelao (Ph. Petsas, in Archaeology, xvii, 1964, p. 74 ss., fig. 18), e non sarebbe impossibile riconoscere una derivazione da Z. nel mosaico di Pella con il ratto di Elena, che dipende da un originale alquanto più antico di quelli degli altri mosaici. Si trattava, comunque di uno degli ultimi grandi cicli parietali della pittura greca, per il quale Z. ricevette il compenso di 400 mine (Aelian., Var. Hist., xiv, 17); donando, però, al re un celebre Pan, divinità il cui culto era particolarmente diffuso in Macedonia (Plin., Nat. hist., xxxv, 62). Dalle descrizioni di Silio Italico (Pun., xiii, 327 ss.) e di Filostrato Maggiore (Im., ii, 11) si direbbe che anche qui il carattere genericamente fermo corrispondeva alla tendenza di Z. ad interpretare in maniera realistica ed entro la sfera umana i personaggi mostruosi del mito. Non sappiamo se con la creazione di Z. si possa mettere in relazione il tipo di Pan imberbe con gambe umane, che compare nei rilievi ateniesi alla fine del V sec. (v. pan). Dalla Macedonia era stato portato a Roma anche il Marsyas religatus che Plinio vide nel Tempio della Concordia (Nat. hist., xxxv, 66), per il quale è stata recentemente riproposta l'identificazione con la figurazione dello skỳphos di Salonicco (N. H. Kondoleon, in Fasti Arch., xiii, 1960, n. 1497); a giudicare dalla descrizione di Filostrato Minore (Im., 2) erano presenti alla scena, oltre che Apollo, come nella rappresentazione vascolare, Sileno, Olympos, in atto di supplicare per la salvezza del padrone, Nike, lo scita che affilava il coltello e la personificazione del fiume che prendeva nome da Marsia, e pertanto un'idea più completa si può averla dai rilievi neoattici del Museo dei Conservatori (v. marsia).
L'effettiva estensione dell'opera di Z. in Magna Grecia è incerta: si ha notizia della commissione della Elena da parte degli Agrigentini, e in questa città Z. avrebbe scelto cinque modelle "perché la pittura rappresentasse ciò che di più perfetto era in ciascuna di esse"; ma il quadro fu dedicato nel santuario di Hera al Capo Lacinio (Plin., Nat. hist., xxxv, 64) e perciò forse l'episodio è stato anche riferito a Crotone (Dion. Halic., De priscis script. cens., v, 417). Cicerone attribuiva a Z. "molti altri quadri" nello Heraion, alcuni dei quali si conservavano fino al suo tempo (Cic., De invent., ii, 1, 1). Sembra che l'Elena venisse portata da Pirro in Ambracia e di qui, nel 189 a. C., sarebbe stata portata a Roma, dove Plinio la vide nel Portico di Filippo (Nat. hist., xxxv, 66), ad opera di Fulvio Nobiliore durante il saccheggio della Acarnania (Polyb., xxi, 30; Liv., xxxviii, 9, 13). La notizia tarda che l'Elena era in un portico dell'agorà di Atene, si riferisce forse ad una copia (Eusth., ad Il., xi, 630; The Athenian Agora, iii, 1957, p. 194, n. 634). Nonostante la celebrità dell'opera, la ricostruzione dell'Elena è impossibile: la nudità della figura e la severa composizione potrebbero far prendere in considerazione lo specchio etrusco con Elena tra i Dioscuri e Zeus (v. elena, fig. 357). Ad Agrigento, Z. avrebbe donato l'Alcmena (Plin., Nat. hist., xxxv, 62) che non si sa se si deve identificare con "Eracle bambino in atto di strozzare i serpenti alla presenza di Alcmena impaurita e di Anfitrione" (Plin., Nat. hist., xxxv, 63; Philostr. Min., Im., v, 1), opera d'incerta collocazione, che sembra imprudente collegare al gruppo di Zeus in trono (magnificus) tra gli altri dèi, che precede nella descrizione pliniana, per pensare ad un solo quadro dedicato ad Agrigento. I dipinti pompeiani suggeriscono, pur in versioni poverissime, il solo gruppo di Eracle con la madre e Anfitrione, né la presenza di Zeus è attestata nelle figurazioni vascolari. Testimonianze particolari per la figura di Eracle si son volute riconoscere in monete di Crotone e di Tebe, ed eventualmente nella statua del Museo Capitolino (v. eracle, Monumenti considerati, a, i, fig. 468). Delle altre opere la destinazione è ignota: un Atleta, di cui un epigramma dell'autore diceva che sarebbe stato invidiato più che imitato (Plin., Nat. hist., xxxv, 63), ed una vecchia, ultima opera del pittore, che sarebbe morto per il riso suscitato dal quadro (Festus, s. v. Pictor). Incerta è la natura dei monochromata ex albo, di cui parla Plinio (Nat. hist., xxxv, 64) per i quali appare difficile l'accostamento ai "monocromi" ercolanesi o l'ipotesi che si trattasse di schizzi in bianco su fondo scuro. Più probabile il confronto con l'oligocromia delle lèkythoi ed eventualmente con i disegni su avorio di Kerč (v. monochromata). Singolare la notizia pliniana di figlina opera, unici monumenti di Z. rimasti ad Ambracia, dopo le spoliazioni di Fulvio Nobiliore (Nat. hist., xxxv, 66) per i quali si è pensato a vasi o a metope di terracotta dipinta. Con molta cautela infine si deve accogliere l'affermazione di Petronio che un originale di Z. si conservava in ottime condizioni nella pinacoteca di una città della Campania: et Zeuxidos manus vidi nondum vetustatis iniuria victas (Sat.., 83, 1; v. petronio, vol. vi, p. 102).
La critica ellenistica, con un giudizio che si fa risalire fondatamente a Xenokrates (v.), vedeva in Z. il continuatore delle ricerche di Apollodoros: ab hoc artis fores apertas Zeuxis Heracleotes intravit (Plin., Nat. hist., xxxiv, 61); continuità che crediamo di identificare in un approfondimento dei problemi spaziali, ma con notevoli arricchimenti cromatici, e sostanziali novità iconografiche e di contenuto psicologico. Il vivace cromatismo della ceramica italiota fin dai primi decenni del IV sec. potrebbe essere infatti un'eco dell'opera di Z.; ed è stato notato che la monetazione delle città della Magna Grecia, sul finire del V sec., si modifica nel senso di un più libero stile pittorico particolarmente apprezzabile negli stateri di Crotone. Anche dal punto di vista iconografico è sembrato che il frammento àpulo col Laocoonte dipenda da un quadro di Z. (v. laocoonte, fig. 546), ma si potrebbe aggiungere alla serie anche il frammento attribuito ad Assteas con Archemoros aggredito dal serpente (v. archemoros). Parimenti ad Atene, la ricerca di un nuovo ideale femminile opposto al tipo atietico maschile dominante nella cultura figurativa del tempo, perseguita da Z. nell'Elena e nelle stesse figure di Eros e di fanciulli, ha, come si è visto, un riflesso nella pittura del maestro di Meidias: Z. aveva risolto così il tema che la plastica greca avrebbe affrontato solo con l'Afrodite Cnidia di Prassitele. Che Z. abbia elaborato un canone originale di proporzioni, lo attesta la critica di Plinio, che egli faceva le teste "troppo grandi". E ancora un elemento tratto dal giudizio di Xenokrates, di sapore lisippeo; lo stesso motivo era invece oggetto di lode in Quintiliano, il quale sapeva che "il pittore aveva fatto le membra più grandi credendo che questa caratteristica conferisse nobiltà e maestà e, si crede, seguendo in questo Omero al quale piacciono sempre le forme più robuste anche per le figure femminili" (Inst., xii, 10, 4). La sostanza di questo giudizio si può intravvedere anche nell'aneddoto popolare, e forse tardo, del Fanciullo con l'uva: Z. preferiva ciò che nel quadro era meno somigliante, e quindi più bello; ma l'esatta formulazione era già in Aristotele: "nella poesia il verosimile impossibile è preferibile all'inverosi simile possibile. Ed in rapporto al meglio, i personaggi devono essere come li dipingeva Z., cioè l'opera deve sorpassare il modello" (Poët., xxxv, 1461 b, 9). La nuova interpretazione del mito proposta da Z., cui non era estraneo il naturalismo psicologico del teatro di Euripide, lo pone alle origini dell'antropomorfismo del IV sec.: le figure di Pan, dei vènti, dei tritoni e soprattutto quelle dei centauri, introdotte, non senza la suggestione fidiaca, nella sfera dei sentimenti umani, dovevano suggerire un'atmosfera surreale che parve ai contemporanei una straordinaria invenzione. Luciano, tuttavia, avverte che di queste lodi neppure il pittore era soddisfatto, sembrandogli dettate da elementi esteriori: il personaggio dell'artista "incompreso" dai contemporanei, nasce realmente con Z., poiché allora si compie il superamento del carattere artigiano della pittura, iniziato con Polignoto, e si profila il parziale rinnovamento dei suoi valori celebrativi, religiosi ed etici. Aspetti di questa trasformazione che interessa tutta la storia della pittura greca sono nell'opera di Z. il passaggio dai grandi cicli parietali al quadro di cavalletto, il gusto per il soggetto di genere e la stessa dignità dell'artista, che pretendeva forti compensi, così come sapeva donare liberalmente i suoi quadri. La scelta dei temi e l'alta qualità dello stile (Luciano lodava "la perfetta fusione dei colori ed il loro opportuno sovrapporsi, e lo stendere le ombre secondo la necessità e la grandiosità"), la finezza dei problemi psicologici risolti nei personaggi mitici, rivelano in Z. il primo interprete del mondo intellettuale dei sofisti ed il primo pittore dell'antichità che appare teso alla realizzazione di un programma d'arte individuale.
Monumenti considerati. - V. i diversi esponenti iconografici citati nel testo; per gli stateri di Crotone: B. V. Head, Historia numorum2, Oxford 1911, p. 96; Ph. W. Lehmann, Statues on Coins, New York 1946, p. 45, n. 13.
Bibl.: J. Overbeck, Schriftquellen, nn. 1647-1691; H. Brunn, Gesch. Griech. Künstler, II, Stoccarda 1889, p. 75; A. Reinach, Textes grecs et latins relatifs à l'histoire de la peinture ancienne, I, Parigi 1921, p. 181 ss.; E. Pfuhl, Malerei u. Zeichnung der Griechen, II, Monaco 1923, pp. 681-689; M. H. Swindler, Ancient Painting, New Haven 1929, p. 228 ss.; S. Ferri, Plinio il Vechio, Roma 1946, pp. 22; 149 ss.; G. Lippold, in Jahrbuch, LXI-LXII, 1946-47, pp. 88-94; T. Dohrn, in Thieme-Becker, XXXVI, 1947, p. 472 ss.; W. Kraiker, Kentaurenbild des Zeuxis, in 106°. Winckelmannspr., Berlino 1950; G. Becatti, Arte e gusto negli scrittori latini, Firenze 1951, pp. 25; 54 s.; 472 e passim; R. Bianchi Bandinelli, Il problema della pittura antica, Firenze 1953, p. 64 ss.; A. Rumpf, Handb., IV, i, Monaco 1953, p. 126 ss.; P. E. Arias, in Enc. Classica, XI, 5, 1964, pp. 398-403.