placare
v. tr. [dal lat. placare, connesso con placere «piacere, esser gradito»] (io placo, tu plachi, ecc.). – Ridurre a una condizione di calma e tranquillità una persona (o una comunità) irata, o comunque agitata da forti emozioni: quando è arrabbiato, è difficile placarlo; non riesce a p. i suoi creditori; i vegliardi ... Ché non tentan la turba furente Con prudenti parole placar? (Manzoni); con costruzione partic., letter., rendere mite, disposto al perdono verso qualcuno: Ma tu placavi, indigete comune, Italo nume, i vincitori a i vinti (Carducci). Anche riferito alle passioni stesse: p. il furore, lo sdegno, l’odio, l’ira; con tono enfatico, mitigare, rendere meno intenso: p. l’appetito, la fame, la sete. Come intr. pron., diventare calmo, tranquillo: ma poi ... si placa, e se ne torna a casa (Pirandello); anche l’ira più ostinata finirà col placarsi; con riferimento a elementi naturali, passare dallo stato di agitazione a quello di calma: il vento si va placando; il moto delle onde s’è placato; il fragore del mare si placò del tutto (Tomasi di Lampedusa). ◆ Part. pass. placato, anche come agg.: gli animi, gli spiriti erano già placati; sentirsi, mostrarsi placato; ogni odio era ormai placato.