gattopardiano
agg. Di chi si adatta ai cambiamenti in atto, dando a vedere di apprezzarli e sostenerli, ma solo per poter conservare i propri privilegi. ◆ Era stato Palmiro Togliatti a spedire [Vittorio] Nisticò, appena ventisettenne, giù a Palermo per dirigere il giornale [«L’Ora»]. O meglio, come ha detto Igor Man nel suo intervento, a rilevare il vecchio e polveroso «organo della nobiltà gattopardiana» per farne l’organo del partito comunista a Palermo. Ma da subito Nisticò fu «schierato» a modo suo. Per dirla con Claudio Petruccioli, ex comunista di lungo corso, divenne «un irregolare». (Andrea di Robilant, Stampa, 14 dicembre 2002, p. 28, Società e Cultura) • Potrebbe sembrare più una rivoluzione gattopardiana che una svolta dal sapore liberista in grado di sfondare gli argini più estremi della concorrenza. Il decreto legge Bersani rivela questa romantica percezione della realtà che si ha oggi in Italia. Si fa una rivoluzione purché nulla cambi. (Antonio Mazzocchi, Secolo d’Italia, 7 luglio 2006, p. 2, Politica) • In siciliano le maleparole sono gli insulti ma nel romanzo di Salvo Scibilia il termine racchiude un significato più sottile e sotterraneo che ha a che fare con le «mezze parole», le insinuazioni, i doppi sensi, le menzogne. Un modo di relazionarsi perfetto per rafforzare l’assunto gattopardiano del tutto cambia senza nulla cambiare. (Alessandro Cannavò, Corriere della sera, 24 giugno 2008, p. 44).
Derivato dal s. m. gattopardo (titolo del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, 1958), con l’aggiunta del suffisso -(i)ano.
Già attestato nella Repubblica del 30 marzo 1985, p. 20, Automotori (Alberto Bellucci).