manierismo
s. m. [der. di maniera]. – 1. a. Nella critica d’arte, termine con cui a partire dal sec. 17°, si è indicato, generalm. con intenzioni limitative o spregiative, l’insieme delle manifestazioni artistiche (cioè le diverse maniere) che caratterizzarono, in Italia e poi in Europa, il periodo compreso tra i primi decennî del Cinquecento e i primi anni del Seicento, nel quale la pittura, la scultura, l’architettura (e per alcuni aspetti anche la letteratura) si orientarono verso l’imitazione dei modelli classici e l’insistita applicazione delle tecniche accademiche dei grandi maestri rinascimentali; più recentemente il termine ha avuto un’accezione meno unilaterale e talvolta addirittura positiva quando si è voluto riconoscere, spec. nell’opera del Pontormo, del Rosso, del Beccafumi, ecc., più che l’imitazione di modelli classici, la sperimentazione di nuovi linguaggi e, nelle dissonanze di colori, proporzioni e prospettive, una critica dell’equilibrio formale della tradizione rinascimentale e quindi la prima affermazione di una moderna coscienza soggettiva. In partic., in architettura, rielaborazione critica della concezione rinascimentale, basata sul superamento della prospettiva unica e in cui gli elementi classici non sono utilizzati con funzione strutturale ma con funzione ritmica e chiaroscurale, al fine di creare giochi compositivi volutamente sorprendenti. b. In senso lato, ogni orientamento artistico fondato sull’imitazione di modelli, sulla tradizione di tecniche e norme accademiche, sia in arte sia in letteratura. 2. In psichiatria, bizzarria del comportamento, frequente spec. nella schizofrenia, che interessa la gesticolazione, il portamento e il modo di esprimersi, i quali diventano innaturali e affettati.