sillaba
sìllaba s. f. [dal lat. syllăba, gr. συλλαβή, der. del tema di συλλαμβάνω «prendere insieme, riunire»]. – La minima unità fonica (autonoma e distinta sotto l’aspetto dell’articolazione) in cui si possono considerare divise le parole e in cui in effetti si dividono quando, nella scrittura o nella stampa, sia necessario, dovendo andare a capo, spezzare una parola tra la fine di una riga e l’inizio di quella seguente: le parole di una sola s. si chiamano monosillabi, di due o più s. polisillabi; «lasciare» ha tre s.; la divisione in sillabe è facile in italiano e in francese, difficile in inglese. Frequente anche nell’uso fam., con valore iperb., in espressioni come: non dire, non proferire, non rispondere sillaba, o una s., restare in silenzio, non dire niente; non toccare, non cambiare una s., lasciare un testo immutato; non capire una s., una sola s., non capire niente, neppure una parola.
Linguistica. – In italiano, la sillaba è di norma costituita da un elemento o punto o centro vocalico (vocale singola o dittongo, in pochi casi un trittongo), cui possono essere associate una o più consonanti, precedenti e/o seguenti. Il limite fonetico tra una sillaba e l’altra è generalmente rappresentato dalla chiusura parziale o totale del canale di fonazione (parziale, per es., in ca-sa, totale in ro-ba), o anche dal succedersi di un nuovo punto vocalico a un altro (come, per es., tra le due prime sillabe di fa-ì-na). Le sillabe che terminano in vocale si chiamano aperte o libere (per es. le tre sillabe di pa-ga-re); quelle che terminano in consonante si chiamano chiuse o implicate (per es., le prime due di con-trat-to). L’apertura o chiusura delle sillabe determina in molte lingue la quantità, meccanica e non distintiva, delle rispettive vocali: avviene spesso che le vocali delle sillabe aperte siano lunghe, quelle delle sillabe chiuse siano brevi. Questa regola approssimativa ha una parziale applicazione anche in italiano: una vocale italiana è infatti lunga a condizione di essere tonica e finale di sillaba (ossia in sillaba aperta) ma non di parola (es., a di fato), essendo brevi tutte le vocali atone, quelle non finali di sillaba (ossia in sillaba chiusa) e quelle finali di parola (es., a di fatidico, di fatto, di fa). ◆ Particolare importanza ha nella scrittura, o nella stampa, la divisione in sillabe (o sillabazione): questa si uniforma spesso a criterî convenzionali, che non rispecchiano la reale situazione fonetica, e spec. le condizioni della fonetica sintattica; in italiano, per es., la divisione in sillabe in fin di riga è regolata dalle seguenti tre norme empiriche: 1) si uniscono alla vocale seguente, e non a quella precedente, tutte le consonanti che potrebbero trovarsi riunite in principio di parola (così, per es., co-strin-ge-re, ac-qua, ap-pre-sta-re); 2) le consonanti finali apostrofate fanno sillaba con la parola seguente (per es., nes-su-n’a-mi-ca), mentre le consonanti finali non apostrofate fanno sillaba con la parola precedente (per es., nes-sun -a-mi-co); 3) non si divide mai una parola in modo che la sillaba a inizio di riga cominci per vocale (per es., buo-no, chie-sa, trau-ma, non bu-ono, chi-esa, tra-uma). Nessuna delle tre norme è assoluta, nemmeno nell’applicazione che se ne fa nell’ortografia corrente, perché: 1) nelle parole composte, accanto alla sillabazione normale, è facoltativa una sillabazione etimologica che in alcuni casi unisce alla vocale precedente consonanti o gruppi di consonanti teoricamente possibili in principio di parola (per es., dis-u-gua-le accanto a di-su-gua-le, post-in-cu-na-bo-lo accanto a po-stin-cu-na-bo-lo), e nelle parole dotte, accanto alla divisione normale, è facoltativa una divisione che unisce alla vocale seguente gruppi consonantici estranei alla fonetica popolare (per es., te-cni-co accanto a tec-ni-co, se-gmen-to accanto a seg-men-to); 2) che non si possa andare a capo con una vocale, è soltanto una regola di prudenza, la quale viene meno quando si abbia uno iato costante (per es., in ma-estro, pa-ura, sci-are), mentre va seguita fuori d’accento (dividendo perciò mae-strale, pau-roso, scia-tore piuttosto che ma-estrale, pa-uroso, sci-atore); 3) l’apostrofo in fin di riga (all’- amore)è considerato generalm. errore, peraltro senza validi motivi, e si preferisce scrivere al-l’amore, o all’a-more, evitando in ogni caso la reintegrazione della vocale elisa (allo-amore). Pur con queste riserve, l’efficacia delle tre norme empiriche sopra enunciate è limitata all’ortografia; la pronuncia se ne stacca in diversi punti, dei quali ci limitiamo, per brevità, a citare uno solo: l’s preconsonantica si unisce alla sillaba precedente anziché a quella che segue (es. va-sca 〈vàs-ka〉, co-smo 〈kò∫-mo〉).