Abitazione
La molteplicità di termini che molte lingue conoscono per indicare l'abitazione rivela la complessità della nozione. Al di là delle sue elementari funzioni di riparo, l'abitazione è luogo e supporto della vita familiare e di quella comunitaria; è oggetto culturale, usato per contrassegnare lo spazio, per esprimere sentimenti, per comunicare identità; può essere luogo o strumento di lavoro, merce, bene di consumo; inoltre espressione di status e risorsa da cui dipendono le condizioni di vita della famiglia. Oltre a indicare la complessità funzionale dell'abitazione, la molteplicità di termini ordina i diversi significati che essa può avere nell'esperienza personale e collettiva. Quasi tutte le lingue europee hanno termini - come l'inglese home - per definire le dimensioni emozionalmente più significative dell'esperienza abitativa, quelle che indicano la sua possibile centralità nelle condizioni di esistenza e il suo intimo legame con la cultura di una popolazione. La complessità delle funzioni e dei significati è alla base dei problemi di individuazione e di interpretazione storica. La determinazione culturale dell'oggetto implica un'estrema variabilità di situazioni, che pone problemi già a livello di definizione, di cosa debba cioè intendersi per abitazione e abitare nei diversi contesti. La casa non ha la stessa importanza in tutte le società, e diverse popolazioni non posseggono espressioni per indicare i significati più profondi dell'esperienza abitativa. Inoltre in molti casi è difficile capire quali spazi possano essere identificati come abitazione. Anche nelle nostre società luoghi dell''abitare' possono essere - oltre alla casa - anche il vicinato, il quartiere, il villaggio o la città, e le opzioni o gli equilibri che si costituiscono tra i diversi luoghi abitati rappresentano altrettanti modelli abitativi. In molte società tradizionali l'intero insediamento, più che una sua porzione specifica, sembra essere il luogo significativo delle attività e delle relazioni che noi associamo all'abitare.
La problematica abitativa delle nostre società è l'esito di un passaggio storico che ha sconvolto funzioni, significati e forme spaziali dell'abitare. Anche se è vero che le nostre idee in proposito poggiano su una base culturale molto più antica, si può affermare che le nozioni più caratterizzanti, e le più problematiche, della nostra esperienza abitativa si sono affermate con i processi di industrializzazione e modernizzazione. Opposizioni terminologiche come habiter/habitat, o abitare/residenza, rappresentano in termini problematici quello che appare il senso del passaggio: da esperienza complessa e articolata a livello dell'intero sistema insediativo a 'funzione' specifica, inscritta in uno spazio delimitato. Al mutamento funzionale e culturale si accompagna un mutamento, altrettanto radicale, nei modi di produrre le abitazioni. La relazione diretta tra abitanti e produttori, tipica delle società precedenti, viene meno a favore di un processo centrato su competenze specialistiche e su apparati specializzati, tra cui lo Stato. Alla 'riduzione' dell'abitare e alla distanza sociale e amministrativa che si costituisce tra utenti e produttori è riconducibile gran parte della moderna problematica abitativa.
La maggior parte dei valori centrali nella nostra cultura abitativa - nonostante la loro apparente ovvietà - ha origine recente. Nozioni come quella di 'intimità' o quella di comfort si sono sviluppate tra la fine del Medioevo e la rivoluzione industriale. Lo stesso si può dire per la concezione spaziale che prevede la separazione di funzioni e di vani all'interno dell'alloggio. Si tratta in effetti di modelli e di nozioni che elaborano l'idea che è alla base della cultura abitativa portata dai processi di modernizzazione: quella di un luogo specifico di residenza, suscettibile di essere 'appropriato' e valorizzato da parte dell'unità familiare. Di fronte al carattere innovativo della nostra problematica è utile porre l'accento - piuttosto che sui caratteri universali dell'abitazione - sui mutamenti che hanno costituito la problematica 'moderna', e a questo fine contrapporre le nostre concezioni ed esperienze a quelle delle società precedenti.
Ciò che caratterizza da questo punto di vista le società tradizionali è la forte integrazione che di regola si può riscontrare tra l'abitazione e le risorse, le forme organizzative e i valori di una società. Tale integrazione spiega l'omogeneità locale e la persistenza delle forme di abitazione, sostenute dal carattere peculiare dei processi di produzione: lo stretto rapporto, o l'identità, tra costruttori e utenti, il riferimento a regole implicite condivise, il costruire per moduli e per aggiustamenti di tipi fondamentali. Il legame vitale che sussiste tra casa e cultura è testimoniato dalla frequente esistenza di apposite cerimonie che accompagnano la costruzione o l'occupazione di un'abitazione. Presso alcune popolazioni una 'capanna primitiva' rappresenta lo spazio in cui si afferma, in forma sacrale, l'immagine 'giusta' della casa (v. Rykwert, 1972).La coerenza tra le forme abitative e le condizioni ambientali, le risorse locali, l'assetto produttivo, l'organizzazione sociale, i modi di vita e le concezioni culturali delle diverse società è illustrata da un'enorme documentazione di ricerca. Queste analisi mettono in luce anche l'altro carattere tipico della casa nelle società tradizionali: la sua ricchezza simbolica, che è in rapporto con la stretta integrazione dell'abitare nel complesso dell'esperienza sociale. I temi ricorrenti nell'analisi antropologica delle forme - la casa come strumento di lavoro, la casa come microcosmo e simbolizzazione dell'universo, la corrispondenza tra struttura dell'abitazione e struttura della famiglia estesa - sono altrettante illustrazioni della ricchezza culturale e del carattere di esperienza globale che l'abitare ha nelle società tradizionali.Il carattere complessivo dell'esperienza abitativa tuttavia può non riferirsi agli ambiti più limitati eventualmente identificabili come 'abitazione'. Questa precisazione rinvia ancora alla variabilità culturale e all'indeterminatezza spaziale della nozione. Per capire quali siano i luoghi dell'abitare in una determinata società è necessario considerare come viene elaborato il rapporto abitazione-insediamento. Una distinzione interessante a questo proposito (v. Rapoport, 1969, pp. 96-102) riguarda le due diverse soluzioni che si possono riscontrare per gli insediamenti di tipo concentrato. In un caso è l'intero agglomerato a essere considerato ambiente in cui vivere, mentre la casa è solo una parte, più intima e protetta. Nell'altro è soprattutto la casa a essere totalità abitativa, mentre l'agglomerato è tessuto connettivo secondario. Questa distinzione è applicabile a tutte le civiltà. Si ritrova anche all'interno della città contemporanea, come elemento di differenziazione tra stili abitativi di diversi gruppi sociali.I due modelli spaziali sono evidentemente in rapporto con differenti modelli di organizzazione sociale, definiti dal tipo di integrazione che le unità sociali fondamentali (o i vari sottogruppi) hanno con la società nel suo complesso. Una società organizzata su basi 'familistiche', ad esempio, avrà più probabilmente un'organizzazione spaziale del secondo tipo. Data la sua connessione con le forme dell'organizzazione sociale, il rapporto abitazione-insediamento è alla base di molti tentativi di classificazione interculturale delle forme abitative. La distinzione proposta da Rapoport ha però anche una valenza storica: il modello che nel rapporto abitazione-insediamento privilegia il primo termine è infatti una modalità dominante nella cultura abitativa moderna.
I nostri modelli abitativi possono essere messi in rapporto con i principali processi costitutivi delle società moderne. Si tratta quindi di processi di diversa durata e ampiezza storica, soprattutto se si guarda all'affermarsi dei principî di differenziazione sociale e di razionalizzazione, di cui le forme moderne dell'abitare sono certamente espressione. Più immediatamente le nostre concezioni sono in rapporto con tratti significativi dei recenti processi di modernizzazione e industrializzazione: in particolare con gli sviluppi della distinzione tra sfera pubblica e sfera privata; con l'affermazione della famiglia coniugale; con il generalizzarsi della distinzione tra luogo (e tempo) di lavoro e luogo (e tempo) di non lavoro.Il mutamento può essere descritto come un passaggio da una concezione 'globale' dell'abitare - legata alla presenza della famiglia estesa, alla pluralità di funzioni da essa svolte, alla caratteristica comunitaria dell'organizzazione sociale - a una concezione 'specializzata'. Nelle società immediatamente precedenti a quelle industriali, abitare era ancora un'esperienza complessa, che si integrava con i diversi aspetti dell'esperienza sociale e inglobava molteplici funzioni, anche produttive. La generalizzazione della separazione tra lavoro e non lavoro, conseguente all'estensione dei rapporti di produzione capitalistici e all'affermarsi del lavoro salariato, segna il compimento del processo di riduzione funzionale e di autonomizzazione dell'abitare. La casa diventa essenzialmente luogo della riproduzione e del consumo. L'abitare si costituisce come funzione 'separata' e valorizzata. Nel processo confluiscono, a conclusione di un lungo processo storico, i diversi elementi della costruzione 'borghese' della domesticità: l'elaborazione positiva del privato domestico, l'identificazione della casa come luogo del comfort. Nello stesso tempo, questi sviluppi costituiscono una dipendenza strutturale dell'abitazione dagli spazi e dai servizi offerti dall'ambiente circostante. Il termine 'residenza' indicherà in seguito tanto il carattere riduttivo della nuova 'funzione', quanto la necessaria relazione tra l'abitazione e il sistema funzionale esterno. Alla trasformazione funzionale e culturale corrisponde il formarsi del modello spaziale che ci è familiare: l'abitazione diventa non solo spazio distinto da quello lavorativo, ma anche spazio internamente differenziato. In precedenza le stanze delle case europee non avevano funzioni fisse: i membri della famiglia non godevano di una privacy, non esistevano spazi dedicati a una specifica attività e i mobili venivano spostati secondo le esigenze del momento. La separazione tra vani destinati a specifiche attività emerge - insieme con le nostre nozioni di intimità e di comfort - nelle società urbane tardomedievali. Il modello si afferma prima presso alcuni settori dell'aristocrazia e della borghesia urbana, per diffondersi poi - via via che si diffondono i nuovi valori abitativi - ad altre classi sociali. Ma si tratta di un processo lento: la maggior parte della popolazione non godrà del modello a spazi specializzati se non a partire dal XVIII secolo.
Tra il XVIII e il XIX secolo due ordini di processi sostengono e determinano le nuove forme dell'abitare. L'uno è lo sviluppo della città moderna: la nozione di residenza è direttamente influenzata dalle nuove problematiche urbane - il ruolo della rendita, l'importanza della strada e degli spazi pubblici come elementi di strutturazione del tessuto urbano, l'interesse politico delle attrezzature collettive come strumenti per la gestione della città. Un altro gruppo di fattori è legato all'esplodere della 'questione delle abitazioni' nel XIX secolo: le dimensioni oggettive della crisi, e le trasformazioni nelle aspettative e nelle aspirazioni, provocano nuove elaborazioni culturali e politiche, che determinano una ulteriore svolta nella definizione della problematica abitativa.Il passaggio al moderno - in quanto comporta l'uscita dalle condizioni di stretta integrazione tra abitazione e sistema culturale - solleva due principali ordini di problemi. Anzitutto quello della 'significatività' dell'abitazione nelle nostre società. Alla valorizzazione dell'abitare come funzione specifica e separata corrisponde il venir meno della ricchezza simbolica che la casa aveva nelle società precedenti. Questo passaggio costituisce nel sistema culturale una serie di opposizioni tipiche: tra le valenze simboliche della casa e le sue dimensioni funzionali, tra l''immaginario' dell'abitare e la sua logica 'razionale' (v. Lefèbvre, 1968, pp. 23 ss.). La collocazione dell'abitare nel nuovo sistema culturale seleziona inoltre le funzioni emozionali e comunicative della casa, sovraccaricandola di quelle legate all'intimità e alla dimostrazione di status o di appartenenza sociale.In secondo luogo entra in crisi la 'coerenza' tra abitazione e contesto. Viene meno la relazione diretta tra progettista, costruttore e abitante, e perdono validità le regole implicite che guidavano l''architettura vernacolare' delle società preindustriali. La produzione di forme abitative diventa autoconsapevole, e la questione diventa - nella sua totalità - oggetto di elaborazioni disciplinari, di progetti, di politiche. La 'complessificazione' dei processi di produzione edilizia implica intermediazioni organizzative ed economiche che separano gli utenti dai produttori; esalta il ruolo degli apparati culturali, tecnici e politici che intervengono nella produzione; crea le premesse per una perdita di controllo da parte degli abitanti sul loro ambiente abitativo.
Merce e oggetto culturale, la casa è nelle nostre società ingrediente importante di molti fondamentali processi sociali. Le condizioni abitative e i modi di abitare risultano perciò correlati con i principali fattori di differenziazione sociale. Su questo tema sono state condotte innumerevoli ricerche che hanno messo in luce le relazioni che intercorrono tra qualità, forma, valore, luogo dell'abitazione e le diverse variabili che definiscono struttura, posizione sociale e modelli di riferimento delle famiglie. I due aspetti più frequentemente analizzati sono il rapporto dell'abitazione con il sistema della disuguaglianza sociale e le articolazioni tra cultura abitativa e struttura sociale.
Le forti disuguaglianze che si possono riscontrare nelle condizioni e nelle opportunità abitative sono determinate sia da processi specifici - il mercato e le politiche edilizie - sia dai fattori che costituiscono il generale sistema di stratificazione sociale. Le connessioni tra disuguaglianza nei confronti dell'abitazione e fattori della stratificazione sociale sono un tema classico d'indagine da parte sia degli studiosi di problemi abitativi che degli studiosi della stratificazione sociale. In questa prospettiva l'abitazione può essere concettualizzata come risorsa sociale: l''accesso' al bene è determinato da un complesso di opportunità e vincoli che configurano differenti livelli di soddisfazione dei bisogni; a sua volta la condizione abitativa può influire in modo consistente sulle condizioni di vita complessive. Si consideri in particolare che per la maggior parte delle famiglie la casa è il più importante bene di consumo, e che la sua elevata incidenza sul reddito determina spesso l'intero standard di vita di una famiglia.Il dibattito in proposito - di tipo prevalentemente teorico e metodologico - non ha prodotto risultati generalizzabili: esso ha piuttosto messo in evidenza l'inconsistenza dei tentativi di affermare relazioni semplici e dirette tra sistema di stratificazione sociale e condizioni abitative. Quanto al senso delle relazioni, la ricerca ha confermato - oltre all'ovvia rilevanza delle variabili di stratificazione nel determinare le condizioni abitative - anche il ruolo specifico che le variabili abitative hanno nel costituire il sistema della disuguaglianza. Il tentativo più esplicito in questo senso è stato fatto da Rex e Moore (v., 1965) in occasione di una ricerca sulla residenza e le relazioni razziali a Birmingham. Essi assumono che per l'allocazione di risorse scarse e desiderabili come quelle abitative si sviluppi in ambiente urbano un conflitto assimilabile a un conflitto di classe.
Sulla base delle diverse condizioni residenziali è quindi possibile individuare delle 'classi abitative' (housing classes), sistemate in una gerarchia di prestigio o status, e localizzate secondo una distribuzione territoriale definita: l'appartenenza a tali classi ha effetti significativi sulle 'possibilità di vita'. Anche se in realtà non sembra possibile derivare dalle condizioni abitative classi omogenee dal punto di vista della stratificazione sociale, l'accento sull'abitazione come area analiticamente distinta in cui si determinano possibilità di vita è risultato una chiave importante per la comprensione del sistema complessivo della disuguaglianza.Il recente superamento delle concezioni forti, di tipo deterministico, dei rapporti tra abitazione e stratificazione sociale ha ampliato lo spazio per il più classico degli approcci al problema: l'uso delle variabili abitative come indicatori di posizione sociale. Nella costruzione di scale di stratificazione, il ricorso a fattori come il titolo di godimento o il tipo di alloggio ha una lunga tradizione. Un'importanza particolare, soprattutto in società a elevata segregazione residenziale come quella americana, ha la zona di residenza. La sua rilevanza è implicita nella natura di oggetto localizzato dell'abitazione: dal luogo dipendono vantaggi differenziati (ad esempio l'accesso a molti servizi); inoltre la zona di residenza comunica, in misura spesso maggiore che non il tipo di alloggio, il livello sociale della famiglia. Questo tema è stato coniugato, fin dall'inizio della ricerca urbana, con quello della differenziazione socio-spaziale interna della città. L'analisi della città come 'mosaico di mondi sociali' è stata sviluppata - a partire dai classici lavori della scuola di Chicago - in termini di stratificazione residenziale e di ecologia della residenza: uno dei principali obiettivi è stato quello di chiarire i meccanismi attraverso i quali differenti classi sociali occupano differenti zone della città. Ancora con riferimento alla società americana, una delle principali argomentazioni alla base dell'uso di variabili abitative nella costruzione di scale di stratificazione, riguarda le funzioni 'dimostrative' dell'abitazione. L'idea che la casa sia un simbolo di status ha una lunga tradizione nella sociologia americana, e temi come la 'casa palcoscenico', o il soggiorno 'mezzo di consumo vistoso' hanno acquistato vasta popolarità anche al di fuori della sociologia. In realtà, se ci si riferisce alle dimensioni ostentative della comunicazione l'ipotesi non può essere applicata senza distinzioni. Negli Stati Uniti questa funzione è probabilmente piuttosto diffusa presso le classi medie. Ma in generale l'abitazione può essere un importante elemento nella comunicazione di identità o di appartenenza, senza che ciò ne comporti un uso dimostrativo (v. Duncan, 1981).
Le variazioni negli stili, nelle immagini, nei modelli abitativi sono un aspetto fondamentale della pluralità di 'mondi sociali' che caratterizza le moderne società urbane. A questo proposito importa tuttavia rilevare - prima che le variazioni - la forte omogeneità dei riferimenti culturali. Le aspirazioni abitative, ad esempio, non si differenziano molto tra i diversi gruppi sociali. Valori come l'intimità e il comfort sono largamente condivisi. Le principali opposizioni che organizzano lo spazio abitativo - pubblico/privato, fronte/dietro, giorno/notte, ecc. - costituiscono in genere delle invarianti indipendenti dalle condizioni abitative e dal tipo di famiglia.Delle uniformità si possono dare diverse spiegazioni. Da un lato esse sembrano rinviare alle sedimentazioni di lunghissimo periodo in cui affonda le sue radici la nostra cultura abitativa. Dall'altro sono direttamente in rapporto con i valori fondamentali dell'abitare moderno: sono le nozioni di comfort, di intimità, di privacy a costituire la base delle norme culturali che regolano i comportamenti abitativi nelle nostre società, e l'omogeneità dei riferimenti attesta la forza di tali norme. L'esperienza abitativa di fatto è stata uno dei luoghi fondamentali dei processi integrativi nelle società moderne. Le variazioni sono tuttavia altrettanto interessanti che le uniformità. Non soltanto l'uso della casa come simbolo di status, ma anche elementi fondamentali della cultura abitativa come la privacy o l'anonimità non sono condivisi allo stesso modo da tutti i gruppi sociali. E vi sono settori di popolazione nei cui sistemi di riferimento la casa non è affatto un valore centrale. Pur essendo sostanzialmente interne alla logica della cultura abitativa moderna, queste variazioni esprimono in qualche misura le difficoltà che la diffusione di tale cultura ha incontrato, la problematicità della valorizzazione del privato domestico nelle nostre società e la precarietà dell'integrazione ottenuta su questa base. Una conferma indiretta viene dal fatto che le principali differenze negli stili abitativi risultano quasi sempre correlate con il grado e il tipo di partecipazione sociale.
A livello descrittivo si possono ordinare le variazioni individuando - entro un determinato sistema - differenti 'modelli abitativi'. Nella maggior parte dei casi le tipologie proposte cercano di connettere aspetti della cultura abitativa (le immagini e gli usi della casa, le scelte residenziali, gli stili di arredamento, ecc.) con alternative generali, significative per l'intero sistema culturale: come ad esempio localismo/cosmopolitismo, oppure familismo/selettività sociale. Data la centralità problematica della valorizzazione del privato familiare nella nostra cultura, il rapporto con l'esterno o il grado di 'apertura' del modello abitativo sono quasi sempre elementi centrali nella costruzione delle tipologie. Fortemente discriminante è anche il grado di adesione al modulo abitativo moderno, in quanto implica da un lato accentuata specializzazione e suddivisione dello spazio dell'alloggio, dall'altro elevato ricorso a servizi esterni per lo svolgimento delle funzioni individuali e familiari (v. Gasparini, 1975).
Per il contesto italiano, ad esempio, viene spesso adottata una distinzione tra concezioni individualistiche o egocentriche, concezioni centrate sulla famiglia o concezioni sociocentriche (v. Dobrowolny Bonnes, 1970). Nel primo caso l'abitazione è intesa come garanzia della sicurezza e della tranquillità individuale e gli spazi sono accentuatamente suddivisi e separati. Nel secondo modello la casa è soddisfazione di bisogni familiari, ed è l'intera famiglia a essere protetta dall'esterno: l'organizzazione dello spazio abitativo privilegia allora la comunicazione tra i membri. Nel terzo modello il gruppo familiare è orientato verso l'esterno e l'organizzazione dell'alloggio è centrata sulle sue funzioni dimostrative. Per quanto riguarda le relazioni tra abitazione e ambiente esterno, una contrapposizione diffusa nella sociologia americana è quella tra modelli 'selettivi' e modelli 'localistici'. Nel primo caso lo spazio urbano, alle diverse scale, è usato in modo selettivo e individualizzato, e i confini tra abitazione e immediate vicinanze sono molto netti e poco permeabili. I modelli localistici, invece, sono caratterizzati da forte identificazione, e frequenti relazioni, con il quartiere: a ciò corrispondono una forte permeabilità tra casa e quartiere e uno scarso uso e confidenza con le aree urbane esterne al quartiere (v. Fried e Gleicher, 1961).
I diversi modelli sono diversamente distribuiti nella struttura sociale. Possono variare in funzione dell'età, del sesso, della classe sociale, della struttura familiare, della fase del ciclo di vita della famiglia, ecc. Si tratta però di solito di relazioni parziali e incerte. Ciò indica ancora - oltre che la frammentazione subculturale delle nostre società - la forte condivisione degli elementi fondamentali della cultura abitativa. Dalle ricerche possono comunque essere ricavate alcune connessioni generali. In Italia, ad esempio, le immagini abitative centrate sulla famiglia diminuiscono passando dagli strati sociali inferiori a quelli superiori. Negli Stati Uniti i modelli localistici sono stati particolarmente legati alle condizioni e ai modi di vita degli operai tradizionali e dei gruppi etnici insediati nelle aree centrali delle grandi città. Presso questi gruppi il localismo è leggibile come una strategia difensiva, ed è in genere indice di relativa esclusione sociale. In molti paesi le classi sociali inferiori si differenziano dalle altre per una prevalenza delle dimensioni funzionali e di riparo rispetto a quelle dimostrative, per un diverso rapporto (anche al di fuori di modelli localistici) con l'intorno dell'abitazione e per la presenza di una più ampia esperienza residenziale, che contrasta con i modelli di riservatezza e di privacy tipici delle classi medie o superiori. Le differenze tra modelli possono anche esprimere diverse esposizioni o gradi di coinvolgimento nei mutamenti che si verificano nella cultura abitativa. Le tendenze più significative registrate negli ultimi anni sono tutte nel senso di uno sviluppo del processo di valorizzazione dell'abitazione. Da un lato sembra aumentare presso quasi tutti i gruppi sociali l'interesse per la casa: cresce l'investimento emotivo così come aumenta il tempo passato in casa o il tempo a essa dedicato. Dall'altro lato - e per questo aspetto le differenze tra i vari gruppi sociali sono più consistenti - stanno cambiando le concezioni spaziali: sia nel discorso urbanistico che nelle pratiche abitative si assiste a una valorizzazione degli elementi di 'flessibilità', tanto nell'articolazione tra interno ed esterno dell'abitazione, quanto nella sua organizzazione interna, dove si attenua la rigidità della separazione tra zone (giorno/notte, pubblico/privato, ecc.) e la specializzazione dei singoli vani.
Queste tendenze possono rappresentare il 'senso' del processo storico di valorizzazione dell'abitare, in quanto espressione ultima della "valorizzazione di un tipo di socialità dissociata dai rapporti di lavoro", di cui l'abitazione è stata strumento: "la crescita dei luoghi non chiusi di ricevimento, la minor rigidità dell'arredamento, l'integrazione degli spazi"funzionali' nelle superfici del soggiorno, la 'ludificazione' delle attività della casa, sono altrettanti segni di questa valorizzazione delle pratiche residenziali ' (v. Ion, 1980, p. 66). Ma nello stesso tempo le tendenze rilevate rappresentano un indubbio allontanamento dal modello funzionale, gerarchico, specializzato che è tipico della cultura moderna dell'abitazione. D'altra parte se si considerano i fattori - di tipo demografico, politico, culturale - che sono alla base delle nuove tendenze si può pensare a una crisi dei modelli abitativi portati dalla modernizzazione. Le recenti trasformazioni dei bisogni e della domanda (si pensi alle nuove tipologie familiari) modificano radicalmente le aspettative e le immagini delle sistemazioni che si ritengono appropriate o desiderabili. Lo stesso deterioramento delle condizioni abitative che dagli anni settanta si sta manifestando in molti paesi implica profonde innovazioni culturali. Non a caso la coabitazione - che rappresenta l'antitesi più radicale del modello unifamiliare che ha governato per un secolo politiche e aspirazioni residenziali - sta diventando in alcuni paesi (come gli Stati Uniti e l'Australia) oggetto di positive elaborazioni progettuali.
I modelli spaziali sono elementi fondamentali dei modelli culturali e delle loro variazioni. Il dibattito sulle tipologie edilizie fa spesso riferimento alla contrapposizione tra casa unifamiliare e appartamento situato in immobili plurifamiliari. Come principio classificatorio di tipologie abitative, questa opposizione è troppo semplice. Essa non tiene conto del diverso significato che un medesimo tipo può assumere quando varia il contesto insediativo (la densità, la localizzazione) o il contenuto sociale dell'abitazione e del contesto. Da questo punto di vista le diverse situazioni sono meglio individuate dai tipi sociospaziali cui si è applicata la ricerca socio-urbana: il suburbio americano, la periferia 'spontanea' di villini in Italia o in Francia, il quartiere di edilizia popolare, lo slum, il quartiere etnico delle aree centrali delle grandi città americane sono infatti situazioni definite dalla connessione tra 'mondi sociali' e tipologie urbane e sociali, oltre che edilizie. Lo stesso dibattito disciplinare sulle tipologie si estende in genere a problemi di aggregazione e di densità: ad esempio, le critiche espresse dal Movimento moderno nei riguardi della casa unifamiliare riguardano anche il 'disordine urbanistico' derivante dalla diffusione di questa tipologia; e il frequente rifiuto della casa plurifamiliare in ambiente anglosassone è più spesso rifiuto della costruzione in altezza a elevata densità. La contrapposizione tra unifamiliare e plurifamiliare è tuttavia importante: essa rappresenta il sistema di riferimenti attorno ai quali si sono sviluppate le aspirazioni abitative e i dibattiti degli esperti dalla 'questione delle abitazioni' in poi. I due tipi sono immagini di due diverse, in parte antitetiche, concezioni dell'abitare, e rinviano a differenti tradizioni culturali, differenti elaborazioni disciplinari, differenti politiche.
Sul piano delle teorizzazioni, alle origini della contrapposizione troviamo le proposte che nel secolo scorso hanno cercato di interpretare i nuovi bisogni abitativi. In Europa l'opposizione tra casa unifamiliare in proprietà e casa 'collettiva' ha costituito il tema centrale nel dibattito sull'edilizia popolare tra XIX e inizio del XX secolo. Negli Stati Uniti il tentativo di elaborare modelli di vita domestica adatti alle esigenze delle società industriali ha prodotto diverse strategie che in seguito avrebbero generato le fondamentali opzioni tipologiche: la casa unifamiliare suburbana; l'edilizia intensiva di massa, "trattata come efficiente macchina per il consumo collettivo"; l'abitazione plurifamiliare a bassa densità, "elaborata secondo il modello del villaggio, dotato di spazi pubblici, corti e servizi comuni" (v. Hayden, 1984, pp. 99 ss). In seguito, il Movimento moderno in architettura radicalizza l'alternativa individuale/collettivo: nello sforzo di creare una 'nuova abitazione', esso elabora i tratti dell'appartamento moderno e fornisce i temi fondamentali alla polemica contro la casa unifamiliare. Le diverse proposte trovano poi possibilità di attuazione soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, quando nei paesi industrializzati la forte crescita economica, lo sviluppo della società dei consumi, il massiccio intervento dello Stato nell'edilizia costituiscono condizioni favorevoli sia per la realizzazione di tipi plurifamiliari intensivi (i quartieri di edilizia popolare e l'edilizia condominiale) sia per la diffusione a livello di massa della casa unifamiliare.
Le due tipologie hanno diversi gradi di coerenza con diversi tipi di famiglie. La casa unifamiliare è di solito percepita come più adatta a famiglie giovani con bambini, mentre famiglie anziane, ma anche diverse componenti di strati professionali medi e alti, si esprimono spesso a favore dell'appartamento. Il dato più significativo in proposito è comunque la massiccia preferenza per la casa unifamiliare, cui è normalmente associata l'idea di proprietà dell'abitazione. Nella maggior parte dei paesi occidentali questa tipologia è il modello universale di riferimento, rispetto al quale l'appartamento appare come una soluzione adattiva.Sulle ragioni di questa preferenza si sono contrapposte diverse tesi, che hanno messo l'accento di volta in volta su specificità culturali nazionali, sui requisiti funzionali della modernizzazione, sulle esigenze integrative del capitalismo, sul bisogno universale di una forma abitativa in cui l'io e la famiglia possano essere visti come 'unici' e 'protetti'. Di fatto sarebbe difficile negare il ruolo di condizionamenti storici e di costrizioni indotte dal mercato e dalle politiche: è evidente, ad esempio, l'operare di precedenti modelli, sia di tipo signorile che di tipo contadino; o quello dei sistemi ideologici sostenuti da un secolo di politiche della casa. D'altra parte le ricerche sulle pratiche abitative concordano in genere sulle maggiori possibilità di 'appropriazione' e di elaborazione culturale che la casa unifamiliare consente. Da questo punto di vista la preferenza per questa tipologia può essere messa in rapporto con i limiti progettuali e produttivi delle tipologie collettive, storicamente realizzate. Di fronte al prodotto rigido e standardizzato normalmente offerto dal mercato e dall'edilizia pubblica, la casa unifamiliare - nonostante i suoi limiti - appare come forma duttile e personalizzabile, universo che ancora consente il gioco dell'immaginario abitativo. La preferenza per la casa unifamiliare quindi, se storicizzata, indica anche i limiti della cultura abitativa moderna, in particolare nella sua versione 'funzionale'. L'opposizione tipologica assume così anche una precisa connotazione storica: rappresenta l'opposizione di significati - la contrapposizione tra l'immaginario e il funzionale - indotta dalla 'riduzione' moderna dell'abitare.
I processi abitativi sono oggetto di molteplici forme d'intervento e di controllo da parte dello Stato. Se si tiene conto dei loro obiettivi e dei loro strumenti, le politiche della casa possono essere considerate sia come politiche sociali sia come importanti ingredienti di altre politiche, in particolare di quelle economiche. Alla base dell'intervento dello Stato in questo campo troviamo infatti la convinzione dell'importanza delle condizioni abitative da diversi punti di vista: come componente fondamentale del benessere degli individui e delle famiglie, come base per il mantenimento dell'ordine sociale, come fattore dei processi di sviluppo economico. Troviamo inoltre la convinzione che le forze del mercato da sole non siano in grado di assicurare adeguati risultati né dal punto di vista sociale né da quello economico.Entrambe queste convinzioni si sono sviluppate a partire dal XIX secolo, quando nella maggior parte dei paesi europei i processi di industrializzazione e di urbanizzazione hanno sconvolto gli equilibri insediativi, provocando una crisi degli alloggi di enormi proporzioni. È allora - nell'elaborazione culturale e politica della questione delle abitazioni - che hanno avuto origine le ipotesi e gli strumenti d'intervento che sono ancor oggi alla base delle politiche della casa nei paesi industrializzati.
I luoghi di questa elaborazione sono i movimenti di riforma sociale che caratterizzano soprattutto la seconda metà del XIX secolo. È questo il periodo in cui filantropi, utopisti, imprenditori, politici - attraverso un vasto lavoro d'indagine (le grandi inchieste sulle condizioni abitative della classe operaia) e di sperimentazione di concrete soluzioni (i villaggi operai e gli insediamenti modello) - creano le premesse culturali e politiche dell'intervento dello Stato. Si sviluppa così anche il quadro caratteristico di motivazioni che sarà poi alla base dell'intervento pubblico. In esso convergono preoccupazioni igieniche e preoccupazioni sociali, l'interesse umanitario per le condizioni dei poveri e la paura per l'ordine sociale minacciato, l'interesse per l'emancipazione della classe operaia e i progetti per la sua integrazione. Attraverso queste elaborazioni si precisa anche l'importanza politica della questione. Di fronte alla sperimentata 'pericolosità' delle concentrazioni operaie, la questione abitativa tende quasi a identificarsi con la questione sociale, il miglioramento delle condizioni abitative viene visto come un rimedio alla crisi sociale. Per questo le preoccupazioni per l'ordine sociale sono così importanti nel quadro delle motivazioni.Verso la fine del secolo - nell'ambito delle politiche sociali sviluppate in molti paesi europei dai governi conservatori - lo Stato si assume il compito di promotore principale della 'soluzione' della questione. L'azione dello Stato rende centrali le dimensioni ideologico-inte~grative degli interventi (v. Tosi, 1979, pp. 12-30): in tal modo le politiche danno un contributo importante alla costruzione e alla diffusione della cultura abitativa moderna. La strategia integrativa propone infatti come modello generalizzabile - e nella diffusione del modello consisterebbe, secondo i promotori, la valenza integrativa della strategia - la valorizzazione dell'abitare come momento privato, separato e contrapposto a quello lavorativo. La casa unifamiliare in proprietà - vista come elemento di stabilizzazione sociale - è il modello tipologico privilegiato. In realtà gli interventi concreti si orientano subito verso due soluzioni complementari: far accedere i lavoratori alla proprietà, oppure affittare loro abitazioni a condizioni vantaggiose. Le due soluzioni si rivolgono idealmente a destinatari diversi, assumendo la produzione per l'affitto una connotazione più propriamente 'sociale'. Dal punto di vista tipologico la difficoltà di realizzare il modello unifamiliare su larga scala, a causa dei costi elevati, porta presto a legittimare l'edilizia plurifamiliare a elevata densità, che diventerà la soluzione caratteristica dell'edilizia sociale pubblica.
I successivi sviluppi delle politiche consentono di sperimentare la vasta gamma di strumenti d'intervento disponibili oggi nelle politiche dei paesi industrializzati. Nuclei principali sono gli strumenti di tipo regolativo (ad esempio il controllo degli affitti sul mercato privato) e le varie forme di sostegno finanziario alla produzione o alla domanda. Gran parte delle politiche sono riconducibili a due tipi di interventi finanziari che hanno la loro origine nelle prime esperienze di intervento dello Stato. Abbiamo da un lato le molte forme di incentivazioni e agevolazioni - soprattutto creditizie e fiscali - dirette ai produttori o agli utenti, che hanno lo scopo di allargare l'accesso alla proprietà dell'abitazione. Dall'altro abbiamo l''edilizia sociale': abitazioni da concedere in affitto a canoni ridotti a famiglie a basso reddito o che si trovano in situazioni di particolare disagio abitativo, prodotte e gestite in forma pubblica (per mezzo di istituzioni senza fini di lucro, o direttamente dallo Stato, attraverso apposite agenzie o attraverso gli enti locali). Negli anni del secondo dopoguerra - in connessione con una fase di grande produzione di nuovi alloggi sostenuta da un massiccio intervento finanziario dello Stato - si formano i modelli di politiche che accompagneranno un quarantennio di sviluppo edilizio nei paesi industrializzati. Le condizioni sono quelle di una favorevole congiuntura economica e di un grande fabbisogno abitativo, provocato dalle distruzioni belliche e dalle grandi migrazioni legate alla crescita economica. Sul piano ideologico lo sviluppo dei modelli si intreccia con la costruzione dei sistemi di welfare, di cui le politiche abitative diventano una componente fondamentale. Nello stesso tempo l'intervento risponde a obiettivi generali di politica economica, di tipo occupazionale e di controllo degli investimenti.
Tutti i modelli comprendono entrambe le forme principali dell'intervento dello Stato: il sostegno al settore privato per lo sviluppo di abitazioni in proprietà e la produzione 'diretta' di edilizia sociale. Il sostegno al settore privato è di regola consistente. Sul piano teorico-ideologico le politiche si ispirano - sia pure in diversa misura - a concezioni 'quantitative' dell'edilizia, secondo cui una sostenuta produzione di nuovi alloggi consentirebbe di rispondere anche alle domande di gruppi a basso reddito. Opererebbero infatti sul mercato processi di filtering, per cui gli alloggi lasciati liberi da famiglie di reddito superiore verrebbero occupati da famiglie di reddito inferiore, così che attraverso un 'rimescolamento' i benefici delle politiche di sostegno al settore privato si estenderebbero a tutta la società. Ciò non significa, secondo questo punto di vista, che in determinate circostanze non siano richiesti interventi specifici a favore di gruppi a basso reddito. Di fatto all'intervento 'sociale' dello Stato è stata attribuita importanza diversa a seconda dei paesi e dei periodi, come è indicato dalla diversa entità della produzione di edilizia sociale: nel Regno Unito essa ha costituito il 63% di tutte le abitazioni costruite dal 1945 al 1978; in Olanda il 51%; in Italia meno del 10%.
La proporzione tra produzione sociale e sostegno al settore privato è il primo e fondamentale criterio per discriminare tra i diversi modelli. Altri elementi di variazione sono la sistematicità degli interventi e l'estensione della responsabilità che lo Stato si assume per quanto riguarda i destinatari: da un lato un approccio di tipo 'universalistico' considera lo Stato responsabile verso l'intera popolazione; dall'altro un approccio di tipo 'residuale' limita l'intervento dello Stato ai gruppi sociali svantaggiati. Su questa base sono individuabili tre principali modelli. Nel primo l'intervento pubblico diretto è marginale o straordinario e allo Stato è affidato il compito di intervenire in modo sostanziale a sostegno del mercato e dell'accesso alla proprietà. Nel secondo modello l'intervento diretto dello Stato è consistente, e si concentra - secondo logiche 'selettive' - sui gruppi più bisognosi o sulle aree di maggior disagio. Nel terzo modello, definito 'comprensivo', l'intervento diretto si colloca entro un approccio sistematico, che assegna allo Stato responsabilità nei riguardi dell'intera popolazione e un ruolo di controllo del mercato e dell'intera produzione, da perseguire attraverso una pluralità di strumenti (v. Donnison e Ungerson, 1982, pp. 62-92). Gli approcci di tipo comprensivo si sono manifestati soltanto raramente e per brevi periodi, in particolare nei paesi con sistemi di welfare molto sviluppati. Il caso tipico è la Svezia, dove per decenni il mercato abitativo è stato sostanzialmente controllato dallo Stato. Al settore privato fa capo soltanto il 35% delle nuove abitazioni prodotte dal dopoguerra a oggi: il 45% è stato prodotto da enti pubblici, il 20% da cooperative. Inoltre il governo ha sviluppato vasti programmi di sussidi che prevedono un'assistenza monetaria fondata sulle dimensioni e sulle necessità economiche della famiglia. All'estremo opposto è il caso degli Stati Uniti, dove la produzione pubblica - a fronte di un massiccio intervento dello Stato a favore dell'estensione della casa in proprietà - normalmente non ha superato il 2% del totale, la più bassa percentuale nei paesi avanzati.
Risultato di queste politiche è stata una elevatissima produzione di nuove abitazioni. Tra il 1945 e il 1978 sono stati costruiti in Francia oltre 10 milioni di alloggi, pari al 52% dello stock esistente al 1978; nel Regno Unito 9 milioni e 700 mila alloggi, pari al 47% dello stock; in Olanda 2 milioni e 900 mila alloggi, pari a quasi il 65% dello stock. In quasi tutti i paesi il numero di abitazioni è aumentato fino a superare il numero delle famiglie. Nello stesso tempo è aumentata la percentuale delle abitazioni in proprietà. In Italia tra il 1951 e il 1981 si passa da 11 milioni e 400 mila abitazioni per 11 milioni e 500 mila famiglie a 21 milioni 800 mila abitazioni per 18 milioni e 500 mila famiglie. La percentuale di alloggi occupati dai proprietari supera, dopo il 1981, il 60% del totale.Tutto ciò significa un miglioramento delle condizioni abitative, soprattutto se misurate con tradizionali indici come la densità o la dotazione funzionale dell'alloggio. Anche se dati disaggregati mostrano la presenza di aree di bisogni insoddisfatti, l'effetto di queste politiche quantitative è stato una larga diffusione di benefici nella popolazione. Secondo calcoli relativi al Regno Unito, nel 1970 più del 90% delle famiglie abitava in settori protetti del mercato: aveva cioè goduto, direttamente o indirettamente, di sostegni pubblici per l'acquisto o per l'affitto dell'abitazione.
L'estensione e la natura degli effetti redistributivi di queste politiche sono però oggetto di dibattito. Le differenze tra i modelli sembrano avere, da questo punto di vista, rilevanza. Un forte intervento a favore dell'edilizia sociale, soprattutto quando è stato inquadrato all'interno di un approccio comprensivo, ha probabilmente avuto effetti redistributivi a favore di vasti settori della classe operaia e dei lavoratori dipendenti (v. Folin, 1982, pp. 9 ss.). La Svezia è probabilmente il solo paese occidentale dove le classi medie spendono per l'abitazione una percentuale di reddito maggiore di quella degli strati operai. In generale tuttavia - anche là dove vi è stata consistente produzione pubblica - il forte sostegno al mercato e all'accesso alla proprietà ha comportato effetti sociali regressivi. A causa della rigidità e segmentazione del mercato, il principale meccanismo sociale previsto dalle politiche quantitative - il processo di filtering - non ha funzionato molto. Nel complesso, quindi, l'efficacia redistributiva delle politiche è stata limitata: è andata piuttosto a vantaggio di classi medie o di strati operai stabili; non ha favorito, di regola, i gruppi più svantaggiati della popolazione. La maggior parte dei programmi sociali, d'altra parte, aveva per destinatari settori 'garantiti' di lavoratori dipendenti e non i settori più poveri della popolazione o quelli più bisognosi di casa.
Negli anni settanta la nuova produzione cala drasticamente in quasi tutti i paesi sviluppati. Nella Germania Federale il numero di alloggi ultimati ogni 1.000 abitanti passa da 11,5 nel 1973 a 6,0 nel 1978; in Olanda da 11,6 a 7,7; in Svezia da 13,7 nel 1969 a 6,5 nel 1979. Nonostante gli interventi dello Stato a sostegno del settore, la crisi produttiva continua anche negli anni ottanta: in Italia, dove peraltro il fenomeno si è manifestato con un certo ritardo, tra il 1980 e il 1985 gli investimenti nell'edilizia residenziale passano (in valori reali) da 18.060 a 16.580 miliardi di lire, e le abitazioni ultimate calano di 70.000 unità.Contemporaneamente entrano in crisi i modelli che avevano guidato le politiche dal dopoguerra in poi. I nuovi orientamenti - che risentono del vasto movimento deregolativo che segna la crisi dei modelli di welfare nei paesi occidentali - tendono a modificare i rapporti tra le due principali componenti dell'intervento dello Stato: riducono la produzione pubblica di abitazioni e i programmi sociali, e incrementano gli interventi indiretti e le politiche agevolative e di sostegno della domanda. Tutto ciò significa un allontanamento dai modelli consolidati, fondati su un consistente intervento diretto dello Stato: significa soprattutto l'abbandono dei modelli comprensivi che erano stati il riferimento ideale delle politiche nell'era della 'socializzazione dell'edilizia'. Di fatto sono venute meno le principali condizioni che avevano accompagnato lo sviluppo dei modelli pubblicistici: l'espansione economica e l'elevata occupazione, e le ideologie del Welfare State.
L'elemento più problematico delle nuove tendenze di crisi è l'inversione del trend di miglioramento delle condizioni abitative che si era sviluppato ininterrottamente dal dopoguerra. Alla fine del periodo di grande produzione edilizia il quadro risulta contraddittorio: a fronte di un grande miglioramento complessivo vi sono aree evidenti di 'disagio abitativo' e di bisogni insoddisfatti. In Italia nel 1985 le persone residenti in alloggi ufficialmente classificati come 'affollati' (quelli cioè che presentano un rapporto stanze/abitanti inferiore a 1) sono ancora più del 20% della popolazione. Più del 20% delle abitazioni occupate sono classificate come 'degradate'.La persistenza di bisogni insoddisfatti può ancora essere attribuita ai limiti redistributivi delle politiche quantitative. Il peggioramento che si è verificato a partire dagli anni settanta indica per`o che operano nuovi fattori di disagio. Tali fattori possono essere messi in rapporto con la crisi produttiva e con le implicazioni regressive delle nuove politiche. Essi rinviano inoltre alle più generali trasformazioni che in questi anni hanno modificato i modelli di sviluppo dei paesi industrializzati: la crisi economica e la crescita di nuove aree di povertà, il declino delle grandi migrazioni e la crisi della centralità metropolitana, i nuovi trends demografici, la periferizzazione dell'economia. Il rapporto con questi fattori indica la natura non residuale dei nuovi disagi e legittima l'ipotesi che ci si trovi di fronte a una nuova 'questione delle abitazioni'. Se intesa in senso quantitativo e misurata con i tradizionali indicatori, la questione non è più ora di massa. Tuttavia il disagio non è 'concentrato', non riguarda soltanto gruppi 'speciali' di popolazione o particolari aree geografiche. Anzi, le difficoltà interessano ora, sia pure selettivamente, una gamma più vasta di gruppi sociali, coinvolgendo anche settori di classi medie e situazioni in passato ritenute esenti da disagi abitativi, come quella degli abitanti in proprietà.
Nei suoi aspetti diffusivi la nuova questione abitativa è caratterizzata dalle dimensioni qualitative del disagio. Le recenti trasformazioni demografiche e negli stili di vita hanno modificato profondamente preferenze e domande, per quanto riguarda sia la localizzazione che il tipo e le dimensioni delle abitazioni. In questo modo è aumentata l'incoerenza tra patrimonio abitativo e domanda. Ad esempio, l'incremento di nuclei familiari di piccole dimensioni ha provocato un forte squilibrio tra offerta e domanda di alloggi di piccola taglia. Ancora più profonda appare l'incoerenza se si guarda alla localizzazione e alle caratteristiche tipologiche degli alloggi: prendendo ancora in esame nuclei di piccole dimensioni, questi sono spesso diversi dagli altri per struttura, risorse e modelli di riferimento: ad esempio giovani che vanno a vivere da soli, oppure nuclei 'non famiglia' o con capofamiglia donna (questi ultimi sono aumentati negli Stati Uniti del 72% tra il 1970 e il 1983).Un secondo tratto della nuova questione abitativa è la presenza - anch'essa riferibile a recenti fattori di mutamento - di aree di forte disagio, in cui la crisi è particolarmente grave e i problemi hanno tratti più tradizionali. È il caso, in Italia, del settore delle famiglie a basso reddito che abitano in affitto nelle grandi città. Negli Stati Uniti gravi problemi alloggiativi si concentrano presso specifiche popolazioni: minoranze, famiglie grandi, assistiti, anziani, lavoratori agricoli, ecc. In questi casi il disagio può assumere connotati classici, di carenza assoluta. Dagli anni settanta uno dei temi al centro del dibattito negli Stati Uniti e in Gran Bretagna è quello degli homeless. Il loro aumento è dovuto alla crescita di nuove povertà, all'incremento dei prezzi sul mercato delle abitazioni, alla mancanza di offerta compatibile con le caratteristiche delle nuove tipologie familiari. Anche questo aspetto del fenomeno indica quindi il ruolo di nuovi fattori di sistema nel produrre l'attuale problematica abitativa.
Negli anni ottanta la persistenza di bisogni abitativi insoddisfatti e l'emergere di nuove tendenze di crisi vengono messi in evidenza anche per i paesi socialisti e per i paesi in via di sviluppo. Si tratta certamente di 'questioni abitative' di diversa portata e significato: anche in questi casi, tuttavia, vi è un'evidente interconnessione tra i nuovi termini del problema e la crisi di consolidati modelli di politiche abitative. Analoghe sono in parte anche le critiche rivolte ai modelli tradizionali, come ad esempio quelle che riguardano i limiti degli approcci centralistici o il ruolo degli apparati burocratici nella produzione edilizia.Per quanto riguarda i paesi socialisti, il nuovo quadro problematico presenta diverse analogie con quello dei paesi occidentali. Anche in questo caso il disagio abitativo è aggravato dall'operare di nuovi fattori, come ad esempio quelli connessi con le trasformazioni nelle dimensioni e nella struttura dei nuclei familiari. E anche qui la persistenza di vaste aree di bisogni insoddisfatti viene rilevata al termine di un periodo di elevata produzione edilizia, sostenuta da forti investimenti da parte dello Stato.
Certamente in molti di questi paesi il disagio attuale è anche l'effetto di una precedente 'povertà abitativa': è l'esito di una storia nella quale diversi fattori - dalle distruzioni belliche a consapevoli scelte politiche - hanno concorso a un abbassamento generalizzato degli standard abitativi. L'elemento più rilevante è stata la sistematica subordinazione delle politiche della casa alle esigenze dell'industrializzazione e della crescita economica. Soprattutto in Unione Sovietica ciò ha comportato un prolungato sottoinvestimento in abitazioni, che ha avuto effetti particolarmente pesanti. Tra il 1923 e il 1950 la popolazione urbana è aumentata in URSS da 21,6 a 74,5 milioni: nello stesso periodo lo spazio abitativo urbano è cresciuto da 139 a 297 milioni di metri quadrati, e lo spazio per persona è sceso da 6,4 a 4,0 metri quadrati. (È stato calcolato che in quel periodo l''acquisto' di due anni di investimenti industriali abbia comportato un calo del 40% negli standard abitativi dei lavoratori urbani: v. Donnison e Ungerson, 1982, p. 95).Ma in seguito - dopo la radicale svolta nelle politiche abitative che si è verificata negli anni cinquanta - la produzione di nuove case in Unione Sovietica ha comunque raggiunto e mantenuto livelli molto elevati. I massicci investimenti indotti dalle nuove politiche hanno prodotto tra il 1954 e il 1964 17 milioni di alloggi urbani e 6 milioni di case rurali. Negli ultimi 25 anni sono stati costruiti 2 milioni di appartamenti all'anno.Come risultato, le condizioni abitative sono nel complesso notevolmente migliorate. Ad esempio, la popolazione abitante in alloggi comunali o in dormitori è scesa dal 60% del 1960 al 20% del 1981. La consistenza dei miglioramenti è più chiara se si considerano altri tratti del quadro abitativo, come ad esempio la buona dotazione di servizi collettivi rilevabile in molti contesti residenziali, o la modesta incidenza degli affitti. Fermi ai livelli del 1928, gli affitti sono tra i più bassi del mondo: nelle città non arrivano al 5% del reddito familiare mensile (contro il 30% degli Stati Uniti). Nel complesso la distribuzione delle risorse abitative può essere considerata, da diversi punti di vista, più 'egualitaria' che nella maggior parte dei paesi del mondo (v. Donnison e Ungerson, 1982, pp. 108-109).
E tuttavia gli elementi problematici sono cospicui. Secondo alcune stime, nel 1980 il rapporto tra nuclei familiari e unità abitative era di 123 a 100. Se si considera l'evoluzione del rapporto tra numero di matrimoni e numero di nuove abitazioni, la situazione appare in via di peggioramento: tra il 1973 e il 1982 sono stati registrati 6.175.226 matrimoni in più del numero delle unità abitative costruite. Persistono inoltre consistenti sacche di abitazioni sottostandard: nel 1982 soltanto il 15% delle 29 città principali superava il pur modesto standard minimo ufficiale di 9 metri quadrati per abitante (stabilito nel 1926). A ciò si aggiunga che le abitazioni prodotte rimangono in generale modeste dal punto di vista qualitativo e dimensionale: l'abitazione media costruita nel 1978 era di 51,1 metri quadrati di spazio abitabile. Infine - e ciò è particolarmente problematico dati gli obiettivi egualitari delle politiche - sussistono grossi squilibri e disparità tra regioni e tra strati sociali (v. Andrusz, 1985). Analoghi indicatori di disagio abitativo possono essere osservati anche per gli altri paesi dell'Est europeo, anche se in alcuni di essi le condizioni sono complessivamente migliori.Alla persistenza di bisogni insoddisfatti, alla presenza di nuovi elementi di disagio, alla sperimentata insufficienza delle politiche precedenti - oltre che alla mutata congiuntura economica e ideologica - possono essere riferite le innovazioni che hanno segnato le politiche abitative di molti paesi socialisti negli anni ottanta: una nuova preoccupazione per gli aspetti qualitativi e per la diversificazione della produzione, tentativi di de-burocratizzazione delle procedure, l'introduzione - in alcuni casi - di sostegni all'abitazione in proprietà e di formule finanziarie che valorizzino i contributi personali degli abitanti, ecc. In alcuni di questi paesi l'esigenza di far fronte ai nuovi fattori di crisi e rispondere alla nuova domanda di miglioramento degli standard ha comportato una notevole estensione degli elementi di mercato. Ma questo non è che uno dei segni dell'allontanamento dai precedenti modelli d'intervento.
Nei paesi del Terzo Mondo la carenza assoluta di alloggi è il tratto fondamentale di una 'questione delle abitazioni' i cui caratteri e le cui proporzioni non hanno precedenti nell'esperienza dei paesi sviluppati. Le drammatiche dimensioni del problema sono rese visibili dall'estensione degli 'insediamenti spontanei' che coprono le periferie di molte città. Questi insediamenti sono la componente principale di quello che si è convenuto di chiamare 'settore abitativo informale': un insieme di precarie soluzioni edilizie i cui tratti salienti sono il largo ricorso all'autocostruzione e l'insediamento su aree occupate illegalmente.La consistenza del settore informale è enorme: nel 1984 in molte città latinoamericane interessava dal 30 al 60% della popolazione, in alcune città africane più del 70%. I ritmi di crescita del fenomeno sono elevatissimi: in Africa, secondo stime delle Nazioni Unite, per ogni unità abitativa costruita in città, immigrano dalle aree rurali dieci nuove famiglie. Si calcola che a livello mondiale il deficit abitativo urbano stia crescendo al ritmo di 4-5 milioni di unità all'anno.
Le ragioni della gravità del problema possono essere ricondotte agli elevatissimi ritmi di urbanizzazione (l'incremento annuo della popolazione urbana è stato superiore al 4% tra il 1970 e il 1982) e ai modelli generali di sviluppo (la stessa crescita economica in questi paesi ha spesso aumentato le disuguaglianze nella distribuzione del reddito): i due fattori concorrono a costituire grosse quote di povertà urbana, che rappresentano la prima, e più problematica, componente alla base dell'edilizia informale. E si tratta di una componente destinata probabilmente ad aumentare in molti paesi per l'effetto congiunto della crescita dei processi di urbanizzazione e del tendenziale peggioramento delle condizioni di vita. L'edilizia informale riguarda però anche popolazioni al di sopra della soglia della povertà, per le quali le soluzioni ufficiali possono essere inaccessibili, oppure non convenienti, perché incoerenti con le loro esigenze sociali e lavorative.
Di fatto le situazioni nell'edilizia informale sono diversificate e anche i livelli qualitativi variano notevolmente: spesso la precarietà derivante dall'occupazione illegale di suolo è il principale elemento problematico, mentre la qualità dell'alloggio può anche essere discreta.
Le tradizionali politiche per le abitazioni a basso costo - ispirate a concezioni urbanistiche e di politica edilizia occidentali - hanno avuto scarsissimo successo. Si è trattato in gran parte di misure regolative, come il controllo dei prezzi del suolo e delle abitazioni e la fissazione di standard minimi. Un esito naturale di queste misure è stata la distruzione pura e semplice degli insediamenti informali illegali e sottostandard. Un altro tipo di interventi è rappresentato dai programmi di edilizia pubblica ispirati alle politiche postbelliche dei paesi europei: programmi che non possono avere, nelle condizioni dei paesi del Terzo Mondo, che sviluppi limitatissimi ed effetti altamente selettivi. In generale gli approcci convenzionali comportano un elevato costo e una modesta consistenza quantitativa degli interventi. Inoltre, a causa della scarsa comprensione delle esigenze dei destinatari, i prodotti forniti sono spesso anche qualitativamente inadeguati. Alla radice di entrambi i limiti possiamo rilevare una diffusa incomprensione della natura dell'edilizia informale e delle caratteristiche dei suoi abitanti. A partire dagli anni settanta studiosi e operatori hanno però cominciato a mettere l'accento sulle caratteristiche 'positive' del settore informale. In precedenza gli abitanti venivano caratterizzati nei termini della specificità delle loro condizioni sociali e culturali e dei 'problemi sociali' che conseguivano dal loro 'sradicamento', causato dall'immigrazione. Ora analisi più attente mostrano che essi sono in genere inseriti in forti reti di relazioni e di istituzioni locali, dotati di capacità d'iniziativa e spesso attivi nei diversi settori dell'economia informale; in molti casi usano ampiamente l'ambiente urbano e le sue istituzioni.Gli elementi più forti di specificità riguardano proprio le condizioni abitative. Anche da questo punto di vista è però evidente che le definizioni negative (precarietà, inadeguatezza, ecc.) non sono sufficienti. Si deve dire, piuttosto, che le loro caratteristiche non corrispondono alle definizioni convenzionali dell'abitazione utilizzate dagli operatori ufficiali. Nel quadro di vita di queste popolazioni la sicurezza, la prossimità alle reti di relazione e al luogo di lavoro, l'accesso a servizi urbani come l'acqua corrente e l'elettricità sono più importanti di tratti convenzionali, come ad esempio la 'completezza' fisica dell'abitazione. La casa è un processo continuo di 'miglioramento incrementale', piuttosto che un prodotto finito. Anche la classificazione della casa come semplice bene di consumo non si adatta a queste situazioni: si tratta più spesso di un aggregato di risorse, utilizzato anche come base per attività che producono reddito (laboratorio, bottega, deposito, ecc.).
Il mutare delle definizioni rappresenta un vero e proprio mutamento di paradigma a cui corrisponde il radicale cambiamento negli atteggiamenti pratici che è alla base delle nuove politiche di self-help, che appunto negli anni settanta cominciano ad affermarsi. L'idea fondamentale rappresenta un capovolgimento dell'atteggiamento tradizionale: lo Stato deve riconoscere e valorizzare il contributo positivo dell'autocostruzione e del settore informale, incorporandoli nei programmi di edilizia pubblica e facendo della partecipazione e del self-help la base degli interventi. Ciò consente di migliorare il risultato e di estendere l'intervento a un più grande numero di famiglie. Per i governi si tratta di mettere a disposizione certe componenti del processo edilizio come il suolo, i materiali e i servizi fondamentali, contando su di una consistente partecipazione dei destinatari, i quali portano le loro risorse finanziarie, lavorative, imprenditoriali. Le strategie adottate sono di due tipi: da un lato interventi che mirano al miglioramento degli insediamenti esistenti, fornendo le infrastrutture di base e legalizzando l'occupazione del suolo (squatter upgrading); dall'altro interventi che mirano allo sviluppo di nuovi insediamenti, offrendo alle famiglie lotti dotati di servizi fondamentali a prezzi accessibili (site and services). Un bilancio di queste politiche di self-help non è ancora possibile. È evidente che diversi principî da esse introdotti - come la gradualità dell'intervento o il ricorso a un grosso numero di sussidi di piccola entità - possono aumentare le opportunità alloggiative per le popolazioni a basso reddito. È anche possibile che le capacità di costituire soluzioni attraverso le risorse informali siano state sopravvalutate.
Tra le numerose critiche rivolte ai programmi di self-help la più preoccupante riguarda le difficoltà di accesso - trattandosi ancora di programmi che richiedono costi finanziari, anche se minimi, per gli utenti - per gli strati più poveri della popolazione. In generale comunque le politiche di self-help hanno ottenuto un elevato consenso nella maggior parte dei paesi del Terzo Mondo. La loro capacità di estendere gli effetti dell'intervento pubblico e l'accento messo sulla partecipazione degli utenti ne hanno accresciuto notevolmente la popolarità. Dalla seconda metà degli anni settanta i nuovi approcci hanno ricevuto un consenso crescente da parte di governi locali e di organizzazioni internazionali, e oggi sono una componente essenziale delle politiche abitative in quasi tutti i paesi del Terzo Mondo.D'altra parte la portata innovativa dei principî ispiratori di queste nuove politiche non si limita alla loro rilevanza per affrontare i problemi del Terzo Mondo. Lo dimostra il dibattito che sul self-help si è sviluppato - con riferimento soprattutto ai lavori di J. F. Turner - anche nei paesi industrializzati. In questi paesi la crisi dei modelli e delle politiche abitative ha riproposto in termini espliciti i problemi storici portati dalla modernizzazione: quello della 'coerenza' tra bisogni abitativi e cultura moderna dell'abitare, e quello dell'adeguatezza di modi di produrre fondati sulla separazione tra produttori e abitanti. In questo quadro la critica agli approcci di tipo centralistico e l'accento sulla partecipazione dei destinatari diventano riferimenti importanti per ridefinire problemi e soluzioni. Per questo il self-help ha potuto diventare da noi metafora e modello di una possibile riappropriazione dell'abitare.(V. anche Città; Edilizia; Urbanizzazione).
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