ZURLO
– Famiglia nobile napoletana, ascritta alla fine del Medioevo al seggio cittadino di Capuana. Le origini non sono note; uno dei primi esponenti individuabili con certezza è il logoteta e protonotario Gurello Zurlo (morto nel 1380), fedele sostenitore di Giovanna I, che subì – insieme ad altri baroni regnicoli – la confisca dei beni da parte di Urbano VI per il sostegno riconosciuto al papa avignonese Clemente VII.
A Napoli era ampiamente attestato l’uso tra i nobili di attribuire soprannomi sulla base di specificità fisiche o caratteriali, che in alcuni casi divennero veri e propri identificativi di una nuova linea. Così avvenne per gli Zurlo che, nel corso del Trecento, si strutturarono progressivamente in una linea autonoma, di-sgiungendosi dalla famiglia dei Piscicelli. In merito a questa pratica Scipione Ammirato (1651, II, p. 105) osserva che «l’andar investigando quel che questi cognomi si dinotassero sarebbe impresa più curiosa che necessaria potendo per diversi accidenti e il più delle volte da motti e da giuochi e da cosi fatti scherzi esser proceduti».
Gli Zurlo trassero grandi vantaggi dalla congiuntura della lotta per il trono di Napoli esplosa alla morte della regina Giovanna I (1382), che oppose per quasi trent’anni i durazzeschi, Carlo III e Ladislao, ai pretendenti angioini, Luigi I e Luigi II, rafforzando progressivamente il loro ruolo politico a corte e accrescendo, al contempo, il proprio patrimonio feudale.
Il compilatore dei Diurnali del duca di Monteleone (a cura di M. Manfredi, 1960, p. 32) registra anche Cicuzzo Zurlo e il figlio Marino e i fratelli Giacomo e Francesco tra i nobili che raggiunsero a Maddaloni Luigi I, giunto nel Regno (giugno 1382) per rivendicare i propri diritti, dove si unirono al suo esercito. Tutto ciò è espressione della graduale affermazione anche di un’identità guerriera per l’élite napoletana spendibile sul mercato della guerra in un periodo favorevole ad accogliere l’offerta di servizio armato.
Un’altra parte della famiglia – che si sarebbe costituita poi nelle linee dei conti di Montoro e Nocera e dei conti di Potenza e Sant’Angelo – fu attiva nel segno di una solida fedeltà ai Durazzo. Prestigiose carriere nell’alto funzionariato del Regno di Sicilia assicurarono agli Zurlo potere, ricchezze e terre.
Nel 1378 Giovanni Zurlo (morto nel 1381) aveva ottenuto da Giovanna I la possibilità di far succedere nei beni feudali (la terra di Montoro e i castra di Andretta e di Fossaceca in Principato Ultra, il casale di San Marzano e il feudo di Angri in Principato Citra, il feudo d’Aprano, che gli derivava per eredità materna, in Terra di Lavoro, oltre a una serie di introiti su alcune gabelle napoletane e sulle collette delle proprie terre) i suoi figli di secondo letto, escludendo le nipoti orfane del suo primogenito, Nicola Antonio. La vedova, Beatrice de Pontiac, venne ampiamente beneficiata dai sovrani durazzeschi: nel 1386 Margherita di Durazzo, moglie e vicario di Carlo III, le donò una provvigione sulla gabella della seta di Cosenza, che era pervenuta alla regia curia per la morte di Giovanna Sanseverino contessa di Montalto e che venne mantenuta a lungo, pur con qualche difficoltà, dagli Zurlo; nel 1390 Ladislao le confermò la baronia di Salice in Terra di Otranto, acquistata per 7000 ducati dalla regia curia, cui era devoluta per la morte senza eredi di Matteo Aldemorisco, e permutata poi con la terra di San Felice, e ratificò un privilegio della madre con il quale le era concesso il feudo di Rosso in Basilicata; l’anno successivo, lo stesso Ladislao le donò la gabella della platea Pizzaguto di Angri, già goduta dal ribelle Renzo Pagano.
Parimenti i suoi figli furono esponenti di significativo peso specifico alla corte dei Durazzo: Salvatore (morto nel 1404) fu miles di Carlo III, impegnato con il re in Puglia contro Luigi d’Angiò, membro del consiglio della regina Margherita a Gaeta, e siniscalco e consiliarius di Ladislao; Bernardo (morto nel 1415) è dapprima attestato siniscalco dell’ospizio regio (1400), poi ciambellano e maresciallo (1405), e infine protonotario e logoteta – uno dei sette grandi uffici del Regno, che egli ricoprì dopo la morte di Gorello Origlia nel 1412 e nel quale gli successe il figlio Francesco, che come tale fu presente all’incoronazione della regina Giovanna II nel 1419; Martuccio, ciambellano, è documentato castellano a Reggio Calabria nel 1392; Enrico, morto – secondo Scipione Ammirato – senza figli nel 1407, fu anch’egli siniscalco dell’ospizio regio.
Segno esemplificativo del prestigio di cui godevano gli Zurlo è la missione affidata da Ladislao nel luglio del 1399, vale a dire durante l’ultima fase della lotta per la riconquista di Napoli, allora controllata da Luigi II d’Angiò, a quattro suoi fideles (Gorello Origlia, Salvatore Zurlo, Gorello Carafa e Giovanni Spinelli) per concludere i negoziati della resa della città; missione che si risolvette con la stipula dei capitoli nel consiglio tenutosi nella chiesa dei predicatori di s. Pietro Martire.
La prossimità fisica e politica alla Corona si tradusse, per la famiglia, sul piano patrimoniale in una costante acquisizione di beni, localizzati prevalentemente in Principato Ultra (corrispondente in linea di massima alle attuali province di Benevento e Avellino). Oltre a essere succeduto insieme ai nipoti nei beni del fratello Enrico, Bernardo acquistò la terra di Montoro, sulla quale ottenne il titolo di conte, da Giacomo Antonio della Marra nel 1405 e la terra di Nusco dal re nel 1413; nello stesso anno Giovanni (II), figlio primogenito di Salvatore, comprò da Ladislao la vicina terra di Sant’Angelo con casali, sulla quale anch’egli ebbe il titolo comitale; più tardi, nel 1444 Alfonso il Magnanimo vendette al conte di Montoro la terra di Montella e al fratello, Russillo Zurlo, le terre di Bagnoli e di Cassano Irpino. Il radicamento territoriale degli Zurlo in Irpinia e il consolidamento della loro posizione furono sostenuti da un’accorta politica matrimoniale, che venne orientata verso le principali famiglie della nobiltà napoletana dai convergenti interessi, più o meno palesi, nella zona e, al contempo, con un ruolo di primo piano alla corte durazzesca di Ladislao e di Giovanna II. È il caso, ad esempio, dei numerosi matrimoni contratti dagli Zurlo con esponenti della famiglia Caracciolo Pisquizi e, in particolare, della linea di Sergianni (morto nel 1432), il potente gran siniscalco, conte di Avellino e duca di Venosa.
Un esempio dell’aggressiva politica familiare in Principato è la controversia sorta per il possesso di Solofra che, dopo le morti del conte di Avellino Giacomo Nicola Filangieri e – in rapida successione – dei suoi figli in pupillari Gurello, Alduino, Giovanni e Urbano, divenne oggetto, insieme agli altri beni dei Filangieri, di una delicata questione successoria. La terra di Solofra, il cui castrum era stato occupato dal conte di Montoro, venne rivendicata da Filippo Filangieri detto il Prete, fratello di Giacomo Nicola, che assediò la città anche con l’aiuto Giacomo Antonio della Marra, mentre, parallelamente, gli abitanti di Montoro, sobillati dallo stesso della Marra, si ribellarono contro Francesco Zurlo; nel luglio del 1417 Giovanna II ordinò a Filippo Filangieri di togliere l’assedio, di interrompere le ostilità e di consegnare la terra di Solofra a un suo delegato e, al contempo, a Zurlo di rimettere allo stesso delegato il castrum, riservandosi di decidere in proposito.
Come molte famiglie della grande aristocrazia regnicola, anche gli Zurlo ebbero parte nelle articolate vicende politico-dinastiche che caratterizzarono tra il 1420 e il 1423 il regno di Giovanna II con la contrapposizione tra Alfonso il Magnanimo e Luigi III d’Angiò, entrambi adottati – in tempi diversi – dalla regina, per la successione al trono napoletano.
Nel 1420 il conte di Montoro si schierò con Muzio Attendolo Sforza a sostegno della causa angioina nel Regno e, dichiarato ribelle da Giovanna II, venne privato dell’ufficio di protonotario e logoteta, concesso a Cristoforo Caetani, salvo poi riconciliarsi con la regina due anni dopo (1422) – insieme a molti altri baroni ribelli – su sollecitazione dello stesso Sforza, che s’era accordato con la sovrana a Gaeta. Nel maggio del 1423 Giovanni (II) Zurlo fu tra i baroni che combatterono a Napoli (in località Casanova) nelle fila sforzesche in difesa di Giovanna II contro il Magnanimo, il quale aveva tentato, con un colpo di mano, di impadronirsi del Castello Capuano, dove alloggiava la regina. Giovanni (II) ottenne in ricompensa 12.000 ducati dal riscatto dei prigionieri catalani catturati nella battaglia e con quel danaro acquistò la città di Potenza col titolo di conte. Tuttavia, nonostante la sconfitta, ricevuti rinforzi dal mare, in giugno Alfonso assediò nuovamente Napoli e Francesco Zurlo, insieme a Giovanni Antonio Marzano duca di Sessa, a Ottino Caracciolo e altri consiglieri, sollecitò l’intervento di Sforza per liberare dall’assedio la regina, che venne condotta ad Aversa, dove revocò l’adozione al Magnanimo in favore di Luigi III e risiedette continuativamente per circa quattro anni.
Nel 1424 Giovanni (II) Zurlo militò con Muzio Attendolo Sforza in Abruzzo contro le compagnie di Braccio da Montone; dopo l’annegamento nel Pescara dello stesso Sforza, Zurlo avviò delle trattative con Braccio ma venne ucciso in una congiura a Ortona. Gli successe il figlio primogenito, Salvatore (II), che il 9 aprile ebbe conferma dei beni paterni da Giovanna II: la contea di Potenza in Basilicata; la contea di Sant’Angelo con Lioni, Morra, Guardia Lombardi, Andretta, Rocca San Felice in Principato Ultra; Candela in Capitanata; Valva in Principato Citra; il feudo d’Aprano in Terra di Lavoro. Il 26 luglio 1426, a seguito della controversia per il possesso di Guardia Lombardi che oppose gli Zurlo al principe di Taranto, Giovanni Antonio del Balzo, la regina confiscò i molti feudi di Salvatore (II), che era stato sostenuto dagli zii Giacomo e Marino; la contea di Sant’Angelo venne acquistata dal gran siniscalco Caracciolo e donata al fratello Marino.
Tuttavia, sebbene la contea fosse saldamente nelle mani dei Caracciolo, Nicola Antonio Zurlo, fratello di Salvatore (II) morto senza figli intorno al 1430, continuò a intitolarsi conte di Sant’Angelo fino alla cessione anche formale (1464) del titolo a Marino, di cui aveva però sposato la figlia Caterina. In ragione dei vincoli matrimoniali, la cessione ai Caracciolo della contea, interpretata fin dal XVI secolo come esempio dell’avidità e della voracità del gran siniscalco, potrebbe essere anche letta come il tentativo di mantenere i feudi entro la densa trama familiare.
Durante la guerra tra Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona (1435-42), gli Zurlo (in particolare Francesco) sostennero dapprima la parte angioina, salvo cambiare, anche se con tempi diversi, opportunisticamente fronte quando il conflitto era ormai orientato al successo aragonese. Nel 1436 Francesco aveva ricevuto da Isabella di Lorena, moglie e vicario di Renato, e di fatto controllava la terra di Nocera, che, al contempo, il Magnanimo aveva promesso a Raimondo Orsini, conte di Nola e mastro giustiziere, insieme al principato di Salerno e al ducato di Amalfi, per condurlo dalla sua parte. Tuttavia, due anni più tardi lo stesso Zurlo rimise al sovrano iberico il castello di Nocera a condizione di riceverlo nuovamente in feudo, sancendo di fatto il suo passaggio al fronte aragonese, che si tradusse, sul piano politico, in un progressivo, ulteriore rafforzamento degli Zurlo. Nicola Antonio, il sedicente conte di Sant’Angelo, aveva già prestato omaggio nel febbraio del 1441, mentre il cugino Giacomo, noto come del Principe, insieme al fratello Marino, venne indultato dal Magnanimo il 10 novembre 1442 e, nei due giorni successivi, dapprima giurò fedeltà e poi ebbe conferma dei feudi di Oppido, Pietragalla, Cancellara e Grottole, con il merum e mixtum imperium e la potestas gladii.
Giacomo Zurlo fu uomo d’arme e condottiero: nel 1444 conduceva trenta lance e nel 1452 al comando di un contingente fornito dal principe di Taranto; negli anni seguenti, suoi parenti e discendenti – Francesco (II), Pietro, Ettore, Enrico (II) – furono al soldo di Giovanni Antonio del Balzo, del quale era innegabile la forza magnetica, intervenendo nella guerra scoppiata alla morte del Magnanimo dapprima dalla parte angioina, per poi tornare alla fedeltà aragonese nel 1462.
Interessi convergenti e opportunità favorirono inoltre, accanto alle linee titolate di Montoro e Nocera, la costituzione di quella detta di Enrico (II), figlio di Giovanni (II), che a metà Quattrocento, pur senza recidere i suoi legami con Napoli e perseverando negli elementi di distinzione sociale che avevano caratterizzato gli Zurlo (in particolare la carriera militare), si radicò a Giovinazzo in Terra di Bari, dove contrasse diversi matrimoni con famiglie dell’élite locale e assunse un ruolo di primo piano nelle vicende politiche della città pugliese.
Fino alla morte, Francesco di Montoro fu membro influente della corte del Magnanimo e protagonista del parlamento generale del 1443 (al quale parteciparono anche Giacomo e Nicola Antonio); ampiamente beneficiato dal re, ricoprì anche l’ufficio di gran siniscalco con la relativa, cospicua provvigione.
Gli successe Bernardo (II), che il 20 gennaio 1448 ebbe conferma da Alfonso dei titoli e delle terre feudali paterne (le contee di Nocera e Montoro; il castello di Roccapiemonte; la terra di San Marzano sul Sarno; la baronia di Corte in Piano; la terra di Solofra, ceduta in seguito allo zio Russillo; la baronia delle terre di Celenza, Montefalcione, Corvaro, Monsampaolo e Pietransieri), ma non del gran siniscalcato, di cui venne investito invece nel 1449 Iñigo de Guevara. Non sembra che gli Zurlo di Montoro abbiano partecipato alla rivolta baronale contro Ferrante nel biennio 1485-87, diversamente da quanto ad esempio fece Salvatore (III), signore di Salice e di Guagnano in Terra d’Otranto e braccio destro di Pirro del Balzo principe di Altamura, che venne arrestato nell’estate del 1487 e liberato solo qualche anno dopo.
Tuttavia, Francesco (III) di Montoro, figlio di Bernardo (II), che aveva assunto nel 1489 la procura del padre, interdetto perché inabile di mente e morto tre anni dopo, sostenne Carlo VIII, combattendo affianco dei francesi anche dopo la partenza del Valois da Napoli; dichiarato ribelle e privato dei feudi, nel novembre del 1495 subì l’assedio e la conquista del castello di Nocera da parte delle truppe di Ferrante II, che catturarono molti suoi familiari in seguito tradotti a Napoli, tra cui il figlio primogenito Giovanni Berardino.
Le articolate vicende degli Zurlo di Montoro, inserite in quelle più complesse delle guerre di Italia, che condussero Giovanni Berardino alla definitiva confisca dei suoi beni per il sostegno dato alla fallimentare campagna di Lautrec nel 1528, passando per il recupero della contea avita e per la battaglia di Cerignola (28 aprile 1503) combattuta invece nelle fila spagnole, sintetizzano al meglio, per alcune importanti famiglie feudali del Mezzogiorno, le dinamiche di riassetto e la riquadratura dei rapporti di forza all’ indomani del reinserimento del Regno di Sicilia citra pharum nel complesso degli Stati della Corona di Aragona e, poi, nella più ampia monarchia asburgica.
Quanto alla loro collocazione nella società della capitale, come sopra accennato, gli Zurlo erano aggregati al seggio di Capuana, che alla fine del XV secolo risultava articolato in un sistema tripartito: ciascuno dei tre gruppi esprimeva due dei sei eletti al reggimento del seggio. Accanto ai Caracciolo e agli Aienti, vi era il gruppo Capece, del quale gli Zurlo facevano parte con le famiglie Minutolo, Latro, Piscicelli, Aprano, Scondito, Galeota, Tomacelli e Bozzuto. A prova della loro posizione eminente, nel marzo del 1494 gli eletti e il seggio di Capuana, riunito nella cappella Minutolo al duomo, scelsero il conte di Montoro, Francesco (III) Zurlo, quale loro sindaco e procuratore per prestare a nome del seggio, insieme agli altri rappresentanti della città, il giuramento d’omaggio al nuovo sovrano, Alfonso II.
Nella rielaborazione erudita cinquecentesca il gruppo Capece si sarebbe costituito in una forma consortile associabile a quella degli alberghi genovesi, dove i singoli lignaggi, di fatto autonomi, si riconoscevano la stessa derivazione clanica.
Nel loro percorso di affermazione tre-quattrocentesco, gli Zurlo coniugarono dunque diverse dimensioni: l’appartenenza alla grande feudalità, della quale emularono modelli culturali e pratiche comportamentali, ma anche il radicamento urbano. Si può dire che essi furono espressione di quell’élite napoletana, già preminente a livello locale, che riuscì a innestarsi nel baronaggio del Regno con importanti carriere nell’esercito e/o negli uffici di corte, agevolate anche dal rapporto di familiaritas con la Corona.
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