vaneggiare
v. intr. [der. dell’agg. vano] (io vanéggio, ecc.; aus. avere). – 1. a. Vagare con la mente in pensieri che non hanno contatto con la realtà; pensare e dire cose sconnesse, farneticare, per febbre o per uno stato anormale della mente: v. nel delirio, nell’allucinazione; vaneggiava, fuori di sé dal dolore; andavo vaneggiando che quella corsa non dovesse finire mai più (C. Levi); tu vaneggi!, a chi crede o dice cose fantastiche, assurde. b. letter. o raro. Vagare con la mente, passare di pensiero in pensiero, fantasticare: E tanto d’uno in altro [pensiero] vaneggiai, Che li occhi per vaghezza ricopersi, E ’l pensamento in sogno trasmutai (Dante); Così rapito in mezzo al moto e al suono Delle cose, vaneggio e mi abbandono, Come la foglia che mulina al vento (Giusti). c. letter. Perdersi in cose vane, correre dietro alle vanità: E del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto, E ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente Che quanto piace al mondo è breve sogno (Petrarca); or lunge il giovene delira E vaneggia ne l’ozio e ne l’amore (T. Tasso). d. Col sign. di fantasticare, dire cose vane, nell’uso poet. o letter. ha talvolta uso transitivo: ahi, Aminta! Che parli? o che vaneggi? (T. Tasso). 2. ant. e letter. a. Aprirsi di un vuoto, di una cavità: Nel dritto mezzo del campo maligno Vaneggia un pozzo assai largo e profondo (Dante); vedevo nella terra verde v. una fossa (A. Baldini). b. Riuscire vano, restare senza effetto: Quivi dei corpi l’orrida mistura ... Potea far vaneggiar la fedel cura Dei duo compagni (Ariosto). c. Vagare nel vuoto: Ne le spelonche sue Zefiro tace, E ’n tutto è fermo il vaneggiar de l’aure (T. Tasso).