Zone di frontiera: i riti di passaggio all'eta adulta
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La transizione dall’infanzia all’età adulta è scandita in Grecia da vari "riti di passaggio", attraverso i quali i giovani di entrambi i sessi sono gradualmente preparati ad assumere il ruolo di adulti (di cittadino e soldato o di moglie e madre) all’interno della società. Tali momenti di formazione spesso comportano l’allontanamento degli adolescenti dalla famiglia e dalla città e il confronto con un modello di comportamento che, seppur diverso da quello abituale, risulta tuttavia in primo luogo propedeutico al loro ruolo di adulti. Al loro ritorno da questo periodo di preparazione, essi sono reintegrati a pieno titolo nella polis.
Il passaggio dall’infanzia all’età adulta rappresenta per i Greci un momento essenziale per preparare il giovane alle sue nuove responsabilità di cittadino, assumendo le quali egli avrà diritto di prendere parte alla gestione della polis. Come in molte altre civiltà, diventare uomo in Grecia non è solo una questione anagrafica. Si tratta invece di una transizione in cui il giovane, in compagnia di altri coetanei, deve dimostrare di essere all’altezza del nuovo ruolo, superando un periodo di "prova", spesso vissuto al di fuori della polis e caratterizzato da condizioni di vita difficili, finalizzate a temprare il cittadino, soprattutto nel suo futuro ruolo di soldato.
Spesso in tale percorso giocano un ruolo importante le relazioni omoerotiche: i fanciulli appena puberi sono infatti al centro di relazioni omoerotiche con uomini più anziani, il cui valore pedagogico è fondamentale all’interno della cultura greca. In alcuni casi, come a Creta, l’amante mette in scena un vero e proprio "rapimento" del fanciullo, col quale trascorre un lungo periodo al di fuori della città, in campagna. Più in generale, l’esperienza omosessuale costituisce comunque un momento importante di formazione a un tempo sentimentale, culturale e sociale, che rappresenta un primo ingresso nel mondo degli adulti. Così si esprime il poeta Teognide rivolgendosi all’amato giovinetto Cirno (1, 27-34): “Poiché sono animato da buone intenzioni nei tuoi confronti, ti insegnerò, o Cirno, ciò / che io stesso ho appreso dalle persone per bene, quando ero ancora ragazzo. / Sii saggio: da azioni vergognose ed ingiuste / non trarre onori, nomea di virtù, né ricchezza. / Sappi questo: non devi frequentare cattive compagnie, / ma stare sempre con quelli che sono perbene. Con loro mangia e bevi, con loro / siedi, e cerca di piacere a quelli che hanno grande potere”.
Le raccomandazioni di Teognide all’amato ci permettono di sottolineare come l’omosessualità praticata e incoraggiata in Grecia sia concepita come parte integrante dell’educazione del giovane cittadino (Senofonte, La costituzione degli Spartani, 9, 12-14).
Senofonte
I rapporti amorosi con i fanciulli come parte dell’educazione
Costituzione degli Spartani, 2, 12-14
Credo adesso di dover parlare degli amori per i ragazzi: si tratta infatti di un ulteriore elemento finalizzato all’educazione. Gli altri Greci hanno rapporti fra di loro, o come i Beoti, con coppie formate da un uomo e da un ragazzo, o come gli Elei, che legando a sé la persona con particolari riguardi approfittano della sua bellezza; c’è poi chi inibisce completamente i rapporti con i fanciulli, impedendo agli amanti di parlare con questi ultimi. Ma Licurgo decise anche su questo tema in maniera opposta a tutti costoro: se una persona come si deve, ammirando l’anima di un giovane, provava a farselo amico al di là di ogni biasimo, e di godere della sua compagnia, lodava un simile atto e lo considerava una splendida educazione. Se, al contrario, una persona dimostrava di desiderio per il corpo di un ragazzo, rendendo la cosa disdicevole sopra ogni altra, fece sì che a Sparta gli amanti si tenessero lontani dagli amati, non meno di quanto fanno, per il sesso, i padri dai figli, o i fratelli dalle sorelle. Non mi stupisce affatto che qualcuno diffidi di questo fatto. In molte città, infatti, le leggi non si oppongono ai desideri rivolti verso i fanciulli.
Senofonte, Agesilao e La costituzione degli Spartani, trad. it. di G. D’Alessandro, Milano, Mondadori, 2009
Per quanto riguarda le iniziazioni maschili, è evidente infatti che il tema della guerra assume un’importanza fondamentale: essere cittadino per un greco di età classica significa innanzitutto essere un buon soldato, capace di dar prova di coraggio e di astuzia, e pronto a proteggere i compagni. Questo periodo di transizione è spesso scandito dalla partecipazione a pratiche rituali collettive, svolte sotto il segno di figure divine (per esempio Artemide o Apollo) che guidano il fanciullo verso il raggiungimento del suo nuovo status. A proposito di questo complesso passaggio dall’infanzia all’età adulta, gli interpreti moderni fanno spesso riferimento alla categoria dei "riti di passaggio", formalizzata dall’antropologo Arnold Van Gennep (Les rites de passage, 1909) che ha messo in rilievo per la prima volta l’esistenza in diverse civiltà "tradizionali" di momenti di transizione all’età adulta, tipicamente strutturati in tre fasi: separazione (allontanamento dalla comunità), margine (esperienza liminale nella quale un complesso di riti operano la trasformazione di status), aggregazione (reintegrazione nella comunità).
Tuttavia, occorre precisare che rispetto al quadro etnografico presupposto dagli studi di Van Gennep, in cui la componente religiosa è preponderante (si parla infatti di "riti" di passaggio), in Grecia questo elemento si trova inserito nel contesto dei valori civici proposti ai giovani dalla polis. Ciò è particolarmente evidente sia nell’istituzione dell’efebia ateniese, sia in quella dell’agoge spartana (cioè il "percorso educativo", letteralmente l’azione di "condurre", agein, i giovani al loro ruolo di adulti). Ad Atene l’efebia rappresenta un "servizio militare" di due anni, dai 18 ai 20, all’inizio del quale i giovani prestano giuramento nel tempio di Aglauro (una delle figlie del mitico Cecrope, re di Atene) chiamando a testimoni le più antiche divinità della città e giurando sui suoi confini.
A partire da tale momento essi indossano un mantello nero che costituisce la loro divisa e sono inviati ai confini del territorio da dove, in piccoli gruppi armati alla leggera, sono impiegati in particolare in compiti di ricognizione e in imboscate contro il nemico. In questo periodo i legami con la famiglia sono completamente rescissi: essi possono essere richiamati in città solo in casi eccezionali.
Questa sorta di isolamento è stata sovente messo in relazione con il periodo di marginalità che segna il passaggio da un’età all’altra nella schematizzazione di Van Gennep. Secondo Pierre Vidal-Naquet (Le chasseur noir, 1981, volume in cui è ripreso un celebre saggio sull’argomento risalente al 1968), in questo contesto la caccia costituirebbe un elemento importante: attività tipica delle zone liminari, che si collocano in opposizione alla città, essa sembra costituire un’attività propedeutica alla vita militare perché essenziale a sviluppare la tempra fisica e le doti di astuzia richieste dalla strategia bellica.
Secondo questa interpretazione, inoltre, il momento liminare dell’efebia appare segnato dall’inversione di molti caratteri che sono tipici del modello oplitico rappresentato dal cittadino adulto: al soldato adulto armato di tutto punto e saldamente inserito nella falange si oppongono i piccoli gruppi di giovani armati alla leggera, alla vita nella polis quella ai confini del territorio civico, alla pratica dell’ordine e del rispetto assoluto della taxis, cioè dell’ordine dello schieramento, si contrappongono le tecniche belliche basate sull’astuzia (imboscate, spionaggio, travestimento, si veda una storia esemplare in Pausania, Periegesi, 4, 4, 2-3).
Pausania
Pratiche di iniziazione femminile
Guida della Grecia, Libro IV, 4, 2-3
Ai confini della Messenia sorge un santuario di Artemide detta Limnatis; i soli Dori ad avere a che fare con esso erano i Messeni e i Lacedemoni. Ora, i Lacedemoni dicono che uomini messeni fecero violenza ad alcune loro ragazze, venute alla festa, e uccisero il re spartano, che tentava di impedire la violenza, Teleclo, figlio di Archelao, figlio di Agesilao, figlio di Dorisso, figlio di Labota, figlio di Echesestrato, figlio di Agide. Aggiungono poi che le ragazze violentate si tolsero la vita per la vergogna. I Messeni dicono che fu Teleclo ad attentare alla vita di quelli che erano venuti al santuario e che in Messenia primeggiavano per dignità; la causa fu la qualità della terra in Messenia. Per l’attentato Teleclo avrebbe scelto degli Spartiati ancora privi di barba, e, dopo averli acconciati come delle ragazze nella veste e nel resto degli ornamenti, li avrebbe introdotti, forniti di pugnali, presso i Messeni che stavano riposando; e i Messeni, per difendersi, avrebbero ucciso i ragazzi imberbi e lo stesso Teleclo. I Messeni dicono anche che i Lacedemoni, consci di avere per primi commesso un torto – infatti il loro re non aveva preparato il piano senza il conforto del pubblico parere –, non chiesero loro soddisfazione per l’uccisione di Teleclo. Queste sono le due versioni correnti, e ognuno si lasci persuadere a seconda della simpatia che ha per gli uni o per gli altri.
Pausania, Guida della Grecia. Libro IV. La Messenia, a cura di D. Musti, commento a cura di D. Musti e M. Torelli, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 1991
Senofonte
Il furto è parte del processo educativo giovanile
Costituzione degli Spartani, 2, 6-9
Per evitare che soffrissero troppo la fame, pur non concedendo ai giovani di prendere senza impedimenti il cibo di cui avessero bisogno, Licurgo lasciò comunque la possibilità di rubare qualcosa per combattere il desiderio di mangiare. Credo che tutti capiscano che, se egli permise loro di trovarsi da soli la via per sfamarsi, non fu perché non avesse cibo da dare; è chiaro invece che chi vuole compiere un furto deve stare meglio di notte, tessere inganni e tendere insidie di giorno, e che per procacciarsi qualcosa a questo modo bisogna predisporre persone che sorveglino il luogo del furto. È manifesto che Licurgo educò i ragazzi a fare tutte queste cose così con l’intento di renderli più ingegnosi nel procurarsi i viveri e più adatti alla guerra. Si potrebbe allora dire: se considerava bene il furto, per quale motivo ha fissato come pena per chi venga colto in flagrante una solenne razione di botte? Perché – dico io – succede così anche con le altre cose che si insegnano: chi non esegue a dovere le istruzioni viene punito. Anche gli Spartani, pertanto puniscono chi si fa cogliere in flagrante perché ruba male. Egli poi, che aveva reso onorevole il furto di quante più forme possibili di formaggio dal santuario dell’Orthia, ordinò ad altri di frustare quanti non lo facessero: anche con quest’atto intendeva dimostrare che con una sofferenza a breve termine si può poi gioire a lungo per la fama conquistata; e in questo si dimostra anche che, negli affari in cui occorre essere veloci, chi si attarda ne ricava il minor vantaggio e un bel mucchio di guai.
Senofonte, La costituzione degli Spartani e Agesilao, trad. it. di G. D’Alessandro, Milano, Mondadori, 2009
Tuttavia, al modello proposto da Vidal-Naquet sono state avanzate alcune critiche (D. D. Leitao, "Classical Antiquity" 14. 1995, pp. 130-163; J. Ma, "Cambridge Classical Journal" 54, 2008, pp. 188-208), che ne evidenziano sia una certa schematicità sia la mancata distinzione tra il piano dell’immaginario e quello della realtà storica. In particolare è stato suggerito che le ragioni dell’allontanamento degli efebi in zone di frontiera fossero di diverso tipo: l’adolescenza era infatti ritenuta un momento assai critico, nel quale i giovani uomini erano animati da energie potenzialmente violente, che potevano dirigersi contro la comunità stessa. Attraverso l’allontanamento e un’educazione guerriera la città avrebbe dunque incanalato e controllato le energie giovanili.
Un altro punto dibattuto dei riti di passaggio maschili è quello relativo al travestitismo: sia a livello rituale sia a livello mitico si incontrano infatti frequentemente adolescenti che indossano abiti femminili (le Oscoforie ad Atene, gli Ekdusia a Creta). Lo stesso Achille, secondo una nota leggenda postomerica, aveva trascorso l’adolescenza nell’isola di Skyros travestito da fanciulla per volere della madre Teti, intenzionata ad evitare la sua partecipazione alla guerra di Troia. Solo l’astuzia di Odisseo, che aveva mescolato armi con le vesti portate in dono alle figlie del re dell’isola, era riuscita a smascherarlo: Achille infatti in quest’occasione svela la propria identità maschile mostrando il proprio interesse per le armi e trascurando invece le stoffe destinate alle fanciulle.
Ora, se tale ricorso al travestimento femminile è stato interpretato da Pierre Vidal-Naquet come un ulteriore indizio dell’inversione che caratterizza lo stato di marginalità, altri studiosi (D.D. Leitao, "Solon on the beach" in Rites of Passage in Ancient Greece: Literature, Religion, Society, a cura di Mark William Padilla, 1999, pp. 247-277) hanno interpretato invece tale elemento come un segno visibile del legame che i giovani, in questa fase liminale, intrattengono ancora con il mondo dell’infanzia, caratterizzato come un mondo "femminile". Liberarsi di questi travestimenti sia nei miti sia nei riti significherebbe abbandonare l’infanzia per accedere finalmente allo stato di uomini adulti.
È senza dubbio interessante istituire un parallelo tra l’efebìa ateniese e l’agoge lacedemone, che hanno alcuni significativi punti di contatto: questo percorso educativo che il giovane deve obbligatoriamente affrontare per diventare a pieno titolo cittadino, cioè un homoios ("pari", "eguale"), è scandito in diversi gradi ed è gestito dalla polis che si sostituisce in tal modo alla famiglia. Possiamo in parte ricostruire questo percorso grazie ad autori che, come Senofonte e Plutarco, ci descrivono in maniera particolareggiata il progetto educativo lacedemone. Tuttavia l’attendibilità di tali testi deve essere considerata con cautela proprio per il loro atteggiamento di ammirazione nei confronti di Sparta, che costituisce ai loro occhi l’immagine idealizzata di una città in cui i costumi frugali e severi dell’educazione "all’antica" concorrevano a formare un cittadino moralmente integro e pronto ad agire per il bene della comunità, mettendo da parte i propri interessi personali.
Vediamo tuttavia ciò che ci riportano le fonti antiche. Già all’età di sette anni il bambino viene tolto ai genitori per vivere in un piccolo gruppo (agela, cioè "gregge") di coetanei, un fatto che indica chiaramente la subordinazione, ancora più accentuata nella società spartana, dell’individuo alla compagine statale.
A partire dai dodici anni il fanciullo deve affrontare condizioni di vita particolarmente dure, che si ritiene abbiano il fine di temprarne il corpo e lo spirito, favorendone la trasformazione in uno spartiata, membro del gruppo ristretto dei cittadini a pieno titolo. Tali pratiche risponderebbero all’esigenza di abituarlo allo stile di vita militare e all’obbedienza nei confronti delle leggi: il giovane non può possedere calzature, gli spetta un solo mantello per l’estate e l’inverno, e dorme su un povero giaciglio di giunchi. Gli è imposta inoltre una dieta povera e scarsa, al punto da costringerlo a procurarsi il cibo rubando, condotta che tuttavia viene poi aspramente punita con violente fustigazioni.
Quest’ultimo comportamento è ritualizzato all’interno del culto di Artemide Orthia: una volta l’anno, infatti, i ragazzi cercano di rubare dei formaggi dall’altare della dea, sfidando a tal fine le frustate inflitte da altri giovani, forse più grandi (Senofonte, La costituzione degli Spartani, 2, 6-9). Attraverso tale rito, Licurgo, legislatore di Sparta, avrebbe inteso mostrare ai giovani come, affrontando una breve sofferenza come quella della fustigazione, avrebbero potuto ottenere una duratura e gloriosa fama (sembra infatti che il più coraggioso fosse premiato con un titolo onorifico). Il giovane spartano insomma, deve "guadagnarsi" lo status di homoios passando attraverso un lungo periodo in cui vive una condizione di inferiorità rispetto agli uomini adulti, ai margini della società.
È possibile che una funzione educativa fosse presente anche in un’altra istituzione spartana, quella della krypteia (da kryptein "nascondere"). Su di essa tuttavia le testimonianze sono estremamente scarse e non ci consentono di comprendere la reale diffusione del fenomeno, probabilmente assai limitata. Sembra comunque che i giovani per un anno vagassero giorno e notte al di fuori della città e fossero autorizzati a uccidere uno o più iloti, cioè membri delle popolazioni della Laconia e della Messenia sottomesse dalla città di Sparta, che vivevano in uno stato di schiavitù. Ecco come Plutarco descrive gli Spartani impegnati nella krypteia: “essi hanno con sé un pugnale, il necessario per mangiare e nient’altro. Finché è giorno, essi si disperdono nei luoghi più nascosti, senza fare nulla, ma non appena scende la notte, raggiungono le strade percorse dagli iloti; se ne sorprendono uno, lo sgozzano. O ancora, intrufolandosi nei campi ammazzano i più robusti e valenti. […] Aristotele dice che gli efori, dal momento della loro entrata in carica, dichiarano guerra agli iloti, perché la loro uccisione non sia un sacrilegio” (Plutarco, Vita di Licurgo, 28, 7). Il passaggio dall’infanzia all’età adulta è dunque scandito e ritualizzato: tale transizione si configura come un periodo nel quale il giovane vive al di fuori della società e delle sue regole per poi rientrarvi a pieno diritto in un secondo momento, quando ha dato prova della sua "idoneità" ad assumere il suo nuovo ruolo all’interno della comunità degli adulti.
Anche nel mondo femminile i riti di passaggio rappresentano un momento estremamente importante, che ha lo scopo di traghettare le fanciulle verso il loro ruolo di mogli e di madri. In primo luogo, è utile osservare che in questa fase di transizione la fanciulla si trova a metà strada tra la condizione di parthenos ("vergine") e quella di gyne ("donna"): essa è sovente indicata come una nymphe, termine ambiguo che designa sia la ragazza pronta per il matrimonio, ma che ancora non conosce l’unione sessuale, sia la giovane sposa, che non è però ancora madre. Agli occhi dei Greci la fanciulla che attraversa questa fase, già sessualmente matura, ma in parte ancora legata al mondo dell’infanzia, si trova al culmine del suo fascino erotico. Tuttavia, pur suscitando il desiderio degli uomini, si ritiene che la nymphe, proprio perché ancora in parte legata alla condizione virginale, sia ostile al maschile e portata a rifiutare la sessualità adulta. A livello mitico-rituale ritroveremo questo paradigma nei racconti relativi a due luoghi di culto situati nelle vicinanze di Sparta, cui sembrano collegate pratiche di iniziazioni femminili: si tratta del tempio di Artemide Limnatis, tra Sparta e Messene, e di quello di Artemide Karyatis, tra Arcadia e Laconia. In entrambi i racconti le fanciulle, riunite a celebrare una festa per la dea, subiscono una violenza sessuale, cui seguirà un suicidio di massa (Pausania, Periegesi, 4, 4, 2-3). Angelo Brelich prima (Paides e parthenoi, 1969) e Claude Calame poi ("Iniziazioni femminili spartane: stupro, danza, ratto, metamorfosi e morte iniziatica" in Giampiera Arrigoni [a cura di], Le donne in Grecia, 1985, pp. 33-54), hanno avanzato l’idea che la morte delle ragazze del racconto corrisponda ad una "morte iniziatica". Storie di questo tipo veicolerebbero cioè l’idea che, nel contatto con il maschile, vissuto dalla fanciulla come uno stupro, la vergine muoia per lasciare spazio alla donna adulta e alla sessualità matrimoniale.
Un analogo quadro psicologico è rappresentato a livello mitico dalle vicende delle ninfe, personaggi femminili la cui esistenza è strettamente connessa agli elementi naturali del paesaggio, in particolare fonti, alberi e grotte. Queste figure mitiche sono strettamente legate alla dea Artemide di cui formano il seguito, accompagnandola sia nella caccia sia nei momenti di riposo, come il bagno: proprio in tali frangenti esse rischiano di essere vittime dell’irrefrenabile desiderio degli dèi, al quale o soccombono obbligate con la violenza oppure sfuggono attraverso la metamorfosi. È il caso ad esempio di Dafne, assalita da Apollo: primo amore del fratello di Artemide, la ninfa, ostile alle nozze, impegna il dio in un lungo inseguimento, al termine del quale invoca la Terra o il padre Peneo, un dio-fiume, affinché la salvino: è quindi trasformata in alloro, la pianta che diventerà sacra ad Apollo. Un’altra storia racconta che la ninfa Siringa, anch’essa seguace di Artemide, tentando di sfuggire al dio Pan, è trasformata dalle pietose ninfe delle acque, le Naiadi, in una moltitudine di canne palustri, con cui il dio fabbrica lo strumento musicale che sempre l’accompagna: la siringa appunto, o flauto di Pan.
Questi miti, le cui protagoniste sono ninfe che rifiutano il contatto con il maschile, permettono di evidenziare un secondo punto importante, cioè che proprio la dea Artemide è la divinità che presiede con maggior frequenza alle iniziazioni femminili. Occorre tuttavia precisare che essa non è l’unica figura divina coinvolta; spesso si trovano al suo posto o al suo fianco, in tale funzione, altre divinità, quali ad esempio Persefone a Locri, Afrodite sull’isola di Lesbo, Elena a Sparta, Ifigenia a Brauron, presso Atene. D’altro canto, Artemide, in quanto dea vergine e protettrice della gioventù, è colei che più spesso, sia nel rito sia nel mito, guida le fanciulle da una condizione virginale di ritrosia, considerata selvatica e ostile al maschio, verso una nuova sfera di influenza: quella delle dee che governano la sessualità matrimoniale, in particolare Afrodite ed Era.
Prima di sposarsi, infatti, è a lei che la fanciulla dedica i suoi giochi di bambina e in particolare la bambola, un gesto che intende indicare proprio la conclusione dell’infanzia e il definitivo approdo alla condizione di donna adulta: “Timareta prima delle nozze, ha offerto ad Artemide Limnatis, i timpani, la palla che amava, la rete che stringeva i capelli. E, come si conviene, lei, vergine (kore), ha offerto a te, vergine (kore) le sue bambole (korai) e i loro abiti virginali” (Antologia Palatina, 6, 280). Non ci stupiamo quindi che molti riti di iniziazione siano concepiti come una partecipazione obbligatoria, intensa e collettiva al culto della dea, un servizio che le fanciulle svolgono in gruppo in onore di Artemide con lo scopo di onorarla nel momento in cui la lasciano per entrare in un’altra fase della vita, quella matrimoniale.
Sembra questo il caso dei rituali iniziatici che si svolgono a Brauron, presso Atene. Qui le fanciulle ateniesi, molto probabilmente un gruppo ristretto e scelto di esse, onorano la dea "imitando l’orsa" (scoli alla Lisistrata di Aristofane, 645) e vestono con un caratteristico abito giallo zafferano, il krokotos: si tratta di un segno che, come il mantello nero degli efebi, ne marca lo status speciale. È tutt’altro che chiaro cosa voglia dire precisamente "essere un’orsa nei riti di Brauron", come proclama orgogliosamente il coro femminile di una commedia di Aristofane (Lisistrata, 645). Fonti tardive ci tramandano diverse versioni di un racconto secondo il quale questa "imitazione" costituirebbe l’espiazione di un’offesa nei confronti della dea, cioè dell’uccisione di un’orsa addomesticata che avrebbe ferito accidentalmente una fanciulla nel tempio (Suda, s.v. Arktos e Brauroniois, s.v. Embaros eimi; scoli alla Lisistrata di Aristofane, 645; Pausania riportato da Eustazio, Commento all’Iliade, II, 732). Ma perché proprio un’orsa? Quest’animale è in realtà strettamente legato ad Artemide: caratterizzato dall’estrema ferocia e dalla completa appartenenza al mondo selvaggio della foresta cui la dea presiede, esso rappresenta efficacemente la caratteristica selvatichezza attribuita sia ad Artemide sia alle giovani fanciulle sotto la sua protezione.
Non è un caso che esso compaia in molti miti che coinvolgono Artemide: è un’orsa la nutrice della cacciatrice Atalanta, l’unica donna a partecipare insieme a diversi eroi alla caccia del cinghiale Calidonio. Ancora, è in un’orsa che viene tramutata Callisto, compagna di caccia della dea, che Zeus era riuscito a sedurre. E Polifonte, fanciulla che disprezza Afrodite per onorare solo Artemide, è punita dalla dea che presiede alle relazioni sessuali con un desiderio dissennato e mostruoso nei confronti di un orso. Per ritornare a Brauron, è possibile che attraverso l’imitazione dell’orsa, in qualunque modo tale comportamento si debba intendere, le fanciulle esprimano un’ultima volta l’appartenenza al mondo selvatico e virginale della dea, caratterizzato da un atteggiamento ostile verso il maschile, per poter finalmente lasciarlo e approdare a una condizione civilizzata, rappresentata dal rientro in città e dal matrimonio. Forse un quadro più preciso di quali potessero essere le attività di culto svolte dalle fanciulle in onore di Artemide ce lo fornisce un testo relativamente poco citato, l’Inno omerico a lei dedicato (27, 11-20): “E quando alla fine è sazia, l’arciera cacciatrice, / e ha rallegrato l’animo, distendendo il flessibile arco / si reca alla dimora maestosa del fratello, / Febo Apollo, nelle pingui contrade di Delfi / per guidare la bella danza delle Muse e delle Grazie. / Ivi depone l’arco ricurvo e le frecce, e, splendidamente adorna, conduce la danza / segnando il ritmo; levando la voce divina, le fanciulle / cantano Leto dalle belle caviglie, come generò i suoi figli / eccelsi tra gli immortali per la saggezza e le imprese” (Inni omerici, 1975).
Questo prezioso passaggio ci mostra la dea mentre guida un gruppo di fanciulle (non dimentichiamo infatti che le Muse sono presentate dalla poesia antica quali korai, cioè "fanciulle") in due attività strettamente collegate: da un lato la danza, di cui Artemide segna la cadenza, dall’altro il canto, il cui oggetto consiste nella lode della dea stessa e di suo fratello Apollo: la dea insomma è qui descritta mentre celebra e guida il rito corale in suo stesso onore, di suo fratello Apollo e di sua madre Leto.
Il passaggio che abbiamo citato descrive perfettamente il modello del culto tributato alla dea dalle ragazze che attraversano la fase di transizione che le guiderà al matrimonio. In primo luogo è importante notare che tale rito è praticato in una dimensione collettiva e non individuale. Le fanciulle che lo celebrano formano infatti un coro (choros da choreuein "danzare"), inteso come un gruppo femminile, formato in particolare da adolescenti, che pratica il canto e la danza in una dimensione cultuale. Il coro ha un valore religioso ed educativo al tempo stesso: attraverso la danza e il canto infatti, il corèga, cioè colui o – più frequentemente – colei che guida il coro e lo accompagna musicalmente, istruisce le fanciulle all’ordine e alla compostezza richiesti. La padronanza dei movimenti e della voce, e la necessaria ricerca dell’accordo tra i differenti membri, costituiscono gli elementi attraverso cui le giovani apprendono una modalità di comportamento basata sull’armonia con gli altri, sul controllo di sé, e aliena dagli eccessi. Secondo Platone, ad esempio, il coro rappresenta la prima forma di educazione dei bambini, che attraverso la danza e il canto possono incanalare l’energia tipica della loro età, tendente per sua natura a movimenti scomposti e disordinati, paragonabili a quelli degli animali (Leggi, 653d-654a).
La dimensione corale, musicale e coreutica, dell’educazione di fanciulli e fanciulle costituisce pertanto un elemento indispensabile all’"addomesticamento" del giovane e al suo processo di "civilizzazione", che sembra svolgersi soprattutto sotto il segno dei Letoidi, Apollo e Artemide. “Consideriamo come un dato di fatto che la prima forma di educazione (paideia) avviene attraverso Apollo e le Muse o no?” si chiede infatti Platone.
Attraverso la danza e il canto le fanciulle attualizzano inoltre un ideale di bellezza, grazia e seduzione femminile ritenuto fondamentale perché esse possano finalmente entrare nella sfera di Afrodite e approdare al matrimonio. Non è un caso se uno degli argomenti favoriti dei canti corali è la lode della bellezza delle sue partecipanti. Ecco come si esprime il poeta Alcmane, attivo a Sparta nella seconda metà del VII sec. a.C., in uno dei suoi famosi parteni, cioè canti eseguiti da cori di fanciulle (parthenoi): “Lei stessa / spicca così come se uno / nella mandria ponesse un cavallo, / robusto, vincitore nelle gare, dallo scalpitante zoccolo / uno di quelli degli alati sogni / Dunque non vedi? Ella è come veloce / destriero veneto; ma la chioma / della mia cugina Agesicora / come oro purissimo / fiorisce: / ed è argento il suo volto; / lo dovrei dire proprio chiaramente? / Agesicora è questa! / Essa invece, Agido, seconda per bellezza / correrà come un cavallo colassèo di fianco ad uno ibèno” (Alcmane. Carminum fragmenta, Introduzione, testo, traduzione, commento di G. De Virgiliis e L. Del Santo, 1964, pp. 9-11).
È evidente che l’esaltazione della bellezza delle fanciulle si spiega innanzitutto con l’intenzione di renderle desiderabili agli occhi maschili, soprattutto se si pensa che canti e danze delle fanciulle "da marito" vengono messi in scena sotto gli occhi dell’intera collettività durante specifiche festività. Ciò non esclude tuttavia la probabile presenza di legami omosessuali all’interno del coro, che probabilmente coinvolgevano la corèga stessa, come è stato più volte messo in rilievo, tra gli altri, da Bruno Gentili (Poesia e pubblico in Grecia antica, 1995, pp. 101-139) e Claude Calame (Les choeurs de jeunes filles en Grèce archaïque, 1977, vol. I, pp. 427- 449), il quale ne ha opportunamente sottolineato il parallelismo con i rapporti omosessuali presenti nel mondo iniziatico maschile.
Questo tema è centrale anche nella poesia di Saffo, la cui opera lascia intravedere alcune dinamiche interne al tiaso da lei guidato, una sorta di comunità riunita intorno al culto di Afrodite, con funzioni almeno in parte analoghe a quelle del coro spartano descritto da Alcmane (si veda Saffo, frr. 16 e 94 Voigt). Il legame tra Saffo e le fanciulle è vissuto come parte integrante della vita del gruppo e rappresenta un momento educativo al pari della preparazione, orgogliosamente rivendicata, al canto, alla danza, alla poesia.
Saffo
Elogio dell’amore
fr. 16 Voigt
Alcuni dicono che sulla terra nera la cosa più bella sia un esercito di cavalieri, altri di fanti, altri di navi. Io invece ciò di cui uno è innamorato;
ed è assolutamente facile farlo intendere a chiunque: perché colei che di gran lunga superava in bellezza ogni essere umano, Elena, abbandonato il suo sposo impareggiabile
traversò il mare fino a Troia né si ricordò della figlia e degli amati genitori: lei… disviò
[Cipride], che inflessibile ha la mente … facilmente … [così] ella ora mi ha fatto ricordare di Anattoria lontana,
di cui vorrei contemplare il seducente passo ed il luminoso scintillio del volto ben più che dei carri dei Lidi e i fanti che combattono in armi.
[Gli uomini] non possono mai essere [al tutto felici], ma possono pregare di avere parte…
Saffo, Poesie, trad. it. di F. Ferrari, introduz. di V. Di Benedetto, Milano, BUR, 1987
Saffo
L’amore nel tiaso
fr. 94 Voigt
[…] sinceramente vorrei essere morta. Lei mi lasciava piangendo
a lungo, e così mi disse: "Ah! Che pene spaventose soffriamo, oh Saffo. Davvero contro il mio volere ti lascio".
Ed io così le rispondevo: "Va’ e sii felice e di me serba memoria: tu sai quanto ti volevamo bene;
ma se tu non ricordi, allora io voglio farti ricordare […] tutti i momenti […] e belli che abbiamo vissuto insieme:
[ché] accanto a me tu ponesti [sul tuo capo molte corone] di viole di rose e di crochi [?]
e intorno al collo delicato molte collane conserte fatte di fiori [incantevoli]
e con unguento floreale […] e regale ti profumasti
e sui morbidi giacigli […] delicat[ …] placavi il desiderio […]
e non c’era [festa?] né sacrificio né […] da cui noi fossimo assenti,
non bosco, non danza … fragore [dei crotali?] …
Saffo, Poesie, trad. it. di F. Ferrari, introduz. di V. Di Benedetto, Milano, BUR, 1987
In un celebre passaggio Plutarco (Questioni romane, 2) spiega l’uso romano di accendere cinque fiaccole in occasione dei matrimoni, adducendo come motivazione il fatto che le nozze sono poste sotto la protezione di cinque divinità. Si tratta di Zeus Teleios, Era Teleia (letteralmente "compiuto" e "compiuta", cioè "sposo" e "sposa" con riferimento al matrimonio come ‘compimento’ della vita), Artemide, Peithò (la personificazione della Persuasione), e Afrodite. Sebbene Plutarco non lo dica, possiamo ragionevolmente pensare che Zeus ed Era, in quanto coppia di sposi per eccellenza, tutelino la legittimità delle nozze, che Peithò faciliti sia il passaggio della sposa dalla casa del padre a quella del marito, sia l’armoniosa unione tra i due sposi. Afrodite e Artemide, invece, seppure su due piani diversi, regolano la dimensione della sessualità: Afrodite presiedendo ai piaceri dell’unione coniugale, Artemide in quanto strettamente legata al momento del parto.
Tra queste divinità la presenza di Peithò è particolarmente significativa, perché indica l’auspicio che dal matrimonio sia assente la dimensione della violenza e al contrario predominante quella dell’accordo armonioso. Come abbiamo avuto modo di osservare nell’analisi dei riti di passaggio femminili, la figura della fanciulla, sia essa kore, parthenos o nymphe, sembra essere costantemente sottoposta al pericolo di violenza e rapimento, eventi tragici che possono indurla a togliersi la vita. Non ci sorprende pertanto notare che nella mitologia greca il tema del matrimonio si fonde assai frequentemente con quello del rapimento, della violenza e della morte. Paradigmatica è in questo senso la vicenda di Persefone, la giovane dea figlia di Demetra, chiamata anche semplicemente Kore, "la fanciulla", che viene rapita da Ade, il dio degli inferi, per farne la sua sposa. Il rapimento e la sparizione di Persefone nel mondo dell’aldilà suggeriscono la concezione del matrimonio come violento distacco dal mondo femminile della madre e delle compagne.
Risulta a questo punto significativo analizzare più da vicino il matrimonio greco per notare come le cerimonie nuziali e quelle funebri abbiano molti punti in comune, e come sul piano umano tutta l’attenzione sia rivolta a scongiurare lo spettro della violenza e del rapimento. In primo luogo è importante rilevare che la lingua greca non conosce un’espressione corrispondente al nostro concetto di "matrimonio". Notava del resto già Aristotele (Politica 1, 3, 2) che “l’unione dell’uomo e della donna non ha un nome preciso”. In realtà sono almeno due i termini che si avvicinano alla nozione moderna: il primo è l’engye, la cerimonia che designa il momento formale e solenne in cui il padre dà il suo assenso all’allontanamento della figlia dal nucleo familiare d’origine. In questa circostanza viene anche stabilito l’ammontare della dote, che tuttavia non apparterrà mai completamente al marito, ma che verrà piuttosto da lui amministrata per conto della moglie e dei figli futuri. Il momento dell’engye, che rappresenta la sanzione di un accordo tra due famiglie, non prevede né la presenza né l’assenso della futura sposa: passando dall’autorità del padre a quella dello sposo, questa svolge piuttosto il ruolo di oggetto della transazione tra due uomini e due casate.
L’altro termine greco che entra in gioco a proposito di matrimonio è quello di gamos, che lo associa in modo generico all’unione sessuale, o ekdosis, un termine che sottolinea come l’azione determinante del matrimonio sia quella di "dare volontariamente" la sposa ad un uomo esterno al nucleo familiare. Sono dunque questi per i Greci i momenti essenziali dell’unione legittima tra un uomo e una donna: accordo di chi esercita l’autorità sulla fanciulla e rapporti finalizzati alla procreazione. Può forse sbalordirci constatare che per la legittimazione giuridica del matrimonio non sia necessario né l’intervento di un’autorità superiore, civile o religiosa, né l’assenso formale della fanciulla, che viene espresso dalla famiglia. Ciò non significa tuttavia che gli antichi non sottolineino in alcun modo il momento che si colloca tra engye e gamos, i due eventi tra i quali noi situeremmo il "nostro" matrimonio. Al contrario, sappiamo che si tengono festeggiamenti che segnano questo momento di transizione tra l’assenso paterno e la consumazione dell’unione. Essi si svolgono però in un contesto completamente familiare e sono incentrati sul passaggio della sposa dalla casa del padre a quella del marito. Ma andiamo con ordine.
Il giorno delle nozze è uso che un bambino, avente entrambi i genitori in vita (e perciò detto pais amphithales), cammini per il quartiere annunciando l’avvenimento. Egli reca con sé una corona di ghiande e acanto, nonché un setaccio di quelli che si usano per separare il grano dalla pula, pieno di pane. Egli ripete a tutti la formula tradizionale con cui si dà notizia dell’avvenimento: “ho fuggito il male, ho trovato il meglio” (vd. Suda e 3971).
Ogni particolare di questo momento è significativo: il fatto che a svolgere questa funzione sia un fanciullo non ancora toccato dalla morte dei genitori sembra costituire in sé un augurio di prolificità e longevità per la coppia. Anche la frase pronunciata sembra indicare nel matrimonio un momento di positiva evoluzione dell’individuo, quasi di scampato pericolo. Forse proprio gli oggetti che il bambino reca possono aiutarci a definire quali siano i termini di questa transizione: l’acanto è una pianta sterile e spinosa e le ghiande rappresentano un cibo primitivo appartenente ad un’epoca in cui gli uomini non conoscono ancora la cerealicoltura, mentre il pane si situa chiaramente sul gradino finale di uno stadio di civiltà fondato sull’ordine e sulla ciclicità del sistema agricolo. Sembra dunque che attraverso un vero e proprio "codice botanico" il momento del matrimonio sia implicitamente caratterizzato come un passaggio da uno stadio di sterilità o povertà, cui alludono le piante non coltivate, ad uno di fertilità rappresentato dal frutto ultimo della coltivazione del grano, il pane. Attraverso le parole del pais amphithales dunque, si augura agli sposi che la loro unione sia feconda come un raccolto dal quale si possa produrre il pane.
La sera delle nozze, nella casa della sposa, la famiglia offre un grande banchetto a parenti, vicini e amici: l’illuminazione ottenuta con torce e la presenza di danze e canti rende l’atmosfera ancora più festiva. In particolare, le torce sono così intimamente connesse ai festeggiamenti nuziali che un’unione irregolare può essere definita "un gamos senza torce". La sposa è ovviamente al centro dell’avvenimento.
Con l’aiuto della nympheutria, una donna più anziana a lei legata da vincoli di sangue o di amicizia familiare, essa ha preso un bagno dal forte valore simbolico e rituale, ed è stata poi riccamente incoronata, adornata e profumata. Tutti questi accorgimenti naturalmente hanno il fine di renderla il più possibile attraente per lo sposo, ma presentano anche inquietanti somiglianze – percepite già nell’antichità –, con i riti funebri, in cui le donne di famiglia lavavano, vestivano e incoronavano il cadavere. Tratto caratteristico dell’aspetto della sposa è il fatto che essa si presenta completamente velata: solo alla fine del banchetto, prima di condurla nella sua nuova dimora, il marito potrà togliere il velo e vedere il suo viso, un gesto carico di significato che prende il nome di anakalypsis, cioè "disvelamento". Da questo momento in poi, essa porterà i capelli raccolti e un velo con il quale coprirsi il volto in presenza di estranei. Tale gesto è ritenuto espressione del giusto pudore della sposa di fronte a coloro che non appartengono all’ambito familiare, e della sua sottomissione al marito.
È arrivato dunque il momento più atteso, l’evento che costituisce l’immagine più pregnante del matrimonio greco: il trasporto della sposa nella sua nuova casa. Posta su un carro, seguita dalla madre e dalla nympheutria recanti le torce, e da coloro che hanno partecipato al banchetto, la fanciulla arriva nella sua nuova dimora. Il cambio di residenza ha un’importanza fondamentale: esso rappresenta infatti il segno tangibile del fatto che la donna si distacca dalla famiglia di provenienza per entrare a far parte di quella dello sposo. È significativo a questo punto notare che il termine che più di ogni altro può avvicinarsi al nostro concetto di famiglia è quello di oikos ("casa"): cambiare casa significa insomma cambiare famiglia e viceversa.
Quando gli sposi entrano nella camera nuziale, il thalamos, qualcuno assume la funzione di guardiano della porta, mentre i cori di fanciulle e fanciulli che hanno accompagnato la sposa mettono in scena un tentativo fittizio di riportarla a casa. In Beozia si bruciava persino l’asse del carro davanti alla casa dello sposo, per chiarire una volta per tutte la situazione (Plutarco, Questioni romane, 271d-e), Sono queste forse rievocazioni addolcite di quel tema del rapimento e della violenza così spesso messe in scena nel mondo mitico.
Ad ogni modo, la prima notte di nozze è accompagnata dai cori di fanciulli e fanciulle, che intonano canti chiamati epitalami, (cioè quei componimenti che si intonano "presso la camera nuziale"). Il mattino dopo, il marito offre alla moglie i doni denominati anakalypteria (del "disvelamento"), simbolica ricompensa per la verginità perduta, e si prepara ad accogliere i doni provenienti dal padre della sposa (epaulia) e diretti ad entrambi. Attraverso tali doni, una volta di più il matrimonio si conferma come uno scambio reciproco e consensuale tra famiglie.