matria
(Matria) s. f. Luogo fisico e metaforico d’accoglienza, al di là delle appartenenze nazionali, etniche, religiose, sociali, di genere ecc., contrapposto alla patria come realtà storica definita dai discrimini dell’identità nazionale e dell’appartenenza nativa a un dato territorio. ♦ Nel racconto «Dismatria» di Igiaba Scego (nata in Italia 31 anni fa da genitori somali), il personaggio che dice io ci fa sapere che è una via di mezzo tra Roma e Mogadiscio. […] E proprio nelle sue pagine la Somalia - dunque le radici - è ormai per la famiglia somala che vive in Italia qualcosa di immaginario. Una volta «dismatriati» (splendido neologismo a sostituire «espatriati») scopriranno di avere acquisito un’altra «matria» a Roma. (Filippo La Porta, Messaggero, 3 novembre 2005, p. 23, Cultura & Spettacoli). • Oggi, dopo le tragedie del Novecento, “patria” è forse una parola, se non inservibile, irrecuperabile. Patria è ancora la nazione maschia (o meglio – in un rovesciamento semantico – la nazione femmina la cui inviolabilità è garantita dagli italiani maschi), è il precipitato della peggiore retorica bellicista ed escludente, respingente e classista. Eppure queste parole di Levi, inaspettatamente, sembrano dirci che è possibile ancora restituirle un senso. Stefano Jossa, a un recente convegno dedicato a letteratura italiana e identità nazionale (Marzo 2011. Una d’arme di lingua d’altare/di memorie di sangue di cor) insisteva ragionevolmente sull’urgenza di dare pieno corso al lemma “matria”, quale possibile alternativa all’ormai inattingibile “patria”. Probabilmente è così. (Matteo Di Gesù, Doppiozero.it, 17 marzo 2011, Dossier) • E se per una volta - solo una, giusto per vedere l’effetto che fa - provassimo a uscire dalla linea di significati creata dal concetto di patria? Averlo caro del resto non ha alcuna attualità; appartiene a un mondo dove il diritto di sopraffazione e la disuguaglianza sociale ed economica erano voci non solo agenti, ma indiscutibilmente cogenti [...] Pensarsi come Matria consente di sradicare questa prospettiva, perché la madre nell’esperienza di ognuno di noi non è un soggetto imperativo, ma è la prima cosa vivente scorta, la prima amata. Simbolicamente intesa, la maternità è un’esperienza relazionale elementare, perché nutre e si prende cura. Prima di suscitare timore, suscita amore. Prima di evocare autorità, evoca gratitudine. (Michela Murgia, Espressorepubblica.it, 15 novembre 2017, Cultura) • Insomma per la Murgia il senso di appartenenza ad una Nazione ha generato soltanto disastri nella Storia. Una tesi forte che di certo apre interrogativi. La soluzione per la Murgia è una sola: "Pensarsi come Matria consente di sradicare questa prospettiva". (Luca Romano, Giornale.it, 16 novembre 2017, Cronache) • La lingua tanto più è ricca quanto più accoglie. Cosi dovrebbe essere anche la Patria. Come la Patria non è un mezzo, uno strumento a nostra disposizione per perseguire i nostri, particolari fini, cosi non è un mezzo la lingua per informarci di questo o di quello. È pensiero, storia, cultura, e noi dobbiamo esserne coloro che la trasformano custodendola. La lingua è Matria, però, assai più che Patria; la lingua è materna. Dire che la nostra autentica Patria è la lingua significa affermare che nessuna Patria dovrà più essere a immagine del Padre Potente, della civiltà dominata dalla figura dell'onnipotenza del Padre Padrone. Sì, nella lingua è possibile dimora anche allorché naufraga la Patria. (Massimo Cacciari, Repubblica.it, 6 maggio 2019, R: Approfondimenti).
Dal s. f. madre, sul modello del s. m. patria.
Nella raccolta Frasi e incisi di un canto salutare (1990), il poeta Mario Luzi si riferisce alla “terra di luce” che lo accompagna “[p]assata Siena, passato il ponte d’Arbia”, ringraziandola così: “Grazie, matria, / per questi tuoi bruciati / saliscendi [...]".