pastura
s. f. [lat. tardo pastura, der. di pascĕre «pascolare», part. pass. pastus]. – 1. a. Con riferimento agli animali, il pascere all’aperto e, in senso concr., il luogo dove pascono (sinon. quindi, in genere, di pascolo): portare, mandare alla p., o in p.; Li colombi adunati a la p. (Dante); tenere un terreno a pastura. Anche, il cibo stesso, le erbe di cui si pascono: trovare p. abbondante. b. In alcuni usi fig. (in comune con pascolo), spec. nella lingua ant.: dare p. al corpo, alla mente, alimentare, nutrire (ma dar p. si usò anche col senso metaforico di dar pasto a qualcuno, cioè raggirarlo con fandonie; e tenere qualcuno in p. significò tenerlo a bada, pascerlo con vane speranze); trovar buona p., trovare buon pascolo, terreno adatto a ricavarne buoni profitti: nel quale [Certaldo], per ciò che buona p. vi trovava, usò un lungo tempo d’andare ogn’anno una volta a ricogliere le limosine (Boccaccio). Con sign. più particolari: Qual savesse qual era la pastura Del viso mio ne l’aspetto beato (Dante), quant’era soave il godimento che la mia vista traeva dall’aspetto di Beatrice; e con allusione a soddisfazioni amorose: il re Arrigo ... era arrivato ad una strana sfrenatezza di costumi e perduto nella libidine, senza curarsi più della moglie, ... e cercando in tutt’altre parti pastura alle sue voglie impudiche (Muratori). 2. Nel linguaggio venatorio, il mangime preferito dalla selvaggina e il luogo ove essa si reca per nutrirsi; anche, lo sterco della selvaggina e l’odore dovuto alla sua permanenza e alle sue deiezioni. Levare la p., asportare tutto o in parte l’intestino alla selvaggina uccisa, per evitarne la rapida decomposizione. 3. Nella pesca, una certa quantità di esche animali e vegetali, della stessa qualità di cui è guarnito l’amo, che è gettata nell’acqua dal pescatore per attirare e trattenere sul luogo i pesci vaganti.