oramai
oramài (o ormài) avv. [comp. di ora1 e mai]. – Delle due varianti, la forma oramai è più pop. e più usuale nella lingua parlata, mentre ormai è più frequente nella lingua scritta; spesso, tuttavia, la preferenza per l’una o per l’altra forma è dettata da ragioni di armonia sintattica. Il valore semantico e la funzione non sono sempre definibili esattamente, in quanto più che una condizione l’avverbio esprime un atteggiamento soggettivo di fronte a fatti o situazioni; in genere, ha valore e tono conclusivo, sia rispetto a un discorso precedente sia, più spesso, rispetto a fatti la cui natura induce di per sé a fare una constatazione o a trarre una conseguenza. In molti casi equivale pressappoco a già, con quelle differenze che di volta in volta il contesto stesso suggerisce: mi sono o. abituato; è o. un anno che non lo vedo; questo vestito è o. vecchio; è un male o. cronico; dove vuoi andare? o. è quasi buio; passati i settant’anni, o. vecchio e stanco, decise di ritirarsi a vita privata. O equivale a frasi come «giunti a questo punto», «stando così le cose» e sim.: c’era da aspettarselo o.; o. dovresti conoscermi; o. sono sicuro di riuscire. Con valore simile a «già quasi», «si può dire che», per esprimere l’immediatezza di un fatto futuro o la certezza che esso si avvererà: o. hai vinto; resisti ancora un po’, o. siamo arrivati; possiamo dire o. d’aver finito. Talvolta afferma l’impossibilità di indugiare oltre o comunque l’opportunità di non ritardare qualche cosa: o. bisogna andare; bisogna concludere o.; Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace (Dante). Può esprimere infine la rassegnazione a una realtà che non può più mutare o la constatazione della sua ineluttabilità: corre al mar, graffiandosi le gote, Presaga e certa ormai di sua fortuna [= della sua sorte] (Ariosto); o. non ci pensavo più; credo che o. non ci sia più nulla da sperare; o., ciò ch’è fatto è fatto; che cosa ci posso fare o.?; o. è tardi per intervenire, per rimediare, per tornare indietro. V. anche omai.