congiuntivo
agg. e s. m. [dal lat. tardo coniunctivus, der. di coniungĕre «congiungere»]. – In genere, che congiunge, che serve a congiungere. In partic.: 1. In grammatica: a. Pronome c., sinon. raro di pronome relativo; particella c., sinon. poco com. di congiunzione; locuzione c., ogni locuzione che compia le stesse funzioni di una congiunzione coordinativa (per es.: e così, di modo che) o subordinativa (nel tempo in cui, per il fatto che, a condizione che ecc.). b. Modo c., o assol. congiuntivo s. m. (ormai raro soggiuntivo), modo del verbo italiano, e di altri sistemi verbali, il quale indica normalmente un’azione o uno stato in quanto pensati (desiderati, temuti, ipotizzati, calcolati) da qualcuno; in italiano ha, come in latino, quattro tempi: presente (che io vada), imperfetto (che io andassi), passato (che io sia andato), trapassato (che io fossi andato). Oltre che nelle varie proposizioni subordinate, è spesso adoperato anche in proposizioni indipendenti, sia per supplire con il presente alle persone dell’imperativo mancanti, per esprimere comando, consiglio, preghiera, augurio, concessione (per es.: andiamo; si mettano in salvo; la fortuna vi assista!; sia pure!), sia per l’espressione di un dubbio (che egli sospetti di noi?; che ci abbia visti?) o di un desiderio (potessi almeno rivederlo!; fossi stato più cauto!). 2. agg. In filosofia, giudizio c., termine della logica formale con cui si designano i giudizî composti nel predicato, che hanno cioè più predicati (« A è B, C, D, ecc.»). 3. agg. Nella critica testuale, errori c., quelli che, non essendo banali e trovandosi identici in due o più codici, servono a dimostrare una stretta parentela fra i codici stessi, cioè la derivazione da un esemplare comune.