orfismo
s. m. [der. del nome di Orfeo, il mitico cantore greco che, secondo la tradizione, avrebbe fondato il movimento]. – 1. Orientamento religioso della civiltà greca, di origini antiche (miticamente riferito a Orfeo, ma già presente nel 6° e forse 7° sec. a. C.), proseguito sino all’età ellenistica; conosciuto attraverso documenti frammentarî e in gran parte dell’ultimo periodo, è difficile individuare quello che appartiene all’orfismo originario distinguendolo dalle posteriori elaborazioni avute soprattutto in ambienti colti (pitagorici, neopitagorici e neoplatonici). A un complesso mito cosmogonico (dove il processo di generazione degli dei e degli uomini è lacerato da conflitti che fanno risalire alle origini del mondo un male radicale) corrisponde un ideale etico che implica una concezione dualistica e impone uno sforzo (accompagnato da pratiche ascetiche e rituali) di liberazione dell’anima dal corpo (inteso come carcere), anche attraverso un processo di metempsicosi, sino a un’immortalità che partecipa della divinità (nell’orfismo si afferma una concezione dell’al di là dove sono distinte una sfera di premî e una di punizioni). L’itinerario nell’oltretomba è spesso indicato, unito a preghiere propiziatorie, nelle laminette che venivano poste con il cadavere (parzialmente cremato) nelle tombe dai seguaci dell’orfismo (laminette orfiche). 2. Movimento pittorico (detto anche cubismo orfico) successivo al cubismo, i cui maggiori rappresentanti furono R. Delaunay (1885-1941) e F. Kupka (1871-1957); le loro opere furono definite «orfiche» da G. Apollinaire, che con l’allusione all’antico movimento religioso intendeva esaltare il carattere libero, giocoso e lirico delle opere di questi pittori, in opposizione al rigore formale di G. Braque e P. Picasso. 3. Carattere magico, evocativo, intensamente lirico (spec. con riferimento a espressioni poetiche del sec. 20°): o. della parola (v. orfico, nel sign. 1 c).