decrescita
s. f. Modello di sviluppo localistico basato su riduzione dei consumi, autoproduzione e autoconsumo dei beni, teorizzato dall’economista e filosofo francese Serge Latouche (n. 1940), in contrasto con l’idea universalistica secondo cui la crescita trainata dalle economie sviluppate produce sempre e per tutti effetti positivi a lungo termine; in senso concreto, diminuzione, riduzione della crescita, rinuncia alla crescita. ◆ Una decrescita sostenibile – e, se si potesse, felice – significa comunque una serie di rinunce che dovrebbero essere decise spontaneamente da quella parte del mondo che si avvantaggia dell’attuale situazione, ragione per cui appare una possibilità piuttosto remota. (Mario Tozzi, Stampa.it, 7 giugno 2007, Opinioni) • Nella riflessione di Latouche sono assemblati materiali diversi, dall’ecologismo al feticismo della merce di marxiana memoria, dall’uomo unidimensionale di Herbert Marcuse fino al localismo. Il risultato è che viene vagheggiata un’umanità che prenda la strada della decrescita, rinunciando ai frutti del lavoro e della creatività, e nemmeno vi è il sospetto che, se tale idea fosse accolta, larga parte del genere umano scomparirebbe. (Carlo Lottieri, Giornale.it, 14 febbraio 2010, Cultura) • E quando si arriva all’insostenibilità bisogna, per forza, che ci sia una contrazione. Questa può avvenire per un collasso e quindi in maniera non gestita, oppure può essere programmata, in una sorta di “declino gestito” che l’umanità può realizzare. Nel tempo queste teorie hanno avuto a disposizione molte parole nuove, dalla decrescita allo sviluppo sostenibile, ma il senso è sempre quello: l’insostenibilità di una situazione è – per definizione – qualcosa che non può durare. (Carlo Petrini, Repubblica, 1° marzo 2012, p. 31, Commenti).
Derivato dal s. f. crescita con l’aggiunta del prefisso de-, sul modello del francese décroissance.
Già attestato nella Stampa del 14 dicembre 2005, p. 27, Cultura e Spettacoli (Mario Baudino).