plagio
plàgio s. m. [dal lat. tardo, giur., plagium, der. del gr. πλάγιον «sotterfugio», neutro sostantivato dell’agg. πλάγιος «obliquo»; in latino il termine aveva il sign. 1, e da esso deriva il sign. 2; il sign. 3 si fa risalire a un uso che di plagiarius si trova in Marziale, il quale in un suo epigramma così qualifica un suo amico poeta che andava leggendo in pubblico i suoi versi spacciandoli per proprî]. – 1. Nel diritto romano, la riduzione di un uomo libero in stato di schiavitù; anche, furto di uno schiavo. 2. Nel diritto moderno, figura criminosa consistente nel sottoporre un individuo al proprio volere, esercitando su di lui un particolare ascendente intellettuale e morale in modo da ridurlo in totale stato di soggezione, annientandone volontà e personalità (la norma che prevedeva, nel codice penale italiano, il delitto di plagio è stata dichiarata costituzionalmente illegittima nella sua totalità dalla Corte Costituzionale nel 1981). 3. Nell’uso com., il fatto di chi pubblica o dà per propria l’opera letteraria o scientifica o artistica di altri; anche con riferimento a parte di opera che venga inserita nella propria senza indicazione della fonte: un p. letterario. Per estens., lo scritto o l’opera in cui il plagio si effettua: quest’opera è un p., un vero p., un p. sfacciato; un detto francese afferma che in genere i dizionarî sono plagi in ordine alfabetico.