diacritico
diacrìtico agg. [dal gr. διακριτικός «atto a distinguere», der. di διακρίνω «distinguere»] (pl. m. -ci). – Propr., che ha valore distintivo. Si usa soltanto nella locuz. segni d., segni grafici che, sovrapposti, sottoposti, anteposti o posposti ai segni grafici abituali, quali sono per es. le lettere dell’alfabeto, conferiscono loro un significato speciale; tali segni possono appartenere all’ortografia ordinaria di una lingua (come per es. la cediglia in francese, sottoposta alla lettera c [ç], il tilde sovrapposto alla n in spagnolo [ñ] per indicare la consonante nasale palatale, il segno ? che in varie lingue slave distingue č, š, ž da c, s, z, ecc.), oppure essere usati con significato convenzionale nei varî sistemi di indicazione o trascrizione fonetica per indicare articolazioni particolari (per es., nelle trascrizioni fonetiche di questo Vocabolario, l’apostrofo che indica palatalizzazione di una consonante, come l’, n’, o il doppio punto collocato sopra alcune vocali come ë, ö; e anche il puntino che, nelle voci in esponente, è sovrapposto alle lettere s e z [ṡ, ż] per indicarne la pronuncia sonora, che nelle trascrizioni fonetiche è invece indicata con i segni speciali ∫ e ʒ). In filologia, sono usati varî segni diacritici per indicare correzioni, interventi dell’amanuense o del curatore, passi espunti o interpolati, ecc. In senso ampio, si chiama talora segno d. (o lettera con valore diacritico) anche una lettera alfabetica che sia usata solo per dare a un’altra un determinato valore fonetico: per es. l’h italiana nei nessi che, chi, ghe, ghi.