giustapposizione
giustappoṡizióne (meno com. giustapoṡizióne) s. f. [dal fr. juxtaposition; v. giustapporre]. – 1. L’atto, e il risultato, del giustapporre, cioè dell’accostare, del mettere accanto due o più elementi materiali, o più spesso astratti: g. di colori in un quadro, in un arredamento; g. di frasi, di parole (in partic. nel caso di congiunzione asindetica o ellittica come in «venni, vidi, vinsi», oppure «ubriaco fradicio» o «nudo bruco»); g. di concetti, di immagini, di motivi, ecc. (in queste e simili espressioni, la parola si contrappone spesso a fusione, unione, sintesi, e nel linguaggio della critica letteraria e artistica implica in genere un giudizio limitativo o negativo). 2. Con accezioni più tecniche nella terminologia linguistica: a. Forma di composizione impropria o per contatto, cioè accostamento di due o più parole che vengono a formare una locuzione compiuta, conservando inalterati il senso, la funzione e normalmente la forma; nella scrittura le parole possono rimanere secondo i casi separate, oppure congiunte da un trattino, o addirittura unite: per es. lat. res publica o respublica (genit. rei publicae o reipublicae), ital. da per tutto o dappertutto, verde bottiglia, giornale radio, navi-traghetto, chiusura lampo. Si distingue dalla composizione vera e propria soprattutto perché in questa il senso totale non è il risultato esatto della somma dei significati dei componenti (per es., fr. grandpère «nonno», ma propr. «gran padre»; ital. capo-lavoro). b. Sistema di determinazione morfologica e semantica proprio di quelle lingue che non presentano modificazioni flessionali, come il cinese e altre lingue affini: in queste i nomi sono invariabili e molti di essi, senza cambiar forma, possono essere adoperati come nomi o come verbi, come verbi o come aggettivi; tali variazioni semantiche sono rese intelligibili per la giustapposizione di particelle, e i rapporti grammaticali sono espressi dall’ordine in cui le parole sono giustapposte nella frase.