Zhuangzi
Filosofo cinese (4° sec. a.C.). Noto anche come Zhuang Zhou, è considerato dalla tradizione l’erede del taoismo (➔) dopo Laozi (➔), sebbene non vi siano in proposito riprove storiche. Poco o nulla si conosce della sua vita, se non quanto riferito da Sima Qian nel suo Shiji («Memorie di uno storico»), e cioè che, originario del distretto di Meng, situato nell’odierna provincia dello Henan, visse durante il regno dei sovrani Hui di Liang (370-319 a.C.) e Xuan di Qi (319-301 a.C.) e che ricoprì per pochissimo tempo un’insignificante carica a Qiyuan, ritirandosi poi definitivamente a vita privata. Tutto lo Zhuangzi (➔), l’opera solitamente attribuitagli, e soprattutto i primi sette capitoli, verosimilmente quelli più fedeli al suo pensiero, sono pervasi da una liricità prorompente; alcuni dei temi trattati e ricorrenti, come per es. l’irrisione di ogni tensione logica, la certezza dell’inutilità di qualsivoglia norma o prescrizione rituale, la beata serenità diffusa dalla morte, concepita non come una drammatica interruzione, ma semplicemente come un passaggio di stato simile all’alternarsi delle quattro stagioni, fanno sicuramente di Z. una delle figure di maggior fascino della storia cinese. Nulla è più infido e ingannevole, secondo Z., di quanto si origina o discende dall’apparente stabilità della ragione: tutto fluisce incessantemente e lo sforzo di fissarlo con nomi è davvero velleitario, e conduce tutt’al più a una corrispondenza fra cosa e nome di natura soltanto convenzionale. Pertanto ogni cosa vive perché muore e muore perché vive. È lo stato indivisibile del cosmo che così prevale, donde la fallacia di ogni divisione e di ogni distinzione analitica. Non v’è dunque una via retta né una nociva, come d’altronde non v’è una via o un complesso di regole per ordinare lo Stato o per disciplinare gli uomini. Il saggio agisce conformemente al fluire delle cose, senza mai ostacolarle con la propria volontà: in tal senso, è il dao (➔) medesimo, giacché affrancatosi da ogni distinzione, segue la spontaneità della propria natura. Il cuore del saggio riflette le cose come realmente sono; anzi, il saggio usa il suo cuore proprio come uno specchio terso che riflette fedelmente l’immagine di ciò che è, di ciò che si manifesta, reagendo così al mondo come la fluidità dell’acqua e con l’immediatezza dell’eco. La vera conoscenza non muove dunque dalle distinzioni, ma soprattutto dal loro superamento. E fra tutte le distinzioni la più emblematica è certamente quella fra veglia e sonno, o fra esperienza onirica ed esperienza di veglia, affermata vigorosamente da Z. con il notissimo aneddoto di quel tale che ignora se sia egli a sognare di essere una farfalla o se addirittura sia la farfalla a sognare di essere quel tale. Né è immaginabile alcuna distinzione fra Cielo e uomo, poiché l’uomo autentico, vero (zhenren) è colui in cui non v’è né preponderanza di cielo né di uomo: è, in altri termini, l’ennesima affermazione dell’unità suprema. Anche il trionfo sulla morte, variamente considerata nello Zhuangzi, non è nient’altro, in ultima analisi, che la perdita di individualità dell’uomo o di singolarità della cosa in un’intima identificazione con l’imperituro mutamento del cosmo. Si intende allora perché la dissoluzione corporea o materiale, più che una degenerazione naturale, rappresenta solo un momento dell’inesausta trasformazione del tutto, del dao.