discorso2
discórso2 s. m. [dal lat. discursus -us, der. di discurrĕre: v. discorrere]. – 1. a. L’atto del discorrere, dell’esprimere il pensiero per mezzo della parola: lasciare in tronco un d.; perdere il filo del d.; discorsi senza importanza; d. ambiguo, sibillino, sciocco, scipito; fare discorsi a vanvera, senza capo né coda. b. L’argomento su cui si discorre: cambiare, mutare d.; tocca sentire certi d.!; questo è un altro d., anche con sign. estens., è un’altra cosa. c. Colloquio, conversazione: attaccare d.; venire, entrare in d.; è meglio troncare questi d.; il d. cadde sul teatro; d. amichevole, alla buona. d. Al plur., e in tono più o meno spreg., parole, chiacchiere: pochi d.!; non facciamo troppi d.!; senza tanti d., senza andare per le lunghe, con franchezza; e contrapposto ai fatti: questi sono d.!; tutti d.!; tutti bei discorsi! 2. Trattazione ordinata e diffusa intorno a qualche preciso argomento (di solito pronunciata in pubblico, ma che può anche essere soltanto scritta): preparare, scrivere, comporre un d.; fare, tenere, pronunciare un d.; improvvisare un d.; sentire, ascoltare un d.; d. politico; d. accademico; d. d’inaugurazione, di chiusura, ecc.; d. lungo, noioso, prolisso, monotono, ampolloso, risoluto; la pubblicazione dei d. di Cavour. D. della corona, quello del sovrano dinanzi al parlamento all’inizio di ogni legislatura, nel quale si traccia il programma politico e amministrativo del governo. 3. a. In grammatica, parti del d., le varie categorie nelle quali la grammatica tradizionale suole dividere il corpo lessicale di una lingua, in base alla funzione che le singole parole adempiono nella frase. In italiano si distinguono in genere nove parti del discorso, delle quali cinque sono dette variabili, in quanto hanno una flessione (sostantivo, aggettivo, articolo, pronome, verbo), e quattro invariabili (avverbio, preposizione, congiunzione, interiezione). b. In sintassi, con riferimento al modo con cui, narrando o scrivendo, si riproducono le parole dette da altri, si distingue un d. diretto, in cui le parole sono riprodotte nella forma originale (per es.: «Mi disse: – Tornerò domattina»), e un d. indiretto, quando esse sono riferite nella forma voluta dalle leggi della dipendenza sintattica (per es.: «Mi disse che sarebbe tornato l’indomani mattina»). Si distingue infine un tipo intermedio, detto d. indiretto libero, in cui le parole o il pensiero di una persona vengono riferiti dall’autore in forma indiretta, ma tacendo il verbo dichiarativo reggente o ponendolo in inciso, come se si avesse la citazione diretta; per es.: «Di tutte queste riflessioni nulla trasparì sul viso di Tereso. Anche lui, egli disse ad un tratto come ricordandosi, aveva da sbrigare insieme con il segretario certe faccende che non tolleravano di essere rimandate. Si sarebbero dunque veduti la sera» (Moravia, La mascherata, p. 201). 4. estens. e fig. a. In musica, lo sviluppo, soprattutto melodico, di un tema. b. Con uso più recente, diffuso dapprima dal linguaggio politico, qualsiasi iniziativa, proposta, linea di condotta, orientamento, impostazione, ecc. (con accezioni che di volta in volta si precisano a seconda dell’ambiente e delle circostanze), in quanto possono essere oggetto di discussione e di sviluppo: proporre, iniziare un nuovo d.; un d. che dovrà essere ripreso e concretato; spec. nella frase, anche troppo abusata, portare avanti un d., o il d., mettere in discussione un progetto, un’iniziativa, cercando di tradurli in realtà, o di trovare comunque una soluzione soddisfacente. 5. ant. a. Corso, il correre qua e là: Escon del bosco dopo un gran d. (Ariosto). b. Il trascorrere, decorso: in d. di tempo (Sannazzaro). ◆ Dim. discorsino, discorsétto (anche con il sign. di discorso di rimprovero: io e te dobbiamo fare un discorsetto a quattr’occhi!); spreg. discorsùccio; accr. discorsóne, un discorso lungo e solenne o d’effetto; pegg. discorsàccio.