vantare
v. tr. [lat. tardo vanĭtare, propr. «essere vano», der. di vanus «vano», vanĭtas «vanità»]. – 1. a. Parlare di qualche cosa in tono elogiativo, sia per dimostrare il proprio compiacimento sia con lo scopo di convincere gli altri o di suscitare la loro ammirazione; magnificare, decantare: v. i proprî meriti, la propria bellezza, la propria intelligenza (o i meriti dei proprî discepoli, la bellezza delle proprie figlie); v. le qualità di un prodotto, il potere miracoloso di un medicinale; mi vantava le sue immense ricchezze; vantava a tutti le grandi tradizioni del suo paese. b. Dichiarare, asserire (in buona o in mala fede) di possedere caratteristiche, doti, capacità che costituiscono (o si ritiene che costituiscano) un merito, un motivo di orgoglio o di superiorità: v. nobili origini o ascendenze aristocratiche, v. amicizie influenti o conoscenze altolocate; v. grandi possibilità finanziarie. In partic., v. un diritto, v. diritti (su qualcosa), asserire di averli: v. un diritto di priorità su un’invenzione; v. diritti su una proprietà, su un’eredità. c. Avere la gloria, o il diritto di ascrivere a propria gloria: una città che vanta molti illustri figli; una squadra di calcio che vanta già cinque scudetti. 2. Nel rifl. vantarsi: a. Ritenere motivo di gloria per sé: mi vanto di essere uno spirito indipendente; si vantava di essere nato da povera gente; sono stato io a dirlo per primo, e me ne vanto. b. Asserire un proprio vero o presunto merito: chi può vantarsi di avermi sconfitto?; puoi vantarti di essere l’unica persona da cui accetto rimproveri; si vantava di avere scoperto lui la formula segreta; anche, dichiarare una propria capacità: si vantava di essere in grado di raggiungere la cima in meno di un’ora. c. Millantarsi: si vanta delle proprie imprese. Con uso assol., esaltare sé stesso, parlare di sé e dei proprî meriti in tono elogiativo: non mi piace la gente che si vanta; si vanta troppo perché gli si possa credere. Non faccio per vantarmi, ma ..., frase frequente per introdurre, con vera o finta modestia, l’enunciazione di un fatto che costituisca merito: non faccio per vantarmi, ma io l’avevo capito prima di tutti; spesso, con intento umoristico, per dichiarare cosa di cui non si ha nessun merito effettivo, o addirittura indipendente dalla volontà (come nella satirica frase non faccio per vantarmi, Ma oggi è una bellissima giornata, che chiude il sonetto «Il cavaliere enciclopedico» di G. G. Belli). 3. Nell’ant. linguaggio cavalleresco, vantarsi, fare il vanto (v. vanto, nel sign. 3): la sera, i cavalieri s’incominciaro a vantare, chi di bella giostra, chi di bello castello, chi di bello astore, chi di bella ventura; e ’l cavaliere non si poté tenere che non si vantasse ch’avea così bella donna (Novellino). Nella forma attiva o rifl., seguito da compl. di termine (indicante la persona stessa o altra in cui onore si faceva la gara), serviva a introdurre il vanto che ciascun cavaliere faceva, equivalendo in taluni casi a «promettere, obbligarsi»: «O caro maestro, e voi che vantate al paone?». Rispose Ascalion: «Bella giovine ..., sì mi vanto io per amor di voi al paone, che quel giorno che voi novella sposa sarete, ... io con qualunque cavaliere ... senza paura combatterò ...» (Boccaccio).