trafiggere
trafìggere v. tr. [lat. transfīgĕre, comp. di trans «attraverso» e figĕre «configgere, ferire»] (coniug. come figgere). – Trapassare da parte a parte con arma da punta, o con altro oggetto sottile e acuminato, una parte del corpo: lo trafisse con la spada; gli trafisse il petto con un pugnale, con un lungo punteruolo; Inalberossi il corridor trafitto, Ché nel cerèbro entrata era la freccia (V. Monti). Frequenti gli usi estens. e fig., come sinon. più espressivo di pungere: come fa l’uom che non s’affigge Ma vassi a la via sua, che che li appaia, Se di bisogno stimolo il trafigge (Dante); spec. con riferimento a dolore fisico acuto, lancinante: sentirsi t. le ossa, il petto, il cuore, ecc. (cfr. trafittura, trafittivo); un fischio penetrante, ossessivo, che gli trafiggeva le tempie (o gli orecchi, il cervello); e in tono iron.: le polvi [di cipria] Che roder gli potrien la molle cute, O d’atroce emicrania a lui le tempia Trafigger anco (Parini); oppure con riferimento a sofferenze improvvise, angosciose che feriscono i sentimenti o l’amor proprio, a dispiaceri gravi provocati da notizie dolorose e inattese, e sim.: t. con parole crudeli, con una scottante offesa; quella calunnia lo trafisse mortalmente; in partic., t. il cuore, t. l’anima, colpire nei sentimenti più profondi: – Addio! – ripetette con una monotonia di accento che mi trafisse l’anima (Capuana); ma t. il cuore, anche, suscitare un amore improvviso: Qui co’ begli occhi mi trafisse il core (Petrarca). ◆ Raro il part. pres. trafiggènte, anche come agg. e in senso per lo più fig.: un dolore trafiggente. ◆ Part. pass. trafitto, frequente con uso verbale nel sign. proprio (avere il braccio, il petto trafitto da una lancia, da un pugnale), e anche come agg. in senso fig.: avere, sentirsi il cuore trafitto, l’anima trafitta.