ire
v. intr. [lat. īre] (aus. essere). – Verbo difettivo, di uso region. solo nelle forme dell’infinito ire, del part. pass. ito (e quindi anche nei tempi composti), della 2a pers. plur. ite (indic. pres. e imperativo); nella lingua ant. e nell’uso poet. s’incontrano anche le forme iva, ìvano dell’imperf., irémo, iréte del futuro, isti, ìrono del pass. rem., ea «vada» del cong. (v. anche gire). È sinon. di andare, nel sign. più generico del verbo e in alcune accezioni partic., come camminare, procedere, spingersi e sim.: li occhi vivi Non poteano ire al fondo per lo scuro (Dante); Donne, che ragionando ite per via (Petrarca); Tremila miglia ognor correndo era ito (Ariosto); E tu, vergine cuccia, idol placato Da le vittime umane, isti superba (Parini); E me che i tempi ed il desio d’onore Fan per diversa gente ir fuggitivo (Foscolo); I donzelli ivano (Carducci). Nell’uso fam. (sempre region., soprattutto tosc.), ire a dormire, ire a casa (più frequente nei tempi composti: è ito a dormire; sarà ito a casa), ecc.; riferito a cose o a fatti: la carne è ita a male; non so com’è ita la faccenda (anche in forma impers.: è ita così, e ci vuol pazienza!; è ita bene, per fortuna!). Locuzioni fam.: è ito, è finito, se n’è andato, non c’è più: il sonno ormai è ito (o se n’è ito, è bell’e ito); anche questo è ito, per es., dopo che s’è vuotato un altro fiasco; di persona morta: dopo tanto patire se n’è ito; in altri casi, esser ito, esser rovinato: siamo iti; anche di cosa finita male, di oggetto rotto e sim.: è proprio ito; è bell’e ita. Lasciarsi ire, tosc., lasciarsi andare, nel senso di cedere, di indursi a qualche cosa cessando di opporsi, di far resistenza. C’è che ire, c’è molto da camminare, c’è una bella distanza: c’è che ire di qui alla fattoria; anche accennando a distanza di tempo: di qui a allora c’è che ire; e in senso fig.: dal fare al dire c’è che ire (prov.), ci corre molto.