ZINCO (fr. zinc; sp. zinc; ted. Zink; ingl. zinc)
Elemento chimico di simbolo Zn; peso atomico 65,38; numero atomico 30.
Non sembra che questo metallo sia stato utilizzato dagli antichi allo stato elementare; era, invece, adoperato in lega col rame e con lo stagno (oricalco). Le prime preparazioni di esso di cui si ha traccia nella storia, risalgono a Basilio Valentino (sec. XV). Più tardí, nel 1690, von Lohneyss parla dello zinco - metallo grigio rassomigliante allo stagno - come di un corpo già divenuto usuale; ma soltanto verso la fine del sec. XVIII se ne iniziò in Europa la produzione.
È assai diffuso in natura, ma molto raramente lo si ritrova allo stato nativo: il minerale più importante è la blenda (solfuro). Fra gli altri suoi minerali sono da ricordare il carbonato (smithsonite), l'ossido (zincite) e il silicato (calamina).
I metodi di preparazione dello zinco sono essenzialmente due: 1. il procedimento chimico che consiste, in genere, di due operazioni: a) trasformazione del minerale in ossido per arrostimento o calcinazione; b) riduzione dell'ossido con carbone; 2. il procedimento elettrolitico (vedi appresso).
È un metallo bianco azzurrognolo, che cristallizza nel sistema esagonale, tipo compatto; densità 6,9÷7,2. È fragile a temperatura ordinaria, ma diventa duttile e si può laminare a 100-150°; a 200° torna a essere fragile, tanto che si può polverizzare in un mortaio con facilità.
Fonde a 419°,4 (Holborn e Day), bolle a circa 920° (secondo alcuni sperimentatori il punto d'ebollizione s'aggirerebbe intorno a 930°).
All'aria umida si altera facilmente, ma lo strato di ossido e carbonato basico che si forma preserva il metallo dall'ulteriore alterazione. Questa sua proprietà viene utilizzata per ricoprire con zinco altri metalli e impedire ch'essi si alterino: si prepara, così, il ferro zincato o galvanizzato.
Al rosso, il metallo brucia nell'aria con fiamma verdastra, dando dei fiocchi bianchi, leggieri, di ossido (lana filosofica). Lo zinco commerciale si scioglie facilmente negli acidi diluiti; si discioglie negl'idrati alcalini, con sviluppo di H e formazione degli zincati corrispondenti.
Lo zinco e i suoi composti trovano numerose applicazioni. Oltre che per zincare il ferro, il metallo è anche assai utilizzato in lega con altri elementi (con il rame forma l'ottone, con lo stagno e col rame il bronzo, col rame e col nichel l'argentana, ecc.). In laboratorio si adopera come generatore d'idrogeno (vedi appresso).
I principali composti sono i seguenti:
L'ossido (ZnO) si ottiene facendo bruciare il metallo all'aria, o decomponendo col calore l'idrato, il carbonato, ecc. È una polvere bianca che, a caldo, si colora in giallo, ma torna a essere bianca allorché si raffredda. Viene assai impiegato come sostanza colorante (bianco di zinco che non annerisce a contatto dell'idrogeno solforato), nella fabbricazione del linoleum e della tela cerata; in medicina, come astringente e antisettico e infine in odontoiatria, perché, con l'acido fosforico, indurisce dando un cemento. Cristallizzato, lo si ritrova in natura (zincite, v.), ma lo si può preparare anche artificialmente.
L'idrato, Zn(OH)2, si separa sotto forma di una massa bianca gelatinosa, aggiungendo un idrato alcalino alla soluzione di un sale di zinco: ZnCl2 + 2KOH = 2KCl + Zn(OH)2. Esso dimostra proprietà anfotere in quanto, non solo si scioglie negli acidi forti, per dare i sali di zinco (Zn++), ma torna a sciogliersi nell'eccesso di idrato alcalino e, in genere, nelle basi forti, a formare zincati (ZnO2- - o ZnO2H). L'idrato precipita parzialmente anche aggiungendo ammoniaca alla soluzione di un sale di zinco esente da sali ammoniacali: in questo caso esso si scioglie nell'eccesso di reattivo per formazione di ioni complessi: [Zn(NH3)n]++.
Sciogliendo il metallo, il suo ossido o il suo carbonato in acido cloridrico e cristallizzando la soluzione molto concentrata, si separa il cloruro di zinco idrato; l'idrolisi che accompagna l'evaporazione dà sempre origine a un po' di ossicloruro: ZnCl2+HOH ⇄ Zn(OH)Cl + HCl. Anidro (ZnCl2) lo si prepara, ad es., distillanda a secco solfato di zinco e cloruro di calcio secchi. Il cloruro di zinco si presenta in masse bianche, molli come la cera e semitrasparenti: lo si è chiamato "burro di zinco". È molto igroscopico e per la sua avidità per l'acqua viene spesso usato come disidratante. Allo stato solido, lo si adopera in medicina come caustico. Viene usato dai saldatori, perché, per evaporazione della soluzione acquosa, si libera HCl che scioglie gli ossidi metallici rendendo tersa la superficie del metallo. È anche impiegato per la conservazione del legno d'opera.
Il solfato di zinco si prepara sciogliendo il metallo in acido solforico diluito: dei suoi idrati, il più comune è quello contenente 7 molecole di acqua (ZnSO4•H2O, vetriolo bianco) che cristallizza in prismi ortorombici isomorfi col solfato di magnesio (MgSO4•7H2O). Nell'industria si prepara in grande quantità arrostendo con precauzione il solfuro.
Il solfato si usa per rendere ininfiammabili i tessuti, per la fabbricazione del litopone (BaS + ZnSO4 = BaSO4 + ZnS); viene anche adoperato in medicina.
Il carbonato (ZnCO3) si ritrova in natura e costituisce il minerale, smithsonite. Trattando una soluzione di un sale di zinco con un carbonato alcalino, si precipitano dei prodotti instabili di composizione variabile (carbonati basici).
Il solfuro (ZnS) costituisce i minerali blenda e wuitzite a seconda della struttura cristallina (cubica la prima, esagonale la seconda). Addizionando un solfuro alcalino alla soluzione neutra di un sale di zinco o facendo in essa gorgogliare una corrente di H2S, previa aggiunta di un acetato alcalino, precipita ZnS hianco (il solo solfuro dei metalli pesanti comuni, di questo colore); esso è solubile negli acidi forti, non in quelli deboli come l'ac. acetico e appunto, per neutralizzare l'acido forte che si libera dal sale di zinco durante la precipitazione con H2S e ottenere, quindi, una precipitazione completa del solfuro, è necessaria l'aggiunta di un acetato alcalino:
Il solfuro serve come sostanza colorante, specialmente mescolato al solfato di bario (litopone), giacché possiede un buon potere ricoprente. Quando il solfuro, contenente tracce di Cu o di certi altri metalli pesanti. viene scaldato fortemente, dopo esposizione alla luce, dà una fosforescenza verde o bluastra: lo s'impiega, perciò, per la fabbricazione di pitture luminose. Scintillamenti sono percettibili al microscopio anche se si pone vicino a uno schermo spalmato di questo solfuro un sale di radio.
Riconoscimento e dosaggio. - A causa della volatilità del metallo, i suoi composti, scaldati al carbone con soda mediante il cannello ferruminatorio, dànno soltanto un'aureola gialla a caldo, bianca a freddo, senza globulo metallico. L'ossido di zinco e i composti che per riscaldamento si trasformano in esso, umettati con una soluzione di nitrato di cobalto e arroventati, dànno una massa fusibile verde (verde di Rinmann).
Lo zinco si ricerca al 4° gruppo analitico, precipitandolo, in ambiente ammoniacale, allo stato di ZnS, con solfuro ammonico, previa eliminazione dei cationi dei gruppi precedenti. Numerosi reattivi organici sono stati proposti per la sua ricerca qualitativa, fra cui la difenilamina, il difeniltiocarbazone, ecc.
Quantitativamente lo si dosa, precipitandolo in ambiente neutro come ZnNH4PO4, trasformandolo, con opportuno riscaldamento, in Zn2P2O7 e pesandolo come tale. Esso può essere determinato come ZnO o ZnS e allo stato elementare per elettrolisi della soluzione di alcuni suoi sali.
Volumetricamente, si può dosare: a) con soluzione titolata di K4[Fe(CN)6], potenziometricamente, o adoperando come indicatore esterno l'acetato d'uranile; b) con soluzione titolata di Na2S (indicatore esterno: acetato di piombo).
Metallurgia.
Uno dei più reputati e brillanti metallurgisti viventi, Léon Guillet, nel 1917 scriveva: "La metallurgia dello zinco è una delle metallurgie più curiose per i suoi principî e apparecchi. È certamente quella che ha fatto i progressi meno importanti. Tutte le sue anomalie provengono dal fatto che il metallo è ottenuto allo stato di vapore, ciò che fa nascere le più gravi difficoltà". Invero, forse nessun'altra metallurgia, dei metalli non ferrosi, maturava più profondi rivolgimenti di quella dello zinco. L'evoluzione allora era agli inizî e incerta: è giunta alle maggiori realizzazioni nell'ultimo ventennio.
A parte la conoscenza indiretta degli antichi, che introducevano il metallo nel rame, usando l'ossido, per produrre gli ottoni, lo zinco venne diffuso in Europa dopo le grandi esplorazioni dell'Oriente, importato dalle Indie orientali, fino a quasi tutto il sec. XVIII. Soltanto alla fine di questo secolo, dopo le faticose e incerte iniziative industriali degli Inglesi, risalenti al 1730, si sperimentavano i primi aggregati a muffole presso la vetreria di Wessola (Slesia) nel 1798, e solo nel 1837 la grande società belga della Vieille Montagne, tuttora operante, perveniva ai primi impianti con quel tipo di forno a più ordini di muffole sovrapposte, detti belga-slesiani oppure renani, che tuttora domina nella grande metallurgia dello zinco.
In questi forni, nelle muffole, si operava la riduzione con carbone dei minerali ossidati e la distillazione concomitante del metallo.
I minerali solforati, le blende, rimasero inutilizzati fino a epoca più recente. La combustione della blenda, o arrostimento desolforante, per ottenere la cenere ossidata, si sviluppa nella regione renana dal 1870 al 1880, con forni di desolforazione di tipo superato soltanto nell'ultimo quindicennio. Fino al 1914 la metallurgia è statica o quasi nei suoi metodi e nei suoi forni, ma già allora l'impiego della blenda è predominante, e da quell'epoca può datarsi l'inizio effettivo dell'evoluzione che ha condotto ai risultati che può vantare l'attuale metallurgia dello zinco.
Due ordini di problemi s'imposero: l'uno costituito dalla scarsa efficienza complessiva dei forni a muffola e dalle difficoltà concomitanti della mano d'opera, che determinavano la tendenza a modificare i vecchi forni, applicando muffole di maggiore potenza ad alimentazione automatica o quasi. Questo indirizzo, più volte perseguito e ripreso, oggi si è concretato in quel tipo di grandi storte verticali, costruite in mattoni di carborundo, soprattutto elaborato dalla grande società americana New Jersey Co. e introdotto in diversi impianti dal 1925 in poi.
Dall'altro lato i successi generali dell'elettrometallurgia inducevano ad abbandonare il trattamento termico, sempre altamente dispendioso per il combustibile e per i refrattarî. Nel periodo della guerra mondiale nell'Europa settentrionale assunse notevole sviluppo il trattamento elettrotermico, che, però, per le sue peculiari difficoltà, non resistette alla crisi dell'immediato dopoguerra, e non è risorto.
Ma l'indirizzo elettrometallurgico portava soprattutto ai processi elettrolitici, per via umida, al solfato di zinco, che si concretavano nei grandiosi impianti nordamericani, australiani, in quelli audaci italiani e poi di altri paesi. L'elettrolisi si diffondeva laddove si avevano adeguate disponibilità di energia elettrica, e si sviluppava tendendo anche all'ottenimento di metallo sempre più puro. L'elettrolisi recava appunto a una nuova situazione: il metallo elettrolitico (che nel 1935 raggiungeva il 25% sulla quota mondiale) è sempre ad alta purezza, non inferiore al 99,95%, e oggi può superare il 99,99%. Presenta, cioè, purezze che difficilmente possono raggiungersi col processo termico, che si conseguono sempre in via secondaria, ridistillando il prodotto di prima fusione.
L'elettrolisi minacciava, e minaccia, seriamente lo sviluppo della metallurgia termica. Per reazione si rielaborarono i metodi già vecchi di ridistillazione dello zinco termico, e si sono costruiti i rettificatori, sul tipo di quelli della New Jersey Co.: si produce metallo termico dal 99,99% al 99,998%. Ma i tecnici dell'elettrolisi non cedettero e, soprattutto per opera del sudafricano Tainton, in questi ultimissimi anni hanno ottenuta la deposizione catodica di metallo che raggiunge altrettanto alte purezze.
Il metallo purissimo, sia termico sia elettrolitico, reca nuova spinta alle applicazioni dello zinco, che si diffondono anche in leghe vecchie e nuove; tra queste, soprattutto quelle a basso tenore di alluminio (4 ÷ 4,1%). Lo zinco diventa attivo concorrente del rame, scartando gli ottoni, e dell'alluminio, dove non si esiga la leggerezza; ed è sostenuto dai bassi prezzi cui concorrono i moderni impianti mineralurgici (fluttuazione) e metallurgici. La nuova posizione dello zinco offre notevole interesse in Italia, poiché essa ha certamente ragguardevoli disponibilità di minerali adeguati ad alimentarne la metallurgia, ben oltre il proprio consumo interno presente, prossimo e futuro, ed è all'avanguardia nello sviluppo dei processi elettrolitici, funzionanti oggi con autonomia completa rispetto a qualsiasi importazione di materie sussidiarie.
I minerali. - Si dividono nei due tipi principali: calamine e blende. Col primo nome si comprendono tanto i carbonati di zinco quanto i silicati: è il termine generico metallurgico per indicare minerali ossidati.
Le calamine e blende venivano commerciate e impiegate a titolo di zinco del 30 ÷ 55%: le prime predominavano fin verso il 1912; oggi sono di gran lunga superate dalle blende che si ottengono per fluttuazione a titoli dal 55% fino al 60 ÷ 61%. È noto che il metodo di fluttuazione, col trattamento selettivo, ha portato a un'economica, razionale separazione della blenda dalla galena, solfuri di frequente associati in vasti giacimenti. In via subordinata, ma sempre importante ai fini della metallurgia, il processo permette anche la separazione della pirite, che pure è di frequente associata alla blenda.
L'Italia, con le sue miniere dell'Iglesiente (Monteponi, S. Giovanni, Montevecchio, Genna-Mari, Ingurtoso, ecc.), con quella del basso Isonzo (Reibl) e altre, offre un insieme ragguardevole di produzioni varie, fra le quali predominano oggi le blende, il cui gettito è dato ora soprattutto dagl'impianti di fluttuazione di Montevecchio, Ingurtoso, Reibl e prossimamente anche di Monteponi.
Tra le produzioni attuali più significative di calamine sono quelle della miniera di Campo Pisano presso Iglesias. La mineralizzazione ivi è data da carbonato che impregna intimamente una massa limonitica, con arricchimenti varî che vanno fino al 30 ÷ 40% di zinco per ridursi a circa il 18 ÷ 20% (e allora con tenori di ferro dell'ordine del 27 ÷ 29%). Queste calamine nelle frazioni ricche passano al trattamento termico, previa calcinazione; nelle frazioni povere vanno all'elettrolisi a Monteponi.
Le blende di fluttuazione che oggi alimentano i più grandi impianti italiani per elettrolisi (Porto Marghera, Crotone), possono considerarsi anche tipiche. Ad es., la blenda della miniera di Montevecchio corrisponde attualmente alle composizioni medie seguenti: Zn = 60,30; S = 32,94; Pb = 0,95; Cu = 0,21; Cd = 0,52; Sb = 0,078; As = o,0070; Ni = 0,0034, Co = 0,0074%.
I componenti secondarî possono oscillare entro limiti abbastanza vasti, soprattutto il cobalto, che raggiunge di frequente valori superiori al 0,010%. Contengono alcuni elementi più rari, carattere questo pure frequente delle blende di varie regioni del mondo: sono stati particolarmente rilevati il gallio, il germanio, l'indio. Nelle blende arricchite di Montevecchio abbiamo, per mille: In da 0,7 a 0,12, Ge da 0,09 a o,16; Ga da 0,16 a 0,30.
Preparazione preventiva dei minerali. - Scarsa importanza presenta oggi la calcinazione preventiva delle calamine, dato il limitato consumo di queste. Venivano generalmente calcinate in forni a tino, talvolta anche con griglie laterali, portandole a temperature da 600° a 950°, a seconda dei casi, per eliminarne l'anidride carbonica e l'acqua. Trattamento analogo può essere compiuto al forno rotativo tipo Oxland. La calcinazione è stata anche abbinata alla susseguente cernita magnetica, per separare le frazioni sterili ferrifere.
Interesse vasto e attuale presentano invece i procedimenti e gl'impianti di arrostimento delle blende; questi assumono decisamente i tipi attuali dal 1914 in poi. Il processo è semplice in schema
con uno sviluppo di 1160 calorie per 1 kg. di ZnS. L'arrostimento si compie raggiungendo o superando di poco i 900° per conseguire la desolforazione spinta. Nelle fasi intermedie del trattamento può formarsi solfato di zinco (solfatizzazione) che si decompone completamente alle più alte temperature.
Il problema era questo: l'esotermicità relativamente debole della reazione rende poco veloce la combustione delle blende, che si attenua quanto più procede; con le blende povere di un tempo (40 ÷ 42% di Zn; circa 20% di S) era indispensabile l'impiego di un riscaldamento sussidiario molto attivo, con un consumo di carbone dal 10 al 20% sul minerale crudo; e, dovendosi utilizzare i gas solforosi quasi sempre in apparecchi per acido solforico a camere di piombo, le due combustioni, blenda e carbone, dovevano tenersi distinte. Di qui la necessità di forni a suole, e a suole e vòlte riscaldate. Derivavano da quel tipo ben noto, detto Maletra, già usato per la pirite, ma recavano appunto la maggiore complessità per il riscaldamento sussidiario. Furono questi i forni a mano, piccole unità riunite in grandi aggregati, che funzionavano anche dopo il 1920, detti a seconda dei primi costruttori "Rhenania" "Delplace". Questo ultimo era uno dei più diffusi.
Tali forni sono oggi tutti superati. Anche per la blenda è incontrastato il dominio dei forni meccanici, derivati dai Mac Dougal e Herreschoff primitivi, da cui pure scendono i forni attualmente impiegati nell'arrostimento delle piriti e delle calcopiriti.
La diffusione del forno meccanico è legata a quella della blenda concentrata, di fluttuazione, il cui tenore di zolfo raggiunge e supera il 30%, ed è dovuta alle grandi unità cui la tecnica delle costruzioni è pervenuta. L'alta percentuale di zolfo e la mole del forno consentono consumi di combustibile (gas di gasogeno, o olio pesante) estremamente ridotti. Il riscaldamento sussidiario può anche essere saltuario, per elevare la temperatura del forno soltanto nei periodi ín cui questa si abbassi, per manutenzioni o altre attenuazioni della portata. Tali risultati sono conseguiti con accorti ricuperi di calore, impiegando cioè per la combustione del minerale l'aria preriscaldata negli organi meccanici dei forni stessi (braccia).
Le diverse costruzioni derivano oggi dal tipo Wedge. In Europa, principalmente, l'applicazione di questi fomi venne preceduta da un modello analogo, detto di Huntington-Heberlein, derivato dal Herreschoff ma ispirato al vecchio forno Delplace, recante cioè il riscaldamento dell'ultima suola mediante due semigasogeni, applicati direttamente al forno, diametralmente opposti (fig. 1). Raggiungeva portate di circa 20 t. al giorno, con blende al 20% di zolfo; oggi è superato. In Italia ne avemmo un'istallazione a S. Dalmazzo di Tenda che ha funzionato nel 1921 e di poi, per qualche anno, e ha recato un interessante contributo alle prime applicazioni dei forni meccanici per le blende. Il tipo Wedge, che ha assunto lo sviluppo fino a nove e undici suole sovrapposte, per una portata di 25 ÷ 30 t. al giorno (con 9 suole) raggiunge il diametro esterno di circa 6 m. con un'altezza totale del cilindro del forno di circa 8 m. Alle potenze massime di circa 50 t. al giorno di blenda al 30 ÷ 32% di S, i forni assumono diametro esterno di m. 7,60, con un'altezza di circa m. 8,30. In questi grandi apparecchi il riscaldamento sussidiario è fatto direttamente mediante piccoli bruciatori a gas o a olio pesante distribuiti nei diversi ripiani intermedî e inferiori. Non preoccupa la miscela dei gas della combustione sussidiaria con quelli solforosi, particolarmente laddove i gas si utilizzano col metodo catalitico per produrre anidride solforica. Si è proposto, e ha avuto limitata applicazione, l'uso dello zolfo quale combustibile sussidiario.
In un forno Wedge, costruzione Humboldt, le temperature variano dagli 800° circa al 1° piano in alto ai 600° circa del 9° piano in basso, con massimi nelle suole intermedie fino a 880°-900°. I gas solforosi escono con tenore in volume di SO2 dal 5,3% al 6%. ll funzionamento di questi forni implica una complessa attrezzatura di adeguati separatori della polvere che i gas trascinano: il ricupero della polvere ottenuto con cicloni o separatori in serie può salire al 25% della blenda introdotta. I gas vengono infine sceverati dalle polveri mediante i dispositivi Cottrell, generalmente applicati in questo campo. Le polveri ritornano alla combustione opportunamente miscelate con la blenda cruda. Il "ritorno" non è soltanto costituito dalle polveri, ma anche dalla frazione non completamente desolforata, data soprattutto dai "grumi" che si generano nell'arrostimento, che vengono separati al vaglio e infine frantumati.
In Italia vi sono due impianti: quello di Crotone della Società Pertusola, con forni costruiti sui modelli della Lurgi; l'altro recentissimo della Soc. italiana del piombo e dello zinco a Porto Marghera, con due forni costruiti dalla Humboldt, della potenza complessiva di 100 tonn. al giomo.
La cenere ottenuta può essere profondamente desolforata: ad es. nell'impianto di Porto Marghera, con le blende della miniera di Montevecchio, si ottiene cenere del tipo: Zn = 70,55; Fe2O3 = 5,65; SiO2 = 1,92; S = 1,35%; (S solubile = o,8%), oltre ai componenti secondarî. Lo zolfo residuo preoccupa diversamente, a seconda che la cenere sia destinata alla distillazione (trattamento termico) o alla lisciviazione per l'elettrolisi. In quest'ultimo caso si distingue lo zolfo solubile, corrispondente al solfato di zinco, da quello insolubile da riferirsi al solfuro. Il metallo come solfuro è perduto nella dissoluzione per via umida (elettrolisi). Nella distillazione, invece, è lo zolfo totale che viene controllato, poiché nelle muffole, anche se sia introdotto in forma ossidata, si riduce a solfuro, e questo soltanto limitatamente libera metallo per l'intervento dei processi:
Molteplici sono stati gl'indirizzi più recenti nel campo in parola. Vennero anche applicati forni del tipo Wedge di potenza ridotta, tali da fornire una parziale desolforazione, completata poi al Dwight Lloyd (v. piombo). Sopravvivono ancora diversi tipi di forni meccanici anche essi superati ormai, fra cui lo Spirlet, con le caratteristiche suole a rotazione relativa. Ma soprattutto si deve ricordare la grandiosa iniziativa attuale nordamericana (Trail nel Canada) recante i forni a blenda soffiata, nei quali il solfuro brucia come "polvere sospesa" attuandosi il cosiddetto arrostimento in sospensione, analogo ad es. a quello che pure interviene nei forni Freeman per le piriti in stato di adeguata suddivisione.
Tali applicazioni recano delicati problemi per il ricupero delle polveri, ma ne è probabile la diffusione per l'economia dello spazio, per la potenza delle singole unità, per la riduzione dell'insieme meccanico che recano.
È stata sempre notevole la preoccupazione dell'utilizzazione dei gas solforosi, che s'impone particolarmente in Europa dove le fabbriche funzionano in regioni densamente abitate e coltivate. Il loro relativamente basso tenore di SO2 rende di frequente poco agevole la condotta di un sistema a camere di piombo. Attualmente si diffondono gl'impianti catalitici, particolarmente con le masse al vanadio, che nel caso corrispondono con risultati ottimi di rendimento e di esercizio complessivo. L'impianto di Porto Marghera produce per questa via acido solforico monoidrato o "oleum" nel rapporto di 1 : 1 di acido monoidrato rispetto alla blenda combusta.
Trattamenti per volatilizzazione di minerali poveri e residui varî. La fluttuazione, in caso di minerali solforati, ha ridotto notevolmente il campo di questi trattamenti; nel caso dei minerali ossidati (calaminari) essa non può ancora applicarsi con rendimenti sufficienti, e sono rari i minerali poveri calaminari che consentano economicamente il processo elettrolitico (forse, unico esempio è quello delle calamine di Campo Pisano, trattate a Monteponi). In generale, in questi casi, per il ricupero del metallo non sussiste altra possibilità all'infuori della volatilizzazione a ossido grezzo destinato alle fonderie, oppure per ossido da pigmenti, se il minerale è sufficientemente puro rispetto ai varî componenti. Altrettanto si dica per ceneri, scorie, residui poveri ossidati di fonderia.
Due sono i tipi generali dei dispositivi adottati: 1. forni a vento, quali quelli a basso fuoco; a tino con griglia; a tino con fusione delle scorie; 2. forni a fiamma, nella forma di recente introdotta di forni tubolari rotativi. Quest'ultimo tipo dà luogo al processo noto col nome di "Wälz" (Wälzverfahren).
Detti processi conducono alla volatilizzazione del metallo (zinco, piombo, cadmio) nella massa della miscela minerale e carbone riducente, in schema:
e alla susseguente ossidazione del metallo nei gas, operata dall'eccesso d'aria:
La massa degli ossidi, trascinata dalla corrente gassosa, passa a notevoli ed efficienti impianti di captazione, in generale con Cottrell finali.
In Europa (officine di Slesia e Polonia) ebbe sviluppo il forno, una specie di basso fuoco, detto di Pape. Questi forni hanno in generale una griglia raffreddata o no e mobile, talvolta con pareti pure raffreddate; vengono caricati con ovuli o bricchette, costituite di minerale, scorie o ceneri in miscela con carbone, e con coke in grossa pezzatura. Il consumo globale di carbone si avvicina al 35% del minerale.
Si sono applicati anche forni a tino e a fusione di scoria, spingendo le temperature fino ad avere la produzione di ghisa, più o meno impura, dai residui ferriferi. Un esempio del genere lo si trova nell'officina elettrolitica di Viviez, il cui forno a fusione opera il ricupero dello zinco e del piombo dai residui del trattamento di lisciviazione per l'elettrolisi.
Recente e maggiore notorietà ebbe l'applicazione dei forni rotativi, sviluppata dalla società Krupp. I forni installati hanno dimensioni e portate assai diverse da 40 a 300 t. di minerale nelle 24 ore. Hanno raggiunto i 40 m. di lunghezza, con diametri di 3 m. Il riscaldamento avviene con fiamme alimentate da carbone polverizzato o da olio pesante: il minerale, misto al carbone riducente, scende in contro corrente ai gas. La temperatura nella zona di reazione sale a 1100 ÷ 1250°; il consumo di carbone (coke) può ascendere al 25-35% della carica; il volume dei gas ai filtri finali a 550 mc. (0°) al minuto. Si sono trattati, ad es., residui calaminari di laveria a 6,9% di Zn, all' 1 ÷ 1,5 di Pb, e residui varî congeneri, anche parzialmente solforati; inoltre crasses, scorie zincifere, ecc. Le rese sono salite all'85%. Il prodotto è ricco e può contenere fino al 75% di ossidi; è grigio, soffice. Come tale non si presta né per la distillazione né per l'elettrolisi, nel primo caso per la sua natura di polvere fina, nel secondo per le impurezze, fra le quali il cloro. Viene ripassato in generale in un secondo forno rotativo, con aggiunta di 8 ÷ 10% di coke, e portato a circa 900°, perde così cloro, arsenico e in parte cadmio, assume forma compatta a granuli pesanti (si "klinkerizza"). Allora è atto alla fusione o all'elettrolisi.
Non tutti i materiali si prestano al trattamento Wälz: particolarmente quelli ferriferi possono offrire gravi difficoltà, e permangono anche perciò in vita i forni a tino e ad aria soffiata sopra accennati, che per consumo di combustibile equivalgono ai forni rotativi. Comunque questi metodi hanno un campo d'azione limitato per la produzione dello zinco, in dipendenza del prezzo del metallo, e costituiscono impianti accessorî o sussidiarî di quelli fondamentali.
In Italia il processo al basso fuoco è applicato a Monteponi, alle calamine povere ferrifere, per produrre però ossido di zinco per pigmenti. Forni analoghi a griglia s'impiegano anche per produrre ossido ad alta purezza da residui ossidati di fonderia.
Presso la miniera di S. Giovanni (Iglesias) della Società Pertusola, si ha una grande installazione di Wälz.
Tra i residui delle applicazioni dello zinco sono da ricordare le ceneri clorurate (crasses) provenienti dai bagni di zincatura dei manufatti di ferro per immersione nel metallo fuso. L'operazione si compie sempre in presenza di cloruro di zinco che galleggia fuso sul bagno, e che proviene dal cloruro di ammonio impiegato per ravvivare le superficie da zincare. Le masse di cloruro e di ossido, che si generano con il prolungato esercizio, vengono necessariamente estratte e sono acquistate dalle fonderie per la distillazione. È opportuno però declorurarle di frequente, mediante un trattamento umido alla calce e conseguente lavaggio ed essiccamento dell'ossido residuato.
Dai bagni di zincatura, e dalla stessa raffinazione dello zinco grezzo mediante liquazione, si ricavano anche leghe di ferro e zinco (il cosiddetto zinco duro), dette impropriamente anche mattes di zinco, che possono contenere fino a circa 6% di ferro e 4 ÷ 8% di piombo. Queste leghe possono sottoporsi in piccoli forni a suola inclinata a parziale ricupero dello zinco, ma, se sono poco piombifere, vengono più di frequente impiegate per produrre ossido da pigmenti, distillandole in apposite storte e facendo intervenire attiva ossidazione dei vapori del metallo all'uscita delle storte stesse.
ll processo termico di riduzione. - È stato oggetto di molteplici ricerche antiche e moderne; procede praticamente con le reazioni:
Il processo si può rappresentare in schema con:
è endotermico, con un consumo teorico di 1623 calorie per 1 kg. di zinco. In pratica esige assai più elevato dispendio di calore.
I termini del problema metallurgico sono: lo zinco già al rosso scuro è ossidato da CO2; occorre perciò operare a temperature in cui domina CO, superiori a quella di ebollizione del metallo (907°) che, producendosi perciò allo stato di vapore, deve susseguentemente condensarsi. Ma la condensazione dei vapori allo stato di troppo elevata diluizione con gas inerti, come pure a temperature troppo basse, e vieppiù in atmosfera relativamente ossidante (per CO2; H2O), reca alla polvere di zinco detta tuzia (blue powder degl'Inglesi). La condensazione a metallo liquido (regolo) può venire grandemente ridotta o mancare del tutto. Tali caratteristiche non permettono, ad es., di condensare zinco liquido dai vapori svolgentisi dalla bocca di un forno a vento, soprattutto per l'alta diluizione con i gas inerti.
Si è imposta perciò la distillazione in storte o muffole chiuse, in masse relativamente piccole. Per raggiungere unità di potenza adeguata si sono dovute ordinare più storte in uno stesso aggregato (forno) e le storte si sono sovrapposte in più ordini; si è sviluppato, insomma, un tipo di forno che richiama i forni primitivi a storte per la distillazione del carbon fossile per gas illuminante.
Nel caso dello zinco le dimensioni sono tutte vincolate ai rapporti fra masse, volumi e temperature, soprattutto per conseguire un'economica condensazione del metallo in forma liquida, pur non riuscendosi a sopprimere una parziale, per quanto limitata, produzione di tuzie.
Rispetto alla distillazione per gas illuminante, quella dello zinco presenta ovvie accresciute difficoltà, da un lato per il regime assai più elevato di temperatura, per i maggiori sbalzi di temperatura, e dall'altro per l'azione chimica dei vapori del metallo, dell'ossido di zinco e della ganga del minerale sul refrattario delle storte.
Si è determinato un tipo di forno che è generale salvo le diverse disposizioni per il ricupero del calore, e varianti degli organi sussidiarî, talvolta poco significative. I diversi forni non differiscono per i risultati complessivi dell'esercizio.
Uno degli aspetti più delicati della condotta dei forni è dato dalle muffole o storte. La costruzione di queste assume importanza di primo ordine: devono risultare appunto resistenti alle alte temperature (non meno di 1400°) e alle variazioni anche brusche di temperatura; poco permeabili ai vapori; buone conduttrici del calore; infine resistenti all'azione dell'ossido di zinco, e a quella dei componenti della ganga del minerale. È un problema di limitazione di tali effetti, che non si sopprimono mai e recano perdite di metallo, e portano alla usura, al ricambio delle storte.
La preparazione delle storte richiede l'impiego di argille refrattarie adeguate e scelte con grande cura. Sono ben note a questo proposito, ad esempio, le argille del Belgio (Andenne), quelle azzurre della Saar, le americane di St Louis Mo., e altre. Le argille delle Andenne corrispondono a: SiO2 54,58; Al2O3 26÷29,5; basi 2÷4; perdita al fuoco 9÷10% (rammollimento: cono Seger n. 33).
Come per gl'impasti ceramici analoghi, quello per le muffole deve contenere, come è noto, il cosiddetto dimagrante (la chamotte), che è di frequente costituito anche da residui di storte macinati. Le miscele usate negli Stati Uniti contengono anche coke polverizzato (ad es., argilla 36, chamotte 54, coke 10%). Gl'impasti richiedono preparazione accurata, maturazione adeguata, con esatta regolazione dell'umidità. Le muffole vengono prodotte alla pressa, trafilate a 120÷200 atm. Di poi, passate a un lento e progressivo essiccamento della durata di almeno tre mesi. Infine, prima di introdurle in esercizio, vengono "temperate", cioè gradatamente arroventate in un forno a fiamma rovesciata (forno di tempera) fino a 900° per 12÷20 ore. Le storte dei forni renani, oggi diffuse in Europa e in America, hanno la sagoma della fig. 2.
Come è ovvio, una grande fonderia termica dispone di notevolissimi cantieri per le muffole, i condensatori, i refrattarî diversi per la manutenzione e costruzione dei forni. I forni moderni sono a gassogeno oppure alimentati a gas naturale, a gas di cokeria, dove se ne disponga; in qualche raro caso funzionano anche a nafta. I tipi a gas recano il ricupero del calore, a inversione di fiamma. La sezione di un tipo di forno a ricupero è offerta dalla fig. 3, in cui si notano i tre ordini di muffole; i condensatori (o Vorlagen) pure in refrattario; le allunghe atte a trattenere la tuzia, in lamiera di ferro.
Un grande forno a ricupero di calore della Hohenlohehütte nella Slesia polacca, corrispondeva, ad es., ai dati seguenti:
La carica delle storte viene fatta generalmente a mano, scoprendone la bocca, togliendone i condensatori. La miscela intima polverosa, del materiale zincifero e coke, viene umidificata per abbattere le polveri e abbassare la temperatura durante l'operazione. Da un buon caricamento, come è ovvio, dipende anche la produzione della muffola.
La temperatura, nell'interno delle storte, si eleva di poi gradatamente fino a raggiungere i 1100°, e i 1200°-1300° nella camera del forno. Minerali ricchi di silice, o comunque di ganga corrodente il refrattario, esigono particolare controllo e limitazioni delle temperature. Il graduale riscaldamento, nelle prime fasi, è favorevole alla condensazione, poiché induce un'eliminazione preventiva di acqua, anidride carbonica, gas inerti. La condensazione è anche favorita da piccole percentuali di cloruri nella carica, che, dando luogo a vapori di cloruro di zinco o cloridrici, limitano la percentuale di polveri.
La distillazione nel ciclo da carica a carica ha la durata di 24 ore. Il metallo viene estratto ("tirato") dai condensatori a tre riprese, facendolo colare con apposito strumento in un mescolo di ferro, e da questo passato negli stampi per i "pani" greggi.
È frequente la media della produzione, per ogni singola storta nelle 24 ore, di 15÷20 kg. di zinco grezzo (figure 4, 5).
Le perdite di metallo, rispetto al tenore della carica, oscillano dal 9 al 18% e sono dovute al residuo nei rosticci, alle fughe di vapori, alle perdite varie. Al disopra dei forni si dispongono in generale grandi cappe di aspirazione che possono consentire utile ricupero di fumi zinciferi.
Il processo reca alto consumo di combustibile; sotto questo aspetto è il più dispendioso fra quelli metallurgici.
In un forno renano si suddivide:
per una tonnellata di minerale, e ciò rappresenta un consumo frequente di 4 ÷ 5 t. di carbone per una tonnellata di metallo grezzo, computando la preparazione delle storte. Per confronto basta ricordare che negli alti forni moderni il consumo di coke può ridursi a 0,7 t. per una tonn. di ghisa; ed è frequente quello di 0,5 t. per una tonnellata di piombo d'opera.
Variazioni al processo classico di riduzione. - Vi è già stato accennato: si ebbero molteplici tentativi, nell'intento di rendere più economica e meno complessa la distillazione, d'introdurre storte verticali e di maggiori dimensioni. Fra gli altri, si ebbero gl'impianti Roitzheim e St. Remy che corrisposero, per ceneri e materiali ricchi.
Una soluzione attuale è quella cui è pervenuta dal 1925 in poi la New Jersey Co. Si tratta di aggregati di storte aventi ciascuna la sezione di m. 1,80 per 0,30 e l'altezza di m. 7, costruite in pezzi di carborundo, e perciò certamente molto costose. Il funzionamento è automatico, continuo. Il riscaldamento è operato dall'esterno: molte delle antiche difficoltà sono state risolte mediante la "brichettatura" della miscela zincifera e carboniosa, e la susseguente cottura preventiva delle mattonelle. Ogni storta, o camera, produrrebbe nelle 24 ore fino a 6000 libbre di metallo grezzo, che sarebbe più puro di quello delle muffole correnti, perché il piombo "deflegma", nell'ascesa dei vapori nella colonna della storta. Non si hanno dati esatti sul rendimento economico complessivo: dal lato tecnico il processo costituisce comunque un brillante risultato.
La riduzione al forno elettrico. - Il forno elettrico nella metallurgia in questione è stato un miraggio pure perseguito per decennî. Il trattamento è stato rapidamente superato dal processo elettrolitico per via umida.
I forni Laval primitivi ad arco scoperto furono piuttosto diretti alla ridistillazione del metallo; quelli impiegati di poi soprattutto in Scandinavia erano ad arco-resistenza derivati dal tipo descritto da Cote e Pierron. Il trattamento esige la fusione completa dei residui, di qui la limitazione del carbone della carica e, in definitiva, una più alta percentuale di anidride carbonica nei gas alla condensazione. La condensazione offre particolari difficoltà; si producono sempre alte percentuali di tuzie. Si è dovuto ricorrere alla ridistillazione di queste, e anche al trattamento meccanico in tamburi girevoli, mantenendole a temperatura di poco superiore a quella di fusione dello zinco. Il metallo, non ridistillato, è sempre alquanto più impuro di quello dei forni a storte. È stato calcolato o desunto il consumo di 3000 a 4000 kWh per t. di metallo; reputati autori lo valutano invece almeno a 5500 kWh sul metallo finito.
Per ovviare alle difficoltà cui si accenna si sperimentarono anche in America forni a resistenza, in cui questa era data da mattonelle, di minerale e carbone, sovrapposte, volendosi evitare la fusione dei residui. Il tentativo audace non ha avuto seguito.
Metallo di distillazione. - Il metallo grezzo di distillazione è sempre notevolmente impuro; in esso sono contenuti soprattutto piombo, cadmio, ferro. I primi due provenienti dal minerale, che quasi sempre li contiene quali componenti secondarî, e che distillano insieme allo zinco, il terzo per i contatti con i materiali ferriferi, soprattutto nelle manipolazioni di raccolta. Il metallo grezzo raramente sale oltre il 99% e può scendere fino al 97%. Il componente secondario presente in più alto tenore è il piombo, che può superare anche il 2,7%.
Il processo più semplice di raffinazione, che riguarda soprattutto il piombo e il ferro, è quello di rifondere il metallo grezzo in un forno a bacino (a riverbero), con la suola debitamente inclinata, in modo da raccogliere più facilmente e allontanare il piombo che si "liqua" raccogliendosi al fondo, data la nota piccola solubilità di questo metallo nello zinco fuso (1,5%). La temperatura del bagno è sui 440°, e i forni contengono da 20 a 40 t. di metallo in raffinazione. Con il lungo esercizio si formano anche masse di zinco duro, con circa 4÷8% Pb e 6% Fe, che vengono estratte e arrecano la depurazione dal ferro. Il metallo così raffinato possiede una purezza di almeno 98,5%.
Per ottenere, sempre per via termica, prodotti ad alta e controllata purezza, la via più razionale è sempre quella della ridistillazione. Come è noto, si hanno le temperature di ebollizione: Zn 907°, Pb 1750°, Cd 767°. Il frazionamento reca evidentemente a prodotti di testa cadmiferi, a frazioni di coda piombifere. Il processo è stato applicato in passato da Roitzheim con un dispositivo a storte; venne anche operato al forno elettrico con un apparecchio tipo Laval che, con una potenza di 300 kW produceva 7 t. al giorno di zinco fino, con un consumo di 1400 kWh circa per tonnellata. Recentemente la ridistillazione è stata attuata dalla New Jersey Co. con storte a carborundo, che richiamano quelle sopra accennate per la prima distillazione. Può ottenersi zinco al 99,997 ÷ 99,998% con tenori di piombo non superiori al o,002%.
Processi elettrolitici. - Dopo il periodo primo, di orientamento, che va dal 1898 al 1912, scartati gli altri elettroliti acquosi o fusi, la tecnica si ferma all'uso delle soluzioni acquose di solfato di zinco. Il processo con elettroliti acquosi a base di cloruri, dei primitivi impianti di Höpfner e della Mond Co., è già virtualmente tramontato nel 1912, quando si conchiude la prima grande esperienza moderna con il solfato nella fonderia di Lipine (Polonia) che, se lascia ancora insoluti problemi di grande rilievo, porta a risultati fecondi per gli ulteriori sviluppi. Si conferma che con elettroliti solforici, acidi e manganesiferi, con catodi statici e anodi di piombo perossidato, o di biossido di manganese, si possono realizzare deposizioni di metallo con rendimenti soddisfacenti e in forma compatta. Allora è già palese l'incapacità di sviluppo del metodo al cloruro, ostacolato dallo stesso impiego del cloro; dalle celle a diaframma per il ricupero e reimpiego del cloro anodico, dai catodi rotanti.
In realtà i catodi rotanti (in forme di disco o di cilindro, con dispositivi più o meno complicati) non erano indispensabili. Si ritennero tali quando non si dominavano i processi di depurazione degli elettroliti che hanno consentito adeguata deposizione catodica con elettrodi statici. È però nel fondamento tecnico-economico che il processo al cloro ha ceduto al solfato.
Gl'impianti elettrolitici attuali, alcuni dei quali assurgono alla potenza di 200 tonn. al giorno, sono tutti al solfato. Recentemente in Inghilterra si è riesumato senza seguito l'antico processo al cloruro fuso, clorurando le blende con cloro a secco.
Il processo al solfato si basa sullo schema: 1ª fase: lisciviazione del minerale ossidato, con l'acido solforico proveniente dall'elettrolisi:
2ª fase: elettrolisi della soluzione di solfato:
Corrisponde, per l'elettrolisi, a un consumo teorico di 1,927 kWh per 1 kg. di Zn; in pratica si può conseguire un impiego di circa 3 kWh. La tensione sale in realtà da 3 a 4 volt, rispetto al minimo teorico di 2,35 volt; e i rendimenti di corrente sono generalmente compresi fra l'80% e il 90% del teorico, cioè corrispondono a 1000 ÷ 1100 gr. di Zn per 1000 amp/h, contro i 1220 gr. teorici.
E questi rendimenti si ottengono spingendo la deposizione almeno ai 2/3 del metallo presente nell'elettrolito neutro: partendo da elettroliti aventi da circa 70 gr. di zinco litro (caso oggi assai raro) fino a 100 ÷ 150, e che salgono a circa 220 col recente processo Tainton.
L'elettrolisi si compie usando, come catodi padri, lastre di alluminio dello spessore di alcuni millimetri, dalle quali è facile distaccare il deposito di zinco, allorché questo ha raggiunto uno spessore adeguato; gli anodi sono lastre di piombo dello spessore di circa 10 mm. che all'inizio si ricoprono di perossido (l'ossigeno anodico è generalmente perduto nell'atmosfera).
Il risultato dell'elettrolisi è soprattutto dipendente dal grado di purezza delle soluzionì che influenza, per ogni singolo tipo di cella, anche le regolazioni sussidiarie, quali l'acidità rispetto al tenore di zinco, la densità di corrente, la temperatura, il flusso dell'elettrolito.
Le impurezze, o componenti secondarî nocivi più frequenti, che hanno diretta azione al catodo sono Cu, Fe, Cd, Ni, Co, As, Sb. Si è data da alcuni autori anche molta importanza al Ge, ma non sempre i presunti effetti vennero adeguatamente controllati. Tutti i minerali di zinco sono cadmiferi e ferriferi; l'arsenico e l'antimonio sono pure generalmente presenti; molti contengono rame; nichelio e cobalto sono anche frequenti, particolarmente nei minerali italiani.
L'effetto di questi componenti secondarî, che possono pervenire in tutto o in parte nelle soluzioni all'attacco acido del minerale, è anzitutto quello d'indurre deposizioni anomale. I catodi assumono strutture irregolari a granuli staccati, a efflorescenze, a fibre disgiunte, a fine porosità, a forellature, che offrono grande facilità all'attacco operato dall'acido dell'elettrolito, e possono anche provocare facile distacco della lastra catodica, in formazione, dal catodo padre.
La dissoluzione, l'attacco dei catodi si manifesta per lo stabilirsi di coppie locali, dovute alle impurezze deposte insieme con lo zinco, e provoca anche imponenti corrosioni, fino alla completa distruzione della lastra formatasi. Questa, ad es., è una manifestazione frequente dell'As e dell'Sb, particolarmente in presenza di Cd.
Il giuoco delle impurezze è complesso, i rendimenti di corrente non dipendono soltanto dalle corrosioni; in alcuni elettroliti si manifesta generale depolarizzazione catodica, riferibile a una caduta della sopratensione dell'idrogeno. È noto che questa può salire sui catodi di zinco a o,7 ÷ 0,8 volt, e rende lo zinco più nobile dell'iilrogeno, e a tale intervento fondamentale se ne deve la deposizione in soluzioni anche fortemente acide.
Nella realtà, struttura dei catodi, stato di sopratensione sono manifestazioni fra loro collegate, e la complessità degli effetti male permette di distinguere le singole influenze.
Sui caratteri dei depositi influiscono anche alcuni componenti secondarî, naturalmente presenti o aggiunti; fra i primi abbiamo i sali di alluminio, l'acido silicico; fra i secondi sostanze colloidali varie, quali la colla gelatina, alcune gomme vegetali, e in casi rari basi azotate, quali le piridiche. I colloidi offrono azione generale, inducono strutture a granuli microcristallini, compatte, più resistenti alla corrosione; con ogni probabilità sono le sostanze adsorbite alla superficie attiva del catodo (formazione di pellicole) che recano tali effetti, oggi generalmente sfruttati nella pratica.
Fra i componenti secondarî non si può trascurare il manganese che può indurre azioni favorevoli. È sempre presente MnSO4 che può provenire dai minerali, ma soprattutto perché aggiunto nelle depurazioni in forma di pirolusite, usata quale ossidante. Il manganese all'anodo genera acido permanganico, ma principalmente biossido che riveste gli anodi stessi; influenza però indirettamente i processi catodici, e in alcuni casi è risultata di primaria importanza la regolazione del tenore di MnSO4, particolarmente in presenza di cobalto: la concentrazione è stata portata fino e oltre i 10 gr. l. di manganese.
Infine i cloruri costituiscono un aggressivo del piombo anodico: con soluzioni al di sopra di gr. 0,05 di cloro l. si possono avere rapide formazioni di perossido di piombo e demolizioni notevoli degli anodi.
Depurazioni. - Non sussiste un limite superiore determinato della concentrazione delle impurezze nocive, anche per il fatto ehe queste non agiscono mai isolate: sono sempre presenti molteplici componenti secondarî. Ogni impianto deve regolarsi nei limiti proprî, dipendenti dalle condizioni in cui opera, e il processo di depurazione è vincolato alla natura del minerale, al costo dei trattamenti.
È stato riconosciuto che arsenico e antimonio possono essere nocivi già a 0,0001 gr. l.; nichelio e cobalto da 0,001 a 0,010 gr. Si opera più generalmente con cadmio da 0,001 a 0,003 gr. l. Di frequente rame e ferro sono praticamente assenti.
La depurazione da arsenico e antimonio si attua generalmente all'attacco del minerale, ed è concomitante alla precipitazione del ferro, come idrato ferrico; s'introduce perciò ferro, in forma di solfato ferroso, o ferroso e ferrico, si ossida con pirolusite in mezzo acido, si neutralizza infine con eccesso di minerale (cenere di blenda) e anche con calcare: precipita il ferro ferrico che trascina As e Sb in forma ossidata.
Invece la depurazione da rame e soprattutto da cadmio è fatta in un secondo tempo, agendo sulle soluzioni decantate o comunque chiarificate provenienti dal primo attacco. Nei casi più semplici si cementa a freddo con polvere di zinco: il rame rapidamente, il cadmio in 4-6 ore di intensa agitazione (in assenza o quasi di aria) precipitano come cemento finemente suddiviso:
Il cemento si separa e si ricupera al filtro pressa: secco contiene dal 10% al 20% di Cd, dovendosi usare un eccesso di polvere di zinco. In presenza di nichelio e cobalto si possono seguire tre vie diverse. Nel caso di elettroliti forzatamente diluiti (60 ÷ 70 gr. l. di Zn) per la natura del minerale, nei quali le acidità si aggirano sui 70 gr. l. di H2SO4 (caso per altro oggi raro), può essere sufficiente una depurazione ossidante spinta con permanganato potassico che rispetta però la totalità di nichelio e la quasi totalità del cobalto.
Nel caso più generale di elettroliti concentrati, dai 100 ÷ 150 gr. l. e oltre, sono possibili due trattamenti diversi: la cementazione con polvere di zinco a caldo (78-80°) in presenza di arsenito o di arseniato e di rame; oppure la precipitazione a freddo in forma di sali complessi (α-isonitroso-β-naftolato cobaltico; xantogenato, ditiocarbammato di nichelio, ecc.). Con questi metodi, naturalmente sempre accoppiati alla depurazione del cadmio, si possono conseguire precipitazioni praticamente complete.
Il seguente esempio, tratto da un recente periodo di funzionamento dell'officina di Porto Marghera, illustra i risultati delle depurazioni in parola: elettrolito impuro, grammi per un litro: Zn 136; Mn 2,4; Cu 0,03; Cd 0,80; Co 0,02; Ni 0,004; Fe 0,002; As 0,000005; Cl 0,012; elettrolito purificato, grammi per un litro: Zn 140; Mn 2,5; Cu assente; Cd 0,002; Co assente; Ni assente; Fe tracce; As 0,00001; Cl 0,011.
Diagrammi generali del trattamento. - La tecnica delle depurazioni si è sviluppata parallelamente all'organizzazione meccanica degl'impianti. Il primo impulso (1914-18) venne dalla grande esperienza acquisita nell'idrometallurgia dell'oro, dal trattamento di cianurazione dei minerali auriferi e argentiferi.
Vennero adottati gli agitatori del tipo "Pachuca tank" o agitatore Brown, basati sul principio della pompa Mammouth ad aria soffiata; i classificatori a draga del tipo "Dorr", i mulini a umido; i decantatori continui; infine i filtri continui a vuoto e a settori (tipo Oliver primitivo). Si è raggiunta con questi dispositivi, opportunamente adattati al caso dello zinco, un'organizzazione meccanica e un automatismo degl'impianti sempre più perfetti.
Il diagramma di figura 6 è tipico per il primo periodo di questa metallurgia, e corrisponde a quello "del doppio trattamento" cioè dell'esaurimento in due tempi particolarmente delle ceneri di blenda.
Il trattamento si può semplificare, pur rimanendo sempre un sistema a esaurimento successivo, come quello applicato alle calamine povere di Campo Pisano della Società di Monteponi, in cui il secondo attacco è ridotto alle sabbie residuate dal primo (figg. 7 e 8).
Il problema fondamentale dell'impianto di liscivazione (attacco del minerale, decantazione, separazione dei fanghi residui, esaurimento degli stessi) è quello di conseguire rendimenti adeguati di estrazione, mantenendo le concentrazioni volute, e con sufficiente economia di esercizio.
Attualmente anche con elettrolisi a 100 ÷ 150 gr. Zn litro si toccano rendimenti del 90% di catodo rispetto allo zinco del minerale.
Generalmente oggi si spinge l'elettrolito alle più alte concentrazioni. Uno dei rari casi, forse l'unico, in cui si permane a deboli concentrazioni, è quello italiano di Monteponi, che è anche il solo europeo che tratti calamine valorizzando quelle povere di Campo Pisano.
La tecnica costruttiva moderna favorisce lo sviluppo dei metodi ad alta concentrazione e a caldo. Nei più recenti impianti si sono abbandonati gli agitatori Brown ad aria compressa, e si usano agitatori a turbina; le filtrazioni si avvalgono dei più recenti tipi di filtri continui a vuoto, o discontinui a pressione con elementi di materiale ceramico poroso. Due recenti e diversi esempî si hanno attualmente in Europa di tali innovazioni: nell'impianto germanico di Magdeburgo della Società Giesche; in quello italiano di Porto Marghera della Società del piombo e zinco.
I volumi circolanti, e quindi la mole degl'impianti, dipendono dalle concentrazioni predette: attualmente, con le blende, corrispondono più di frequente a 90 ÷ 100 kg. di catodo per 1 mc.; in quelli Tainton a circa 180.
Gli elettrolizzatori. - Le celle vennero dapprima derivate da quelle della raffinazione del rame (v. elettrometallurgia). Hanno subito di poi notevoli e successive varianti, particolarmente negl'impianti operanti ad alta densità di corrente.
Negl'impianti classici le densità di corrente vanno da 200 a 300 amp. mq.; si hanno, attualmente, densità fino a 600 amp., sempre con elettrodi dei tipi normali. La superficie attiva di ogni singolo catodo si avvicina solitamente a 1 mq. (800÷900 mm. di altezza per circa 600 di larghezza). La portata degli elettrolizzatori va da 6000 a 10.000 amp.: la tensione è compresa fra i 3 e i 4 volt. Le celle sono unite elettricamente in serie: attualmente si hanno batterie fino a 700 volt, usandosi i convertitori a vapori di mercurio (Porto Marghera, Magdeburgo). L'alimentazione con l'elettrolito è fatta per cascate da 3 a 6 celle, oppure per singolo elettrolizzatore. Nel primo caso si ha un'acidità diversa nei singoli elementi della cascata, nel secondo tutte le celle si trovano alla stessa acidità, che comunque viene debitamente controllata.
La fusione. - Il deposito catodico viene "strappato" estraendo i catodi ogni 24 ÷ 36 ore: il distacco, in condizioni normali, è rapido e facile. Le lastre ottenute vengono lavate, essiccate all'aria e passate alla fusione in grandi forni a riverbero a olio pesante, o a carbone polverizzato. Oggi sono diffusi anche i forni elettrici a induzione.
La fusione dei catodi, con forni razionalmente costruiti e condotti, dà luogo a una resa di metallo in pani commerciali del 90÷95%. I rendimenti si abbassano notevolmente se i depositi catodici sono poco compatti, corrosi, anormali. Si usano piccole percentuali di cloruro ammonico per separare gli "ossidi" che si formano dal bagno metallico.
Il consumo totale di energia, dal minerale crudo allo zinco fuso in pani, è di 4 ÷ 5 kWh di corrente alternata trifase ad alta tensione.
Evoluzione del metodo elettrolitico classico. - La più nota trasformazione del processo è quella di Tainton (1929). Il nuovo procedimento è stato attuato dapprima a Kellog nel Canada: si opera a caldo con soluzioni quasi sature, aventi 220 gr. di zinco per litro; l'acidità finale delle celle sale a 300 gr. per litro di acido solforico. Dall'attacco, compiuto con agitatori meccanici, la torbida passa direttamente a filtri rotativi tipo Burt; le depurazioni si compiono pure a caldo (78-80°). Tainton ha recato pure notevoli innovazioni alle celle, applicando un tipo a circolazione spinta dell'elettrolito e soprattutto anodi di piombo legato con l'1% di argento. Questo insieme permette di spingere la densità ai catodi a 1000 amp. mq. e oltre, e consente altresì di ottenere zinco ad alte purezze rispetto al piombo, attualmente fino a 99,998%. I consumi di energia non sono diversi da quelli del processo classico.
Produzione e commercio.
I prodotti commerciali. - Metallo. - Non si è raggiunta ancora l'unificazione dei tipi, riferiti ai rispettivi tenori di componenti secondarî, che possono permettere o vietare l'impiego razionale del metallo nelle diverse applicazioni. È possibile attualmente riconoscere cinque tipi principali in ordine di purezza crescente: 1. zinco grezzo di 1ª fusione; 2. raffinato, rifuso e liquato; 3. puro, distillato da minerali oppure da ceneri a elevata purezza; 4. elettrolitico ordinario; 5. extra-puro, elettrolitico e da ridistillazione.
In Germania si sono indicate le marche "Original Hüttenrohzink", zinco di 1ª fusione; "Raffinadzink", raffinato; "Feinzink", senza distinzione se elettrolitico o di distillazione.
Le specificazioni adottate negli Stati Uniti sono:
Lo zinco elettrolitico supera la classe A predetta: è generalmente a titolo superiore al 99,95%. Le composizioni di due tipi prodotti su vasta scala, sono, ad es.:
Il piombo nell'elettrolitico si aggira su 0,02%; è apportato dalla dissoluzione e dispersione di piombo anodico. Con l'uso di elettrodi di tipo Tainton può essere contenuto entro 0,002%. Altrettanto puro da piombo è il metallo prodotto con la ridistillazione; ad es., il tipo della New Jersey (marca "Horse Head Special Zinc") può corrispondere a Pb = 0,0011; Cd = 0,0022; Fe = 0,0009%.
In generale è la marca che garantisce il tipo destinato ai diversi usi. Reputazione generale ebbero le note marche A, B, C, della Vieille Montagne, a purezza decrescente.
Lo zinco solitamente si commercia in pani del peso da 21 a 25 kg., aventi dimensioni di circa 200 × 500 mm., spessore intorno a 40.
Polvere di zinco. - Come si è detto, accompagna sempre la distillazione. Quando raggiunge purezze sufficienti, viene commerciata, destinata a usi chimici quale attivo riducente. La s'impiega nella preparazione di idrosolfiti con il classico metodo allo zinco; nella grande industria di chimica organica e anche nella stampa dei tessuti. È commerciata a titoli dall'80% al 90%, e contiene come sostanze estranee, soprattutto ossido di zinco; di frequente è sensibilmente clorurata.
Quando è ricca di cadmio, che in essa si accumula, è di frequente sottoposta al trattamento di ricupero di questo metallo, e il residuo zincifero ritorna alla fonderia. Un uso più recente della polvere è quello della preparazione di miscele fumogene a scopi bellici.
La polvere, infine, può prepararsi per quanto in stato di minore finezza, soffiando un "filo" di metallo fuso con vapore o con aria compressa, e raccogliendo il prodotto in apposite camere e filtri.
Sottoprodotti. - A parte il ricupero del piombo che si verifica dai rosticci delle storte, e il ricupero del piombo e del rame dai residui del trattamento elettrolitico, attualmente è sempre più significativo il ricupero del cadmio, caratteristico degl'impianti elettrolitici. L'elettrolisi impone la separazione spinta del cadmio, e l'economia del processo obbliga a sua volta il ricupero dello zinco e del cadmio, dai cosiddetti cementi cadmiferi. Il cadmio dopo ridiscioglimento, come solfato, viene deposto puro per elettrolisi. La notevole e crescente produzione odierna del cadmio è soprattutto dipendente da quella dello zinco elettrolitico.
Usi e consumi. - Lo zinco, metallo a prezzo relativamente basso, atto a molteplici impieghi, è destinato a diffondersi sempre più. È largamente impiegato in forma di laminato, oggi anche di piccoli oggetti stampati; è diffusissimo nei diversi "galvanizzati" per il noto effetto antiruggine (lamiere di ferro, fili, oggetti zincati). Infine, nel campo delle leghe, soprattutto nella più minuta tecnica delle costruzioni meccaniche, si sviluppa il consumo delle leghe con l'alluminio, oggi possibili, disponendosi di metallo ad alta purezza rispetto al piombo (〈 0,009%), che le rendeva instabili, deformabili. Si sono diffuse recentemente appunto le leghe recanti nomi varî (Zamak, ecc.) dei tipi: Al 4,10%; Cu 2,70, Mg 0,03 e intermedie fino ad Al 4,10%; Mg 0,04. Sono già attive concorrenti degli ottoni, e, anche per la loro facile fusibilità, si diffondono notevolmente.
La purezza richiesta è diversa per i diversi usi, così per la laminazione, che si compie a 100-150°, il piombo risulta nocivo sopra 1,25%; il ferro a 0,12%; il cadmio a 0,25%. La presenza contemporanea di diverse impurezze può accrescere le qualità scadenti del metallo. Per la zincatura, in bagno fuso, è preferito zinco piombifero. Per le leghe si richiedono in generale i tipi più puri: per gli ottoni da alta laminazione si esige particolare purezza rispetto al ferro. La produzione di oggetti, fili, ecc., alla trafila o a stampa si può compiere con tenori di piombo fino a circa 0,9%, ma è necessaria alta purezza rispetto al cadmio.
Produzione mondiale e sua distribuzione. - I minerali di zinco, le blende soprattutto, sono abbondanti nel mondo e, come si disse, la fluttuazione ha valorizzato e attiva ancora notevoli giacimenti.
Le tabelle I e II dànno rispettivamente la produzione mineraria (contenuto di zinco) e la produzione metallurgica.
Il gettito mondiale, dopo la grande depressione del 1921, in cui era sceso a sole 437.100 t., contro 1.000.800 del 1913, ha avuto rapida ripresa, toccando il massimo nel 1929 con 1.457.400 t., di cui 331.700 di elettrolitico. La contrazione del consumo e dei prezzi ha portato a nuova depressine e fino alle 783.200 t. del 1932. Di poi si è avuta la ripresa che perdura, eccitata anche dallo sviluppo generale degli armamenti, raggiungendosi già nel 1936 la produzione di 1.478.000 t., di cui circa 400.000 di elettrolitico.
Queste oscillazioni sono comuni a tutti i metalli non ferrosi pesanti, e costituiscono uno degli aspetti della crisi recente e attuale.
In Europa, notevolissima e significativa è la rinnovata produzione germanica che è passata dalle 50.900 t. del 1933 alle 136.000 del 1936, occupando il secondo posto in Europa, valorizzando le proprie risorse di combustibili e di minerali, integrate con l'importazione. Il primo posto è sempre tenuto dal Belgio con 189.000 tonnellate nel 1936, dovuti allo sviluppo delle proprie fonderie che importano quasi tutto il minerale occorrente, ma che sono favorite dalle disponibilità di combustibili e di refrattarî.
L'Italia giunse alla guerra del 1915 senza produrre metallo, pure essendo notevole esportatrice di minerale (nell'anteguerra aveva toccato le 80.000 tonn. di metallo come minerale, tutto esportato). Dal 1917 data la produzione continuata di zinco, col metodo termico. Nel 1921 si ebbe la prima officina elettrolitica, sorta dopo esperienze preliminari iniziate con procedimenti italiani fin dal 1916. Nel campo dell'elettrolisi gl'Italiani furono fra i pionieri e sono sempre all'avanguardia. Le loro esperienze e i primi impianti hanno preceduto tutti gli altri europei congeneri, i quali inizialmente non furono che un'importazione diretta dei metodi americani. Lo sviluppo ulteriore della produzione italiana è tutto affidato al processo elettrolitico.
Gl'impianti minerarî attuati o in via di attuazione daranno ingenti disponibilità di blende.
La potenza annua delle fonderie italiane è la seguente:
La posizione dell'Italia in questo campo è quindi ragguardevole: essa può con le sue risorse minerarie e con la potenza dei suoi impianti metallurgici supplire al suo fabbisogno interno, anche se questo dovesse assumere uno sviluppo molto superiore all'attuale.
Prezzi. - Dopo la spettacolosa e ovvia ascesa del periodo 1914-18 e la rapida decadenza del 1920-21, salvo la tenue ripresa del 1925, si ebbero quotazioni in forte discesa, che nel 1932, sul mercato di Londra, corrispondevano al 40 ÷ 45% del prezzo in oro del 1913. Nel 1935 il prezzo è debolmente risalito, con un massimo di Lst. 20 (carta) e un minimo di Lst. 13.3.9 (Londra) per tonnellata inglese. Il minimo prezzo verificatosi nel periodo 1800-1930 era stato di Lst. 13.9.0 (oro nel 1885). A parte le oscillazioni dovute alle crisi successive, il metallo ha ormai raggiunto costi di produzione di certo molto inferiori a quelli del passato, per il perfezionamento e lo sviluppo dei trattamenti metallurgici e mineralurgici relativi. (V. tavv. CXLVII-CXLIX).
Bibl.: W. R. Jngalls, The Metallurgy of Zinc and Cadmium, New York 1903; A. Lodin, Métallurgie du zinc, Parigi 1905; M. Liebig, Zink und Cadmium, Lipsia 1913; H. O. Hofman, Metallurgy of Zinc and Cadmium, New York 1922; W. Holtmann, Der Zinkdistillationsprocess, Halle 1927; O. C. Ralston, G. Eger, Zinkeletrolyse, ivi 1928; J. Billiter, Die neueren Fortschritte der technischen Elektrolyse, ivi 1930; V. Engelhardt, Handbuch der technischen Elektrochemie, I, ii, Lipsia 1931; L. Cambi, Il processo e l'impianto per zinco elettrolitico di Monteponi, in Progressi dell'Ind. chim. it. nel 1° decennio di regime fascista, Roma 1932.
Farmacologia.
Studiati farmacologicamente e usati in terapia sono specialmente il solfato, l'ossido, il fosfuro, l'acetato, il valerianato, il cloruro, il bromuro, il lattato di zinco. La tossicità di questi sali, assorbiti solo lentamente, è in genere lieve. L'avvelenamento è raro (v. sotto). In genere i sali di zinco, coagulando l'albumina, hanno proprietà caustiche, così il cloruro, in soluzioni concentrate o in forma di lapis o di pomata, si usa contro gli epiteliomi, il lupus e altre dermatosi e diluito serve a disinfettare grandi cavità: associato alla tintura di iodio si adopera per pennellazioni tonsillari e laringee. Il solfato di zinco ha, come il rame, azione emetica agendo sulle terminazioni nervose dello stomaco; in soluzioni molto diluite serve per lavande vaginali, come collirio, contro le affezioni del sacco lacrimale e nelle congiuntiviti. Nella blenorragia si usa l'iniezione cosiddetta dei tre solfati: di zinco, di rame e di ferro. Con l'ossido di zinco, mescolato all'amido, si preparano polveri essiccanti; incorporandolo alla sugna o alla vaselina si formano pomate e paste contro le malattie della pelle e specialmente contro l'eczema (pasta di Lassar). Le dosi molto piccole di ossido di zinco e di fosfato, acetato, bromuro, valerianato passano per sedativi del sistema nervoso e sono ancor oggi adoperate nella corea, nell'epilessia, nell'isterismo e nella neurastenia.
Tossicologia.
L'avvelenamento da zinco ricorda molto quello da sali di rame con i quali i composti di zinco hanno notevole affinità farmacologica. Nell'avvelenamento acuto si hanno segni di causticazione sulle mucose digerenti: scialorrea, vomito di materiale biancastro, talvolta con tracce ematiche, diarrea con sangue ridotto. I sintomi nervosi sono scarsi; vertigini, profonda astenia, contratture spastiche alle sure. Nell'avvelenamento cronico, terapeutico o professionale predomina l'aumento dell'eccitabilità nervosa riflessa; contrazioni muscolari spasmodiche, miastenia grave fino a simulare un'atassia d'origine centrale: perdita della sensibilità tattile, dolorifica e del senso muscolare, paresi periferiche. Contemporaneamente diarrea febbrile, cefalea, iperidrosi, depressione dell'attività cardiaca. Utile nelle forme acute è la somministrazione del tannino o dei decotti tannici, di carbonato sodico in soluzione acquosa, di albume, di latte. Nell'avvelenamento cronico valgono soprattutto norme profilattiche e sussidî sintomatici.