u, U
s. f. o m. (radd. sint.). – Ventesima lettera dell’alfabeto latino, che ha con la lettera V la stessa origine dall’alfabeto fenicio, e anche una storia comune fino a tempi molto vicini ai nostri. L’alfabeto latino aveva infatti in età classica la sola lettera V, per indicare sia il valore vocalico della u dell’ital. uno (in lat. VNVS) sia quello semiconsonantico della u dell’ital. quale (in lat. QVALIS); quando, nel 2° sec. a. C., il suono della V tra vocali o in principio di parola davanti a vocale (come in CAVE e VOLO) passò da semiconsonante u̯ a vera e propria v ital., tale variazione di suono non si rifletté nella scrittura. È ben vero che fin dal sec. 2° d. C. nelle iscrizioni latine comparve la forma U per la lettera V, ma solo come variante calligrafica, e tale si mantenne, maiuscola o minuscola, per molti secoli. Nel tardo medioevo si diffuse l’uso della forma v, V come minuscola iniziale di parola e come maiuscola in ogni caso, della forma u come minuscola interna o finale di parola; questa differenziazione fu applicata dalla maggioranza dei tipografi nei primi due secoli della stampa, e spec. dal principio del 16° alla metà del 17°: per es., in ital., Vno, vno, cura, Vedo, vedo, diua (altri però, spec. nel ’400 e fino a dopo la metà del ’500, usarono sempre V come maiuscola e sempre u come minuscola, anche se iniziale: così, per riprendere gli esempî già fatti, Vno, uno, cura, Vedo, uedo, diua). Intanto però si cominciava a rendersi conto che la u ital. rappresentava suoni diversi, non riconoscibili dalla posizione, con la conseguenza di possibili equivoci di lettura: per es. uvole, plur. di uvola (variante ant. o dotta di ugola), si scriveva allo stesso modo di vuole (o tutt’e due vuole o tutt’e due uuole), e non c’era niente che indicasse una diversità di pronuncia tra la prima sillaba di uovo e la seconda. Si pensò allora di utilizzare le diverse forme grafiche per rappresentare adeguatamente le diverse pronunce di quella che si considerava ancora un’unica lettera: sulle varie proposte prevalse, nella 2a metà del ’600, quella del Trissino, che, accolta da tipografi italiani e stranieri, impose la grafia che usiamo ancor oggi. Rimangono tuttavia residui della precedente confusione in iscrizioni lapidarie, in titoli e frontespizî di carattere solenne, dove non è raro trovare V per U, e nelle edizioni di testi latini classici o medievali nelle quali molti filologi tornano all’uso indistinto di V per la maiuscola e u per la minuscola. Anche in opere lessicografiche, spec. latine, il trattamento delle due lettere come lettera unica è spesso conservato, con effetti che si riflettono soprattutto nell’ordinamento alfabetico. ◆ Da quando la lettera v è stata sentita e trattata come diversa dalla u, sono rimasti a quest’ultima, in italiano (come nella maggior parte delle lingue che si servono dell’alfabeto latino), due valori: quello di vocale e quello di semiconsonante. La distinzione (non sempre nettissima, essendovi casi di oscillazione nella pronuncia di alcune parole) è determinata quasi sempre dalla posizione. Come regola assoluta, una u che porti l’accento tonico, o che non sia seguita da vocale, può essere soltanto vocale, sillabica (come in tu, bue, paura, laggiù, tuttora, coniuge, bantu) o asillabica (come in lauro, neurasse). La possibilità in astratto che u sia semiconsonante si ha solo quando è insieme atona e seguita da vocale; anche in tale posizione, però, si danno alcuni casi in cui u può avere l’uno o l’altro valore secondo le parole, e altri in cui u è sempre vocale o sempre semiconsonante. È sempre semiconsonante in principio di parola davanti a vocale (che in parole schiettamente italiane è sempre o: uomo, uosa, uovo), e all’interno di parola in mezzo a due vocali sillabiche, caso possibile solo in grecismi ed esotismi (euanto, Massaua). La u è sempre vocale: quando porta l’accento tonico, quando è seguita da consonante, quando è finale di parola, per la regola assoluta enunciata più su; e inoltre, quando è preceduta da consonante non velare ed è seguita da vocale diversa da o (es. duale, duumviro, pruina, stuello, dualismo, buaggine, statua, residui). Ma quest’ultima non è regola così assoluta da non ammettere oscillazioni abbastanza frequenti, prive sempre di valore fonologico, determinate o favorite talvolta dalla lontananza dell’accento o dalla lunghezza della consonante (la u, per es., può scadere da vocale a semiconsonante più facilmente in attualità e in attuo che in attuale, e più facilmente in attuale che in statuale). Infine, la u può essere ora vocale ora semiconsonante, secondo le parole, quando si trova all’interno di parola nelle posizioni seguenti: tra una consonante velare e una vocale qualsiasi (es. arguire, acuità, innocuo con u vocale, contro seguire, equità, iniquo con u semiconsonante; s’intende che è sempre semiconsonante la u del nesso grafico qu, costantemente prevocalico, mentre non ci sono regole fisse per i nessi prevocalici cu e gu); tra una consonante qualsiasi e la vocale o (es. fluoro, fluorite con u vocale, contro vuoto, vuotare con u semiconsonante). Anche qui, peraltro, le oscillazioni sono frequenti: a un arguire per lo più quadrisillabo (argu-ìre) fa riscontro un redarguire per lo più dittongato (redargu̯ìre); e facile è il passaggio da vocale a semiconsonante della pronuncia di u in ambiguo, attiguo, contiguo, cospicuo, esiguo, innocuo, irriguo, perspicuo, proficuo, promiscuo, vacuo. ◆ Come vocale la u è la più chiusa delle vocali velari (u, ó, ò); nella sua pronuncia le labbra sono arrotondate e spinte in avanti, mentre il dorso della lingua è leggermente ritratto indietro e sollevato verso il palato. La u così articolata è detta u italiana o u toscana, in contrapp. alla cosiddetta u francese o u lombarda, che si pronuncia con le labbra nella stessa posizione, ma con la lingua nella posizione tipica della i; è vocale ignota all’italiano nazionale, ma è comune nei dialetti lombardi, piemontesi e liguri, ed è posseduta da varie lingue di cultura, che ricorrono a soluzioni diverse per distinguere graficamente i due suoni (ted. u e ü; oland. oe e u; fr. ou e u; gr. ου e υ). Non vi sono in italiano differenze sensibili di chiusura o di durata della u, come esistono in altre lingue, dove può esservi opposizione fonologica tra u breve (relativamente aperta) e u lunga (relativamente chiusa). Esisteva invece opposizione tra u breve (ŭ) e u lunga (ū) nel latino classico, cui si accompagnò, e si sostituì poi in età imperiale, una opposizione qualitativa tra u aperta e u chiusa. Perdutosi il senso della quantità vocalica, la u chiusa conservò il suono della u del latino classico e lo trasmise inalterato all’italiano sia in posizione tonica (per es., uno lat. ūnus, frutto lat. frūctus) sia in posizione protonica (es. punire, lat. pūnire); la u aperta invece, già prima della fine dell’unità romana, si confuse con la o chiusa in ogni posizione, tonica (ō del latino classico) o atona (ō, ŏ del latino classico), e ne condivise interamente i successivi sviluppi in quasi tutte le lingue romanze, divenendo in italiano, in generale, ó se tonica (es. góla, lat. gŭla; tórre, lat. tŭrris), o se postonica (es. gallo, lat. gallŭs), ancora o, ma con alquante eccezioni, se protonica (es. giovenca, lat. iŭvenca). In parole dotte, la u italiana riproduce naturalmente tanto ū quanto ŭ del latino classico, in qualsiasi posizione, eccettuata solo quella finale atona; giacché in parole di schietta formazione italiana, comprese quelle dotte, la terminazione in -u atona non è ammessa (se non si voglia tener conto di certi nomi proprî sardi e di pochi vocaboli esotici), al punto che in voci come Gesù e tribù, piuttosto che fare un’eccezione, si è spostato l’accento. Lo sviluppo fonetico normale fin qui delineato subisce numerose eccezioni soprattutto per la u atona; per la u tonica l’eccezione più notevole è quella dovuta all’anafonesi, il fenomeno per cui ō e ŭ latini seguiti da ng non danno ó secondo la regola, ma u (es. fungo, ungere, da fŭngus, ŭngere). ◆ Usi della lettera come abbreviazione o simbolo: nella forma minuscola puntata, u. è talora abbrev. di uomini, spec. in scritti di argomento militare (per es.: 80.000 u.); in fisica, u è il simbolo del quark up; in metrologia, è simbolo dell’unità di massa atomica (v. u.m.a.), pari alla dodicesima parte della massa dell’isotopo carbonio 12. Nella forma maiuscola puntata, U. è scrittura abbreviata di nomi proprî personali che cominciano con questa vocale (Ugo, Umberto, Ulrica); senza punto, U è sigla internazionale, nelle targhe automobilistiche, dell’Uruguay; in chimica, U è simbolo dell’elemento uranio; in biologia molecolare e nel codice genetico, è simbolo dell’uridina. In medicina, onda U, piccola deflessione positiva del tracciato elettrocardiografico, particolarmente evidente in alcune condizioni patologiche (bradicardia, ipertrofia ventricolare, ecc.). Nella teoria degli insiemi, U rappresenta talvolta l’insieme universo (v. universo2, nel sign. 3 c). ◆ Con riferimento alla forma caratteristica della U maiuscola, è comune la locuz. aggettivale a U per indicare figura o movimento di cosa che, ripiegandosi a un certo punto, torni indietro seguendo una linea parallela a quella seguita precedentemente nel senso opposto: tubo a U; conversione o manovra a U, di veicoli (c’è, per es., divieto di conversione a U nelle autostrade e, spesso, nelle vie del centro d’una città); in geografia fisica, sono dette valli a U, per la loro tipica forma, le valli glaciali. In arboricoltura, forme di allevamento a U sono quelle nelle quali, con opportune potature, si ottiene un fusto molto corto, da 30 a 50 cm, dalla sommità del quale partono 2 branche che si dirigono dapprima orizzontalmente per circa 25 cm dal fusto, e poi verticalmente. ◆ Nel codice alfabetico internazionale, la lettera u viene convenzionalmente identificata dalla parola ingl. uniform 〈i̯ùunifoom〉 «uniforme».