Whatever it takes
loc. s.le. m. inv. (espressione inglese, ‘costi quel che costi’). Dagli anni Ottanta in poi, quello che sarebbe stato definito al termine del suo mandato di governatore della Banca centrale europea (1° novembre 2011- 31 ottobre 2019) «il più importante uomo di stato europeo dell’ultimo decennio», ha sempre sostenuto nel corso della sua ascendente carriera nel settore pubblico che la priorità per l’Italia fosse la crescita e l’occupazione, che la spesa pubblica dovesse essere a ciò finalizzata. Cresciuto a fianco dell’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, Draghi fa parte di quell’élite di tecnici dotati di visione politica che condussero fin dentro l’euro l’Italia, legittimata come nazione che, risanati i conti pubblici e avviato un processo di riforme selettive, potesse sfruttare pienamente i benefici che l’appartenenza all’euro avrebbe generato per la crescita e l’occupazione. Proprio per questi trascorsi, all’interno dell’Eurozona Draghi fu accolto con rispetto come candidato alla presidenza della Bce. Questo rispetto e la sua integrità di giudizio permisero a Draghi di modificare l’orientamento della politica monetaria della Bce: dalle lettere di Trichet ai governi con le severe condizioni da rispettare per meritare l’accesso ai programmi di acquisto dei loro titoli pubblici Draghi pilotò la Banca centrale europea verso l’impegno incondizionato di sostegno dell’euro.
Il «Whatever it takes» apre nella politica europea un altro orizzonte che non aveva precedenti. È il 26 luglio del 2012. L’Europa dell’euro è in grande difficoltà. Sale lo spread in molti Paesi. In Grecia tornano a soffiare pesanti venti di crisi. L’euroscetticismo inglese si gonfia. Quel 26 di luglio, Draghi, da meno di un anno Presidente della Banca centrale europea, sale sul palco della conferenza di Londra e, senza troppi preamboli, dopo una manciata di minuti di introduzione, pronuncia la frase che cambia la storia della crisi: «Entro il suo mandato la Bce preserverà l’euro, costi quel che costi. E, credetemi, sarà abbastanza». Whatever it takes. Da quel momento, si può dire che l’Europa diventi l’Europa di Mario Draghi. A posteriori, lo riconoscono sia gli estimatori, sia i detrattori.
Il quantitative easing
Tra gli strumenti innovativi nella politica economica europea, Draghi introduce il quantitative easing (alla lettera ‘allentamento quantitativo’ sigla QE). La locuzione era comparsa una prima volta nei media italiani nel 2006 in riferimento alla politica monetaria giapponese e nel 2012 nella politica monetaria americana. Per QE si intende «la creazione e iniezione di liquidità nel sistema da parte delle banche centrali, mediante l’acquisto sul mercato di attività finanziarie come azioni, obbligazioni e titoli di Stato con il duplice fine di sopperire al pericoloso calo per numero e consistenza di prestiti concessi a famiglie e imprese e di eliminare dal mercato i titoli tossici» (Vocabolario Treccani). Gli strumenti messi in campo da Draghi in quegli anni nell’area dell’euro hanno consentito di sostenere il mercato dei titoli pubblici europei, con l’effetto di contribuire ad abbassare lo spread in numerosi Paesi, inclusa l’Italia, dando la possibilità di finanziare politiche di investimento e ridurre la disoccupazione. Nonostante che, per una varietà di ragioni, l’inflazione sia rimasta al disotto dell’obbiettivo del 2 per cento, il Whatever it takes può essere assunto come modo di dire emblematico della salvezza dell’Europa dell’euro.
Whatever it takes contro il Covid
Tanto emblematico il modo di dire inglese in bocca a Draghi che, nella coscienza dei politici, degli operatori economici e quindi anche dei media, Whatever it takes torna ricorsivamente come marcatore linguistico-temporale. C’è un “prima” e c’è un “dopo” Whatever it takes. Per esempio, in sede di bilancio, il Sole 24 Ore, tre anni dopo la conferenza di Londra titola così: «Bce, era il 26 luglio 2012: un giorno che cambiò il corso degli eventi. Così nacque il Whatever it takes»; la Repubblica fa eco: «Draghi, il Whatever it takes compie tre anni». L’onda lunga della politica della Bce è confermata da un articolo del Sole 24 Ore del 26 luglio 2017 (ancora in cerimoniosa ricorrenza con Londra 2012) intitolato «Il ‘whatever it takes’ di Draghi? Vale cinquemila miliardi per le Borse e i bond europei».
Ma è lo stesso Draghi, ormai da ex banchiere centrale europeo, a richiamare ai nostri giorni il messaggio politico-economico di fondo che è stato rappresentato dal motto Whatever it takes, quando, prima sul Financial Times e poi variamente ripreso dai giornali, ragiona in questo modo sulle politiche di emergenza e di prospettive per far fronte alla crisi in piena pandemia: «Le banche devono rapidamente prestare fondi a costo zero alle aziende preparate a salvare posti di lavoro. Poiché in tal modo esse diventano veicoli di politica pubblica, il capitale di cui necessitano per eseguire questo compito deve essere fornito dallo Stato sotto forma di garanzie pubbliche su tutti gli sconfinamenti aggiuntivi di conto o sui prestiti» (titolo del quotidiano Il Foglio, 26 marzo 2020: «Whatever it takes contro il Covid. Draghi rilancia»).