ipercorrezione
ipercorrezióne s. f. [comp. di iper- e correzione]. – Erronea correzione di una forma linguistica che consiste nel sostituire volutamente, o anche inconsapevolmente, a una forma esatta una scorretta con la convinzione che la prima sia errata. La tendenza all’ipercorrezione è soprattutto frequente dove esistono usi regionali o dialettali molto marcati, di cui i parlanti stessi siano ben consapevoli, per cui la correzione (soprattutto scritta) viene estesa per analogia, oltre alle forme effettivamente erronee, ad altre simili che sono in realtà corrette; potrà quindi accadere che un dialettofono il quale si veda o si senta correggere pronunce o grafie quali griggio, robba, verzare, fero (per grigio, roba, versare, ferro), sia per analogia portato a correggere formaggio, sabbia, sterzo, barista in formagio, sabia, sterso, barrista. Su questa tendenza popolare, con riferimento al romanesco, costruisce il Belli due scherzosi sonetti (215 e 216) in cui tra l’altro si legge vecchiaglia e magliali, accompagnati dal commento «se non si dice rajo ma raglio, non si può dire majale ma magliale». Sono ipercorrettismi molto diffusi le pronunce diṡegno, riṡorto, riṡaltare, con -s- sonora (che dovrebbe invece essere sorda), quando siano usate in regioni meridionali – dove la s intervocalica è costantemente sorda – per imitazione di usi settentrionali, dove la stessa s suona prevalentemente sonora, con ampie eccezioni però per le parole composte come quelle citate (e meno accettabili sono pronunce, che pur si stanno diffondendo, come buonaṡera o Monteṡanto); e ancora le pronunce żio, żucca, żucchero, frequentissime nei rapporti interregionali anche in zone che nell’uso familiare e quotidiano dicono invece giustamente zio, zucca, zucchero, e ciò per l’erronea opinione che la z iniziale debba essere sempre sonora.