serbare
v. tr. [lat. sĕrvare] (io sèrbo, ecc.). – 1. a. Mettere, tenere da parte una cosa, soprattutto per servirsene in un momento più opportuno (è, in questo come nei successivi sign., verbo ancora vivo in Toscana ma sentito come letter. o di tono elevato altrove): mi serbi un po’ di pane, passo a prenderlo più tardi; non ho serbato le sue lettere, e me ne pento; serbiamo il dolce per domani; serbami una bottiglia di quel tuo vinello; Ciò che narrate di mio corso scrivo, E serbolo a chiosar con altro testo (Dante); serbiamo i ringraziamenti per quando riceveremo questo piacere (Manzoni); assol.: chi serba, serba al gatto, prov. con cui si vuole significare che un eccessivo senso di risparmio e di parsimonia si risolve non a favore proprio ma di altri. b. Riservare: eran più dolci E più nobili cure a te serbate (Parini); si lagnava... della condizione disgraziata che la società serba alle donne (De Roberto). 2. a. Conservare, mantenere: de’ Numi è dono Serbar nelle miserie altero nome (Foscolo); s. fede ai proprî ideali; s. onorato il proprio nome; s. a mente; s. in vita; s. la parola data, la fede promessa; con riferimento ai sentimenti che si nutrono verso altre persone: s. gratitudine; s. odio, risentimento, rancore. b. intr. pron. Conservarsi, restare: serbarsi onesto, fedele.