ridere. Finestra di approfondimento
Gradi di riso - L’allegria può essere manifestata in vari modi. I verbi più com. sono r. e sorridere, il primo dei quali indica un lasciarsi andare più intensamente a un incontenibile moto d’allegrezza, mentre il secondo implica un minor grado di compiacimento (o comunque più intimo, meno evidente) e un maggior autocontrollo. Non esistono sinon. propriam. detti di questi due verbi, se non marcati stilisticamente o come gradazione semantica. Proprio perché implica per lo più una reazione improvvisa e di solito di breve durata (a meno che non sia ripetuta), r. è spesso coinvolto in perifrasi come scoppiare a r. o mettersi a r., impossibili con sorridere: ella mi guardò in volto e scoppiò a r. (G. Verga). Talune espressioni indicano un grado più intenso del riso: r. a crepapelle, r. a più non posso,morire dal r., col sinon. sbellicarsi (dal r., dalle risa o dalle risate) e il pop. farsela (o anche pisciarsi) sotto dalle risate e sim.: lo faremo r. a crepapelle, questo caro Professore! (L. Pirandello); morimmo dal r. a teatro; quel tuo amico me l’ha fatta fare sotto da quanto è simpatico. Altri verbi fam. usati con lo stesso sin. sono sbracarsi, sbudellarsi, scompisciarsi, sganasciarsi, smascellarsi, spanciarsi: tutto il vicinato si scompisciava dalle risa, vedendo compare Menico che s’era fatta dare una scala per entrare dal tetto in casa sua, peggio di un ladro (G. Verga); a sentirlo raccontare le barzellette c’è da sganasciarsi; quel film fa davvero spanciare. Nonostante l’etimo in comune, scompisciarsi, pur d’uso fam., non è sentito volg. come pisciarsi sotto (dal ridere). R. sotto i ba· esprime invece un grado meno intenso di ridere, un ridere quasi senza farsi vedere e quasi sempre a scopo di derisione più o meno benevola: sedette in faccia a Beatrice, senza accorgersi che tre o quattro camerieri in fondo alla sala sbirciavano, ridendo sotto i baffi, il redingotto e il cilindro ancor nuovo fiammante (E. De Marchi).
Tipi di riso - Spesso si ride per prendere in giro qualcuno o per manifestargli il proprio disprezzo. In questo senso si usa per lo più l’espressione fare r. (che oltre al senso letterale di «provocare il riso» ha anche quello fig. di «meritare la derisione») e l’agg. der. ridicolo («degno di derisione »): la sua ostinazione fa r. (L. Pirandello); s’è presentato con quella ridicola giacca. Sempre legato alla derisione è sghignazzare, dal sign. sim. a r. sotto i baffi, ma più intenso e plateale: che cosa avete da sghignazzare, voi? Sim., ma più attenuato, è ridacchiare, spesso, ma non necessariamente, con intento beffardo, talora indicante un ridere tra sé, oppure un ridere tra amici di cose futili: si mise a ridacchiare da solo, immaginando suo padre com’era buffo ad aspettarlo con la frusta in mano (F. Tozzi); in classe non fanno altro che chiacchierare e ridacchiare tutto il tempo. Ghignare o sogghignare indicano invece una più alta componente di derisione, talora di disprezzo o di compiacimento maligno delle altrui disgrazie, con sarcasmo e sfrontatezza: la signora Veronica ghignò, come sanno ghignare solo le cattive vecchie e il diavolo (I. Nievo); i confidenti che si sceglieva pei suoi sfoghi di padre indignato, sogghignavano, pensando che le due perle di figliuoli avrebbero un giorno o l’altro, per tutto castigo, messo le mani sopra un gruzzolo capace di stuzzicar l’appetito anche agli stomachi meglio pasciuti (G. C. Chelli). Ridersi di qualcuno è un modo formale per indicare il prenderlo in giro, con i sinon. canzonare, deridere, prendersi gioco (di), r. alle spalle (di) e i più formali beffarsi (di), burlarsi (di), irridere, schernire e il lett. dileggiare: invano gli stranieri ci derisero (A. Oriani); ridevano alle spalle della maestra.
Contrari - Il contr. di r. è piangere, meno ricco di sfumature e di sinon. marcati e graduati, benché anch’esso possibile nell’uso estens. o fig. di «soffrire, lamentarsi e sim.»: non fa che piangere per il suo basso stipendio. Proprio nell’uso estens. o fig. è abbastanza usato, ancorché più formale, gemere, che non indica necessariamente un versare lacrime, bensì un emettere lamenti tipici (o sim. a quelli) del pianto, detti per l’appunto gemiti; gemere, più di piangere, vale spesso soffrire o lamentarsi ed è anche riferito, per metafora, a sogg. inanimati: la macchina a vapore vi fuma tutto il giorno nel cielo azzurro e limpido, e l’argano vi geme in mezzo al baccano degli operai (G. Verga). Analogo, ma meno com., è guaire, di solito limitato ad animali ma nell’uso lett. possibile anche per gli umani che emettono brevi e ripetuti lamenti: guaì al basso una voce di vecchia (A. Oriani). Anche singhiozzare, assai più com., pone l’accento sui lamenti del pianto (detti in questo caso singhiozzi o singulti), che sono stavolta insistenti e convulsi: si sentiva singhiozzare nella stanza accanto. Lacrimare si riferisce al mero fatto fisiologico di versare lacrime: mi lacrima l’occhio destro; ho lacrimato tutto il giorno per via di quelle cipolle. Nell’uso lett., è sinon. di piangere: allora lacrimò desolatamente perché una sua piccola e bianca sorella non veniva, a sera, come per il passato, a farlo men solo … o più solo (S. Corazzini). Un modo partic. di piangere è detto piagnucolare, gnaulare o frignare, nel senso di emettere piccoli e fastidiosi lamenti e gridolini: la signora Ruscaglia piagnucolava in un canto del canapè per conto suo (G. Verga); io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo (S. Slataper). Spesso questi verbi sono riferiti ai bambini che fanno i capricci. Vagire è propriam. il modo di piangere dei neonati, privo, a differenza dei due verbi precedenti, di connotazione spreg.: restai al buio, là, nella sala d’ingresso, con quella gracile bimbetta in braccio, che vagiva con la vocina agra di latte (L. Pirandello). Così come fare r., anche fare piangere è spesso usato in senso fig., nel sign. di disgustare ,fare pena o schifo e sim.: vestito così fai proprio piangere.