anacoluto
s. m. [dal lat. tardo anacoluthon, gr. ἀνακόλουϑον (σχῆμα), comp. di ἀν- priv. e ἀκόλουϑος «seguace»]. – Costrutto sintattico consistente nel susseguirsi di due costruzioni diverse in uno stesso periodo, la prima delle quali resta incompiuta e sospesa, mentre la seconda non manca di alcun elemento essenziale e porta a compimento il pensiero: I0, alla fine, mi scappò la pazienza, e gli risposi male (per: io, alla fine, persi la pazienza, ecc.). Più genericam., qualsiasi costrutto in cui non viene osservata la sintassi normale: Riprendiamo in esame la questione, che se n’era già parlato (per: di cui s’era, ecc.). Molto frequente nel linguaggio familiare e nei proverbî (Chi le tocca son sue; Non è villano perché in villa stia, ma villano è chi usa villania), è spesso adoperato come figura sintattica dagli scrittori, o per maggiore efficacia o per riprodurre volutamente la spontaneità e la non programmazione del parlato: Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima (Boccaccio); Mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui (Machiavelli); Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro (Manzoni).