vaghezza
vaghézza s. f. [der. di vago1]. – 1. L’essere vago, cioè indeterminato, incerto, poco preciso: accennare con v. a un fatto; v. di un’accusa; con riferimento a opere figurative: v. di linee, v. di contorni. 2. Bellezza, leggiadria, grazia: v. di lineamenti, di forme; volto di una incantevole v.; la v. di un paesaggio, di uno spettacolo; troviamo più venustà e vaghezza in cotanta varietà di metri e di accenti (Bettinelli). In senso concr., spec. al plur., ornamento, abbellimento, cosa bella: le v. dello stile, del canto; L’un margo e l’altro del bel fiume, adorno Di vaghezze e d’odori, olezza e ride (T. Tasso). 3. letter. a. Desiderio, voglia: Qual v. di lauro? qual di mirto? (Petrarca); ella ... il cominciò a guatare, più perché Calandrino le pareva un nuovo uomo che per altra v. (Boccaccio); Come fanciulla m’andavo soletta Per gran v. d’una grillandetta (Pulci); Ne la patria ridurmi ebbi vaghezza E tra gli antichi amici in caro loco Viver (T. Tasso); con uso assol. (e con sign. più prossimo a «inclinazione»): di natura è frutto Ogni vostra v. (Leopardi). Anche nel linguaggio com., ma di solito con tono più o meno scherz.: in una di quelle notti, mio padre ebbe v. di uscir meco alla campagna (Tarchetti); gli venne v. di conoscerlo; mi punge v. di vederla ancora una volta (la locuz. mi punge v. è oggi adoperata solo in tono scherz.). b. Diletto, piacere: prendeva v. di quello spettacolo; v. il prese De’ nostri canti (Parini).