veglio
vèglio agg. e s. m. [dal provenz. vielh, che (come il fr. ant. vieil) è il lat. vĕtŭlus; v. vècchio], ant. o poet. – Vecchio; raram. riferito a cose: gli molti esempi che già letto De’ capitani avea del tempo v. (Ariosto); normalmente riferito a persona, e per lo più come sost.: Non ti nasconder più: tu se’ pur vèglio (Petrarca); Vidi presso di me un v. solo, Degno di tanta reverenza in vista, Che più non dee a padre alcun figliuolo (Dante); Con prudenti parole il santo veglio Così loro a dir prese (V. Monti, di Nestore). Come sost., in denominazioni specifiche: il Veglio (o il Vecchio) della Montagna, v. vecchio, n. 6; il Veglio di Creta, la statua del «gran veglio» racchiusa nell’interno del monte Ida, che Dante descrive nel canto XIV dell’Inferno, ispirandosi al sogno di Nabucodonosor svelato e interpretato da Daniele (Daniele II, 31 segg.): ha la testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il ventre di rame, le gambe di ferro, tranne il piede destro, che è di terracotta; da una fessura che attraversa tutto il corpo, salvo la testa, gocciano lacrime che scendono a formare i fiumi infernali. Il Veglio, che in Daniele simboleggia i regni di Nabucodonosor e dei suoi successori, in Dante raffigura, secondo le interpretazioni più probabili, o le varie età del mondo o l’umanità via via più corrotta dal peccato.