ACATISTO
. È l'inno più celebre della chiesa bizantina, così chiamato (ἀκάθιστος "non seduto"), perché, come il Tedeum della chiesa latina, deve recitarsi in piedi. Consta di un proemio, nel quale Costantinopoli innalza alla B. Vergine, qual duce difensore, l'inno della vittoria (Τῇ υπερμάχῳ στρατηγῷ τὰ νικητήρια) e del ringraziamento, supplicandola di preservarla da ogni sorta di pericoli; e di 24 stanze (οἶκοι), ordinate alfabeticamente, terminanti alternatamente col ritornello ἀλληλούια (alleluia) e con tredici salutazioni (χαιρετισμοί), di cui l'ultima suona: χαῖρε, νύμϕη ἀνύμϕευτε (Salve, sposa non sposata). La celebrazione dell'incarnazione del Verbo è in esse collegata con le più tenere lodi alla Vergine, sì da formare un tutto d'effetto grandioso. Per la finezza dell'espressione e per la lingua armoniosa (nonostante qualche ridondanza e qualche gioco di parole ricercato), oltre che per la sua profondità mistica, l'inno acatisto è un monumento singolare in tutta la letteratura bizantina. Così si spiega come sia l'unico contacio sopravvissuto integro alla riforma della liturgia, e come conservi tuttora il suo prestigio. Infatti lo si canta in forma solenne, sia nei giorni fissati dalla consuetudine liturgica, cioè ogni venerdì sera di quaresima, e in modo più solenne e per intero, il sabato avanti la quinta domenica di quaresima, sia in circostanze particolari con speciale ufficiatura (detta ἀκολουθία τοῦ ἀκαθίστου), o in privato. L'inno ebbe quindi larga risonanza nel mondo bizantino, come attestano le numerose imitazioni liturgiche, letterarie e raffigurazioni artistiche, ed è stato tradotto in prosa e in verso nelle principali lingue.
Intorno all'età e all'autore dell'inno, furono espresse tuttavia le opinioni più diverse, che fanno oscillare la data della composizione di cinquecento anni, dalla morte di Giuliano l'Apostata (363) al regno di Michele III (842-867), e trasferiscono la paternità da Apollinario di Laodicea (sec. IV) al patriarca monotelita Sergio e a Giorgio Piside (sotto Eraclio), a Romano il Melodo (sotto Giustiniano), a Fozio, o al suo discepolo Giorgio di Nicomedia (sec. IX). Nemmeno i Bizantini erano in ciò concordi. È credenza diffusa che l'inno sia stato composto di un sol getto dal patriarca Sergio per la miracolosa liberazione di Costantinopoli dall'assedio degli Avari (7 agosto 626). Ma tale attribuzione, che aveva raccolto i suffragi di Christ, Paranikas, Pitra, Stevenson, Krumbacher, è stata poi dichiarata falsa da quest'ultimo. Del resto il Sinassario (lezione) della festa dell'Acatisto dice soltanto che l'inno fu cantato nella notte dopo la liberazione (dunque già esisteva?), e soggiunge che, a ricordo delle liberazioni successive della città dagli assalti degli Arabi sotto Costantino Pogonato nel 677 e Leone Isaurico nel 718, venne istituita la solennità dell'Acatisto. Intorno alla quale conosciamo ora una preziosa narrazione latina, conservata in un codice di Zurigo del nono secolo (C. 78), che assegna la paternità dell'inno, di cui riproduce tradotti il proemio e la prima strofa, al patriarca S. Germano per la prodigiosa cessazione dell'assedio del 718, e dichiara "che tanto da Germano quanto dai suoi successori fu istituita la lodevole consuetudine di celebrare questo trionfo ogni anno per la festa dell'Annunciazione, nella chiesa delle Blacherne: consuetudine diffusasi poi per le chiese di tutta la Grecia". Questa testimonianza esclude l'assedio di Costantinopoli da parte dei Russi nell'860, e l'attribuzione dell'inno a Fozio o a Giorgio di Nicomedia, difesa dal Papadopulos-Kerameus, ma insostenibile anche dal lato storico-letterario, perché l'acatisto rappresenta il fiorire, non la decadenza del contacio. Per ciò alcuni studiosi, come il Krypiakievicz, vollero attribuirlo a Romano il Melodo, basandosi su raffronti formali e corrispondenze dottrinali: ma la documentazione è ancora insufficiente. Anche la nota marginale di un codice di Salonicco (cod. 41 del monastero Blattadon), affermante che le strofe dell'acatisto "non sono di Sergio, ma del divino Romano il melodo", ha scarsa autorità, essendo di epoca tarda. Bisogna dunque concludere che la questione dell'Acatisto, cioè dell'origine e dell'autore dell'inno e dell'origine della festa, rimane ancora aperta.
Bibl.: Edizione principe in Poetae christiani veteres di Aldo Manuzio, Venezia 1501. Oltre che nelle varie stampe dei Menei, è stampato come opera di Giorgio Pisida in Patrologia graeca, XCII, coll. 1335-1348; come opera di Sergio in Christ-Paranikas, Anthologia graeca carminum christianorum, Lipsia 1871, pp. 140-147; in Pitra, Analecta Sacra, Parigi 1876, I, pp. 250-262, con la traduzione latina di C. Lascari. V. anche Nilles, Kalendarium manuale utriusque ecclesiae, 2ª ed., Innsbruck 1897, II, pp. 154-183; Officio dell'inno acatisto, Roma 1903 (ediz. greco-italiana); K. Krumbacher, Geschichte der byzantinischen Litteratur, 2ª ed., Monaco 1897, p. 671 seg., e in Byzantinische Zeitschrift, XIII (1904), pp. 252-254; P. De Meester, L'inno acatisto in Bessarione, s. 2ª, VI e VII, 1904-05; J. Papadopulos, Le palais et les églises des Blachernes, Atene 1928, pp. 38-42, 50-59. Quanto alle rappresentazioni figurative v. Tafrali, Iconografia Imnului Acatist in Buletinul Comisiuni Monumentilor Istorice, Bucarest VII, 1914, pp. 49-84, 127-140, 153-173, e Mélanges Schlumberger, Parigi 1924, pp. 456-461; Ch. Diehl, Manuel d'art byzantine, 2ª ed., Parigi 1926, p. 640 e passim.