abitudine
abitùdine s. f. [dal lat. habitudo -dĭnis, der. di habĭtus -us «abito»]. – 1. ant. Disposizione o costituzione naturale, struttura: a. del corpo, dell’animo; ogni corpo umano aver la sua particolare a. (Bentivoglio). 2. a. Tendenza a ripetere determinati atti, a rinnovare determinate esperienze (per lo più acquisita con la ripetizione frequente dell’atto o dell’esperienza stessa): avere, prendere, contrarre, perdere un’a.; una buona, una cattiva, una pessima a.; a. naturale, inveterata; essere affezionato alle proprie a.; staccarsi dalle proprie abitudini. Con accezione partic., fare l’a. a qualche cosa, avvezzarcisi al punto da non avvertirne più la presenza o gli effetti soggettivi piacevoli o spiacevoli: è un rumore che da principio dà fastidio, ma poi si finisce col farci l’abitudine. b. Nel linguaggio filos. e giur., disposizione stabile, costante modo di essere e di operare. c. Nella teologia morale, a. del peccato (o peccato d’a.), qualità stabile di chi, avendo volontariamente contratto un vizio morale (per es., di bestemmiare), ricade spesso e con facilità nel peccato. d. Uso continuato o frequente di qualche cosa: a. a un cibo; a. al fumo, all’alcol; fare l’a. a un farmaco (con sign. affine, ma meno specifico, a quello di assuefazione); a. alla droga, lo stato risultante dall’assunzione ripetuta di una sostanza stupefacente, che determina il bisogno di prolungarne l’uso, provocando nello stesso tempo (come nel mitridatismo) un processo di adattamento dell’organismo nei suoi confronti. 3. In medicina, a. sensoriale, fenomeno d’ordine neurofisiologico consistente nell’abolizione della risposta propria di un determinato stimolo, dovuta alla ripetizione dello stimolo stesso.