Abstract
Il panorama giuridico italiano è caratterizzato dalla contemporanea presenza di tre tipologie di accesso ai documenti amministrativi, ossia l’accesso documentale (art. 22 e ss. l. n. 241/1990), l’accesso civico “semplice” (art. 5, co. 1, d.lgs. n. 33/2013) e l’accesso civico “generalizzato” (art. 5, co. 2, d.lgs. n. 33/2013). I problemi applicativi conseguenti a questa stratificazione delle figure di accesso sono numerosi. Dopo aver ricostruito la fisionomia e le caratteristiche delle tre tipologie di accesso, la voce mette in luce le relazioni che sussistono tra di essi e la possibile reductio ad unum entro il paradigma dell’accesso civico generalizzato. L’effettiva capacità attrattiva dell’accesso civico generalizzato sarà verificata impiegando come strumento d’indagine la prerogativa per antonomasia antitetica al diritto di accesso, ossia il diritto alla privacy.
Ne Il castello, l’ultimo capolavoro - rimasto incompiuto - di Franz Kafka, la pubblica amministrazione viene rappresentata come un monumentale apparato che si alimenta in forza dell’esasperata procedimentalizzazione della propria azione e della rigorosa inaccessibilità dei propri incartamenti. Grazie alla gelosa custodia dei propri segreti, l’apparato amministrativo kafkiano riesce a sfuggire ad ogni controllo democratico e, al contempo, a mantenere un carattere rigidamente sovraordinato rispetto alla platea dei cittadini, la cui pretesa conoscitiva è destinata a rimanere inappagata, così come inutili restano i tentativi del signor K. di penetrare la macchina burocratica per avere finalmente conferma della propria nomina.
Ecco perché, se si vuole assicurare effettività alla costituzione democratica dell’ordinamento, «la casa dell’amministrazione dovrebbe essere di vetro», secondo la celebre metafora coniata da Filippo Turati, a meno che un superiore pubblico interesse non imponga un momentaneo segreto.
Intesa in quest’accezione, la trasparenza assurge a valore portante dell’ordinamento, esprimendo «un modo di essere e di agire dell’amministrazione» (Arena, G., Trasparenza amministrativa, in Diz. dir. pubbl. Cassese, Milano, 2006, 5945 ss.), ossia un obiettivo da conseguire, soprattutto una volta che l’amministrazione sia intesa quale espressione della comunità stessa piuttosto che di un potere ad essa sovraordinato.
Contribuendo al superamento del carattere asimmetrico della relazione di potere tra amministrazione e cittadini, la trasparenza amministrativa si rivela lo strumento privilegiato per dare attuazione ai principi di imparzialità ed eguaglianza, favorendo l’esercizio di un controllo della rispondenza agli interessi sociali e consentendo ai cittadini una più consapevole partecipazione all’operato dei pubblici poteri (Cassese, S., Il privato e il procedimento amministrativo, in Arch. giur., 1970, 25 ss.), tanto da trasformare la democrazia in un vero e proprio «regime del potere visibile» (Bobbio, R., La democrazia e il potere invisibile, in Riv. trim. scienza e pol. amm., 1980, 181 ss). Pur condividendo la medesima esigenza sottesa di “visibilità del potere”, il principio di trasparenza non va confuso con il principio di pubblicità né con il diritto di accesso, questi ultimi potendo - piuttosto - considerarsi come strumentali alla realizzazione della massima trasparenza. È indubbio, difatti, che il diritto di accesso presenti una consistenza concettuale autonoma, soprattutto nel caso del diritto di accesso documentale ex art. 22 e ss. della l. 7.8.1990, n. 241 la cui finalità è inscindibilmente collegata ad una posizione giuridica qualificata che fa individualmente capo al soggetto istante.
Mentre nei sistemi scandinavi ed angloamericani il diritto di conoscere le informazioni in possesso delle p.a. era già da tempo riconosciuto quale espressione di una libertà fondamentale, nell’Europa continentale e nel Regno Unito il principio di trasparenza ha incontrato maggiori resistenze, inizialmente affermandosi unicamente quale strumento di garanzia del due process (in questi termini Savino, M., La nuova disciplina della trasparenza amministrativa, in Giorn. dir. amm., 2013, 795 ss.).
Abbandonata l’originaria dimensione procedurale della trasparenza, nell’arco dell’ultimo ventennio la quasi totalità di tali paesi ha espressamente riconosciuto - mediante l’adozione di Freedom of Information Acts (cd. FOIA) - il carattere eminentemente sostanziale del right to know, inteso quale strumento di controllo individuale e collettivo sull’operato dei pubblici poteri.
Al livello dell’Unione europea, il diritto di accesso ai documenti amministrativi è stato espressamente sancito dall’art. 15 TFUE, «al fine di promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile», e dall’art. 42 della Carta di Nizza, mentre le concrete modalità del suo esercizio hanno trovato una dettagliata disciplina ad opera del regolamento n. 1049/2001/CE del 30.1.2001. Allineandosi alle esperienze continentali più mature in termini di disciplina della trasparenza, anche nel diritto dell’Unione europea l’accesso ha assunto il rango di diritto individuale, riconosciuto in capo a ciascun cittadino europeo, singolarmente titolare di un right to know esteso a tutti i documenti delle istituzioni, organi ed organismi dell’Unione e scevro da qualsiasi obbligo di esplicitare le motivazioni a sostegno della propria istanza di accesso. Pur avendo carattere obbligatorio, tale pretesa cognitiva non è ovviamente “sconfinata”, dovendo conciliarsi con le altre posizioni giuridiche riconosciute dall’ordinamento europeo. Si rende, pertanto, necessario bilanciare l’interesse dell’Unione a garantire la trasparenza delle proprie azioni con i diritti riconosciuti dagli artt. 7 e 8 della Carta di Nizza relativamente al «rispetto della vita privata e della vita familiare» e alla «protezione dei dati di carattere personale», non potendo «riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell’obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali» (C. eur. dir. uomo, 8.11.2016, 18030/11, Magyar Helsinki Bizottság c. Ungheria).
Il necessario bilanciamento con le esigenze di tutela della riservatezza è stato particolarmente enfatizzato nel regolamento 2016/679/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27.4.2016, nel quale viene statuito che i dati personali contenuti in documenti ufficiali in possesso di un’autorità pubblica (ovvero di un organismo pubblico o privato per l’esecuzione di un compito svolto nell’interesse pubblico) «possono essere comunicati da tale autorità o organismo conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri cui l’autorità pubblica o l’organismo pubblico sono soggetti, al fine di conciliare l’accesso del pubblico ai documenti ufficiali e il diritto alla protezione dei dati personali» (art. 86).
In Italia, invece, solo con il d.lgs. 25.5.2016, n. 97 (cd. FOIA italiano) il legislatore ha riconosciuto la piena operatività del principio della total disclosure dell’attività amministrativa, così attribuendo ai cittadini un diritto generalizzato alla conoscenza dei contenuti dell’azione amministrativa, superando le originarie riluttanze che avevano connotato i precedenti interventi normativi in tema di trasparenza.
Nella formulazione originaria, l’art. 22 della l. n. 241/1990 ricollegava il diritto di accesso alla finalità di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale. Tale previsione è stata modificata in senso restrittivo per mezzo della l. 11.2.2005, n. 15, la quale non solo ha espunto il riferimento all’accesso come strumento di trasparenza, ma ha anche ristretto la platea degli interessati (che in origine ricomprendeva «chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti») ai soli «soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso», espressamente precisando che l’esercizio del diritto di accesso non può e non deve tradursi in un controllo diffuso da parte del cittadino sull’operato della p.a.
La l. n. 15/2005, in questo modo, ha operato una cesura netta fra accesso agli atti della p.a. e principio di trasparenza, finendo per porre l’accesso agli atti in posizione servente rispetto alla tutela di una posizione giuridica qualificata, siccome meramente strumentale all’acquisizione di una più completa rappresentazione della situazione di fatto e di diritto per la tutela di una specifica posizione giuridica qualificata (in questi termini, Galetta, D.U., La trasparenza, per un nuovo rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione: un’analisi storico-evolutiva, in una prospettiva di diritto comparato ed europeo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2016, 1019 ss.).
Nel disegno della riforma del 2005, a ben vedere, le disposizioni in materia di diritto di accesso mirano a coniugare la ratio dell’istituto - quale fattore di trasparenza e garanzia di imparzialità dell’amministrazione - con gli interessi contrapposti, bilanciando non solo la riservatezza di altri soggetti coinvolti, ma anche le esigenze di buon andamento dell’amministrazione, ritenute da salvaguardare in presenza di richieste pretestuose e defatiganti, ovvero introduttive di forme atipiche di controllo (in questi termini Cons. St., 22.4.2008, n. 1842).
Quanto alla natura della posizione giuridica del soggetto che formula l’istanza di ostensione, la questione è stata a lungo dibattuta, sia in dottrina che in giurisprudenza, dando luogo ad orientamenti eterogenei, taluni favorevoli alla qualificazione del diritto di accesso alla stregua di un vero e proprio diritto, altri invece alla sua configurazione quale interesse legittimo (per una disamina delle diverse tesi, Simonati, A., Accesso ai documenti amministrativi, in Codice dell’azione amministrativa, a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2017, 85 ss.). L’orientamento giurisprudenziale prevalente propende per la qualificazione dell’accesso quale vero e proprio diritto soggettivo, oggetto di una cognizione piena da parte del giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva (TAR Lazio, Roma, 13.11.2017, n. 11291, in pa.leggiditalia.it).
In base all’art. 22 della legge sul procedimento, il diritto di accesso richiede la titolarità di una posizione giuridica qualificata in capo al suo richiedente, individuandosi quali soggetti titolari del diritto di accesso tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento di cui è richiesta l’ostensione. Come ha già chiarito Cons. St., A.P., 24.4.2012, n. 7, ai fini dell’esercizio del diritto di accesso ex art. 22, è necessario che il richiedente intenda difendere una situazione di cui è portatore meritevole di tutela, non essendo sufficiente il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino alla legalità e al buon andamento. Del resto, che l’accesso documentale non possa essere utilizzato al solo fine di esercitare un controllo democratico sull’operato della p.a. è esplicitato a chiare lettere dal co. 3 dell’art. 24, il quale fa espresso divieto di promuovere istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle p.a. Oggetto del diritto di accesso sono i documenti comunque detenuti dall’amministrazione, anche se non siano stati formati ed utilizzati dalla stessa e anche se non relativi ad un particolare procedimento, purché si riferiscano ad attività di pubblico interesse.
Lungi dall’avere una configurazione autonoma, pertanto, l’accesso documentale costituisce una posizione giuridica geneticamente strumentale, la quale è riconosciuta ad un soggetto che sia già titolare di una diversa situazione giuridicamente tutelata e che abbia, in collegamento a quest’ultima, un interesse diretto, concreto ed attuale ad acquisire mediante accesso uno o più documenti amministrativi. Attesa la sua configurazione, il diritto di accesso non può costringere l’amministrazione ad un’intensa attività di ricerca e di elaborazione di dati, con la conseguenza che la richiesta di accesso non può essere generica, eccessivamente estesa e riferita ad atti non specificamente individuati (TAR Lazio n. 11291/2017; TAR Emilia Romagna, Bologna, 4.4.2016, n. 366, in pa.leggiditalia.it).
È escluso l’accesso per alcune categorie di atti, come i documenti coperti da segreto, per tutelare gli interessi politici, interni ed internazionali, la sicurezza e l’integrità dello Stato, ovvero quando il divieto di divulgazione sia previsto da norme di legge, ovvero ancora nei procedimenti tributari, concorsuali (ove contengano informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi) e in quelli finalizzati all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione. È consentita alle amministrazioni la facoltà di individuare ulteriori categorie di atti sottratti all’accesso e al Governo di prevedere mediante l’adozione di un apposito regolamento ipotesi generali al riguardo.
Ancorché l’accesso documentale assurga a regola generale dell’attività amministrativa, idonea a fondare - in capo al soggetto titolare di un interesse qualificato - un vero e proprio diritto all’esibizione della documentazione richiesta, esso incontra precisi limiti allorché la domanda di accesso risulti incompatibile con altri interessi tutelati dall’ordinamento (per un inquadramento, sia giurisprudenziale che di dottrina, si rinvia a Alberti, P., I casi di esclusione dal diritto di accesso, in Codice dell’azione amministrativa, cit., 1290 ss.).
L’art. 24 definisce in modo stringente le ipotesi di esclusione dell’accesso ed individua i limiti all’accesso ed i criteri per il bilanciamento fra gli opposti interessi. Tra di essi figura l’interesse alla riservatezza dei soggetti controinteressati, il quale si pone in un rapporto di fisiologica antitesi rispetto alla prerogativa di accesso. Il contemperamento tra accesso e riservatezza risulta particolarmente problematico ove si consideri che accesso e riservatezza traggono ambedue fondamento da due prerogative costituzionali, ossia il principio di trasparenza ed imparzialità della p.a. (art. 97 Cost.) ed il diritto di non vedere divulgati fatti inerenti alla propria sfera individuali (riconducibile all’art. 2 Cost.). Esclusa la possibilità di individuare una gerarchia tra le due posizioni soggettive, il punto di equilibrio va necessariamente trovato attraverso un’indagine del caso concreto che verifichi, nella specifica fattispecie, le implicazioni connesse al riconoscimento di preferenza all’una ovvero all’altra prerogativa.
La disciplina che si ricava dal combinato disposto degli artt. 59 e 60 del d.lgs. 30.6.2001, n. 196 (c. privacy) con l’art. 24, co. 7, in via generale, delinea tre livelli di protezione dei dati dei terzi, a cui corrispondono tre gradi di intensità della situazione giuridica che il richiedente intende tutelare con la richiesta di accesso (in questi termini Zerman, P.M., La trasparenza della p.a. tra accesso e privacy nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, in giustizia-amministrativa.it, 2011). Il livello di protezione più elevato è riservato ai dati cd. super-sensibili (stato di salute e vita personale), il trattamento dei quali è consentito, giusta il disposto dell’art. 60 c. privacy, solo se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale ed inviolabile.
Di poco inferiore è la protezione accordata ai dati sensibili, ossia quei dati idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche, le opinioni politiche o l’appartenenza a organizzazioni o associazioni (art. 4, co. 1, lett. c, d.lgs. n. 196/2003), l’accesso ai quali è consentito solo nei limiti in cui sia strettamente indispensabile per curare o difendere i propri interessi giuridici. Al terzo livello di intensità si pone la protezione dei dati comuni (art. 4, co. 1, lett. b), l’accesso ai quali è consentito ove la conoscenza sia necessaria per la difesa dei propri interessi.
Affermata in via di principio la primazia dell’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere propri interessi, viene previsto nel sistema così delineato un bilanciamento secondo cui - ove ricorra un conflitto concreto - tanto più elevato è il grado di personalità dei dati, quanto maggiore è il margine di discrezionalità dell’amministrazione ai fini del contemperamento degli opposti interessi.
Specularmente all’introduzione in capo alla p.a. di un’ampia gamma di obblighi di pubblicazione, il d.lgs. 14.3.2013, n. 33 ha codificato, al co. 1 dell’art. 5, un diritto generale («di chiunque») all’accesso agli atti ed ai documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria da parte dell’amministrazione, finalizzato ad assicurare quelle «forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche» cui l’art. 1 ricollega la stessa finalità essenziale del principio di trasparenza (sulla natura e le caratteristiche dell’istituto v. Canaparo, P., La via italiana alla trasparenza pubblica: il diritto di informazione indifferenziato e il ruolo proattivo delle pubbliche amministrazioni, in Federalismi.it, 2014, n. 4, 19.2.2014, 1 ss.).
Emerge nondimeno con chiarezza l’irriducibilità dell’accesso civico all’accesso documentale ex art. 22 - pur condividendo il medesimo tipo di tutela processuale (ossia il rito ex art. 116 c.p.a.) - per cui ciò che rileva non è l’elemento soggettivo ai fini dell’azionabilità della pretesa all’accesso, ossia il vantare una situazione giuridica soggettiva tutelata, bensì quello oggettivo, consistente nel fatto che il dato/documento rientri o meno tra quelli per cui è previsto un obbligo di pubblicazione (Sottile, E., La nuova tipologia di accesso civico: (finalmente) il pieno riconoscimento del diritto alla conoscibilità delle informazioni pubbliche, in La trasparenza delle pubblica amministrazione, a cura di P. Canaparo, Roma, 2016, 66 ss.), senza che si renda neppure necessario operare un bilanciamento con altri interessi potenzialmente confliggenti.
La non sovrapponibilità tra i due istituti è stata rimarcata, altresì, dalla giurisprudenza amministrativa (v. ex multis TAR Veneto, 23.11.2016, n. 1290, in giustizia-amministrativa.it), che ha sottolineato come le nuove disposizioni introdotte con il d.lgs. n. 33/2013, in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte della pubblica amministrazione regolino situazioni non ampliative, né sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi ai sensi dell’art. 22, «operando i due istituti su piani distinti ed avendo diversi presupposti e disciplina». In presenza di un obbligo di pubblicazione rimasto inottemperato da parte dell’amministrazione, deve quindi riconoscersi una facoltà di scelta da parte del soggetto privato se attivare il rimedio previsto dall’art. 22 (ma solo in presenza di un interesse concreto ed attuale) ovvero (anche in assenza di una posizione giuridica differenziata) il rimedio dell’accesso civico, secondo standard predefiniti dalla stessa normativa e senza limitazioni di carattere temporale.
Nonostante la novella normativa abbia il pregio di slegare il diritto all’accesso da una posizione giuridica soggettiva qualificata e da un obbligo di motivazione, tale prerogativa lungi dall’avere portata generale resta pur sempre limitata a «i documenti, le informazioni, e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente», essendo effettivo ed azionabile solo se e nella misura in cui la pubblicità sia imposta dalla legge, e salvi i casi in cui la decisione di pubblicazione sia rimessa alla discrezionalità della stessa amministrazione (art. 4).
Se il right to know diviene effettivo a tali condizioni (ossia nei limiti in cui l’obbligo di pubblicità sia imposto dalla legge), esso finisce per operare come una regola di stretto diritto positivo, a dispetto del dichiarato intento del legislatore di assicurare forme diffuse di controllo sull’operato della p.a. A differenza della maggior parte dei sistemi che si ispirano al modello cd. FOIA, nel sistema delineato dal d.lgs. n. 33/2013 si determina una vera e propria inversione del rapporto tra il mezzo (l’obbligo di pubblicazione) ed il fine (il diritto di accedere all’informazione) (Savino, M., op. loc. ultt. citt.), divenendo l’accesso strumentale all’effettivo adempimento di un obbligo di pubblicazione gravante sull’amministrazione in base ad una norma di diritto positivo. È messa così in evidenza la distanza che separa l’accesso civico di cui all’art. 5, co. 1, d.lgs. n. 33/2013 dai sistemi FOIA: mentre in questi ultimi il right to know assurge a diritto fondamentale del cittadino, nel sistema italiano tale diritto rimane pur sempre octroié (Savino, M., op. loc. ultt. citt.), garantito solo se e nella misura in cui il legislatore lo riconosca per gentile concessione.
Entro il contesto della più ampia riforma della p.a., in attuazione della delega contenuta nella l. 7.8.2015, n. 124, il Governo ha emanato il d.lgs. 25.5.2016, n. 97 (cd. FOIA italiano) con cui è stata modificata, semplificandola in modo sostanziale, la disciplina in materia di trasparenza contenuta sia nel d.lgs. n. 33/2013 che nella l. 6.11.2012, n. 190.
La novità più rilevante senza alcun dubbio è rappresentata dall’introduzione di una forma di accesso civico “generalizzato” (art. 5, co. 2, d.lgs. n. 33/2013), che viene ad affiancarsi all’accesso civico “semplice”, nonché all’accesso documentale, essendo diversi i presupposti che ne disciplinano il funzionamento.
Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle p.a., ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del predetto decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall’art. 5 bis.
Analogamente all’accesso civico originario, anche quello generalizzato è configurabile come un diritto “a titolarità diffusa” (Anac, delibera n. 1309 del 28.12.2016 recante linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del d.lgs. 33/2013), potendo essere attivato da chiunque senza obbligo di motivazione ed indipendentemente dalla situazione soggettiva sottostante alla richiesta. Tuttavia, a differenza del primo - il quale resta pur sempre circoscritto ai soli atti, documenti ed informazioni oggetto di uno specifico obbligo di comunicazione -, l’accesso civico generalizzato, ed è questo l’elemento di novità più dirompente, integra uno strumento del tutto autonomo rispetto ai predetti obblighi di comunicazione, essendo espressione di una prerogativa soggettiva che incontra gli unici limiti previsti dal successivo art. 5 bis. Sarà l’amministrazione a dover valutare «se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche delle peculiarità della posizione legittimante del richiedente» (Cons. St., 12.8.2016, n. 3631).
L’istituto dell’accesso civico generalizzato mette in evidenza come lo scopo della normativa in materia di trasparenza non sia più quello di ottenere la pubblicazione di documenti in possesso della p.a., quanto piuttosto di garantire la libertà di accesso a dati e documenti da essa posseduti, in primo luogo tramite l’accesso civico e, solo in subordine, tramite la pubblicazione di documenti, informazioni e dati (Galetta, D.U., op. loc. ultt. citt.). A cambiare, quindi, è la natura stessa dell’accesso civico: da mera sanzione rispetto alla violazione dell’obbligo primario di pubblicare documenti, informazioni o dati, l’accesso civico assurge ad autonomo diritto, esercitabile in funzione di soddisfare un’esigenza di conoscenza individuale e neppure necessariamente qualificata.
Ciò dimostra un radicale mutamento di prospettiva rispetto alla concezione di trasparenza sottesa al d.lgs. n. 33/2013 ante riforma: in adesione al modello FOIA largamente prevalente, sia in Unione europea che in altri ordinamenti liberal-democratici, oltre che in numerose organizzazioni internazionali, la nuova disciplina fonda un generale right to know in capo al cittadino rispetto al quale gli obblighi di pubblicazione rivestono una funzione solo strumentale (Savino, M., Il FOIA italiano. La fine della trasparenza di Bertoldo, in Giorn. dir. amm., 2016, 593 ss.).
La regola della total disclosure è temperata, tuttavia, dalla previsione di un catalogo di eccezioni - alcune assolute, altre relative - poste a tutela di interessi pubblici e privati che potrebbero subire un pregiudizio dalla diffusione generalizzata delle informazioni oggetto della domanda di accesso. Al di fuori dei casi di divieto di accesso già previsti dalla legge, esso può essere limitato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di un interesse pubblico inerente: a) la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico; b) la sicurezza nazionale; c) la difesa e le questioni militari; d) le relazioni internazionali; e) la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato; f) la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; g) il regolare svolgimento di attività ispettive. Ai sensi del successivo co. 2, poi, l’accesso civico generalizzato può essere altresì rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di interessi privati, come la protezione dei dati personali, la libertà e la segretezza della corrispondenza, gli interessi economici e commerciali, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d’autore e i segreti commerciali (art. 5 bis).
Com’è evidente, il catalogo di eccezioni è particolarmente ampio, oltre che definito in modo poco puntuale, con il conseguente rischio di neutralizzare la portata innovativa dell’istituto e attribuire all’amministrazione intimata un margine di discrezionalità per valutare (ed eventualmente disattendere) la richiesta di accesso.
Tale profilo non è sfuggito al Consiglio di Stato che - nel parere reso sullo schema del d.lgs. n. 97/2016 - ha posto in luce come le numerose e non sempre puntuali eccezioni previste, a tutela di interessi pubblici e privati, all’obbligo di disclosure dal nuovo articolo 5 bis, «seppur evidentemente contrassegnate da finalità compensative a fronte della potenziale ampiezza degli ambiti dell’accesso civico, possono ragionevolmente aumentare le perplessità circa la concreta efficacia del provvedimento in esame. In mancanza di criteri più dettagliati per la valutazione del pregiudizio che la pubblicazione potrebbe arrecare agli interessi tutelati, le amministrazioni, infatti, potrebbero essere indotte ad utilizzare la propria discrezionalità nella maniera più ampia, al fine di estendere gli ambiti non aperti alla trasparenza» (14.9.2016, n. 1920).
Al fine di assicurare una tassonomia più accurata, il legislatore ha affidato all’Autorità nazionale anticorruzione, d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali, il compito di adottare linee guida concernenti le esclusioni e i limiti al diritto di accesso. Con l’adozione della delibera n. 1309 del 28.12.2016, contenente linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del d.lgs. 33/2013, l’Anac ha posto a carico dell’amministrazione intimata un onere valutativo (e motivazionale) di carattere stringente, imponendo di verificare la sussistenza di un preciso nesso di causalità tra l’accesso ed il pregiudizio ad uno degli interessi indicati dal legislatore. Di conseguenza, l’amministrazione procedente non può limitarsi a prefigurare il rischio di un pregiudizio in via generica ed astratta, bensì essa deve: a) indicare chiaramente quale, tra gli interessi elencati dall’art. 5 bis, co. 1 e 2, sarebbe suscettibile di essere pregiudicato; b) valutare se il pregiudizio concreto prefigurato dipende direttamente dalla disclosure dell’informazione richiesta; c) valutare se il pregiudizio conseguente alla disclosure sia un evento altamente probabile e non solo meramente possibile.
Nonostante lo sforzo dell’Autorità di perimetrare con maggiore nettezza il catalogo delle esclusioni e dei limiti all’accesso e aldilà di alcune linee di indirizzo programmatiche, il sistema sembra restare contrassegnato da un elevato tasso di discrezionalità amministrativa nella valutazione delle sussistenza o meno di ragioni ostative all’accesso, con il rischio «di una valutazione (ampiamente) discrezionale, se non libera, di un funzionario, costretto a compierla in tempi strettissimi e in mancanza della guida sicura e affidabile di paradigmi normativi cogenti e precisi» (Deodato, C., La difficile convivenza dell’accesso civico generalizzato (FOIA) con la tutela della privacy: un conflitto insanabile?, in giustizia-amministrativa.it, 20.12.2017).
La ponderazione si rivela tanto più delicata una volta che si consideri che vengono a confrontarsi due posizioni giuridiche contrapposte - il right to know in funzione di controllo democratico e il diritto alla privacy - ambedue meritevoli di tutela e che siffatto apprezzamento concreto deve tenere conto sia della consistenza degli interessi privati coinvolti, che della posizione (pubblica o meno) ricoperta dal controinteressato attraverso un giudizio di tipo prognostico in ordine al pregiudizio concreto arrecato alla sfera della riservatezza. Come osservato (Galetta, D.U., Accesso (civico) generalizzato ed esigenze di tutela dei dati personali ad un anno dall’entrata in vigore del Decreto FOIA: la trasparenza de “le vite degli altri”?, in Federalismi.it, 2018, n. 10, 9.5.2018, 17 ss.), la scelta di rinunciare all’adozione di norme di maggior dettaglio non può considerarsi una scelta neutra, bensì fa sorgere il dubbio che l’intento sotteso sia stato quello di lasciare mano libera all’amministrazione, sottraendone la relativa attività all’invasivo sindacato del giudice amministrativo, necessariamente più blando in assenza di parametri normativi stringenti.
Sotto altro profilo, a più riprese il Garante per la protezione dei dati personali ha posto in luce i rischi connessi alla generalizzazione del diritto di accesso, il quale potrebbe essere impiegato non per finalità di controllo democratico, bensì al solo fine di soddisfare un bisogno di carattere esclusivamente «privato, individuale, egoistico o utilitaristico» (Tessaro, T.-Bertin, M., Accesso civico e finalità “esorbitanti” dalla richiesta di ostensione: una prima indagine casistica per la necessaria distinzione con l’accesso documentale, in lexitalia.it, 20.3.2018), con conseguente possibilità di abuso del diritto (Berti, A., Note critiche sulla “funzionalizzazione” dell’accesso civico generalizzato, in giustizia-amministrativa.it, 11.5.2018).
Per prevenire tali rischi il Garante ritiene pur sempre necessaria ed imprescindibile da parte dell’autorità una verifica che l’accesso abbia effettivamente una rilevanza conoscitiva e non sia confinato a soddisfare un bisogno di conoscenza privo di rilevanza “politica”, intesa nel senso più ampio del termine. Se un favore andrà riconosciuto nell’applicazione dell’istituto ai portatori di interessi collettivi e diffusi in ragione della funzione da essi svolta, un netto disfavore viceversa dovrà essere addebitato alle imprese private il cui oggetto sociale ad esempio consista nell’attività di telemarketing, trattandosi di un elemento sintomatico della finalità strettamente commerciale dell’istanza di accesso e della sua incoerenza rispetto alla ratio dello strumento (parere del Garante per la protezione dei dati personali, 10.8.2017, n. 360).
Secondo l’Autorità garante, un test sulla effettiva finalità civica dell’istanza si renderebbe necessario tanto più ove si consideri il regime di pubblicità cui soggiacciono i dati e i documenti ricevuti a seguito di una istanza di accesso civico, essendo previsto che «tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di accesso civico … sono pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, e di utilizzarli e riutilizzarli ai sensi dell’articolo 7», sebbene il loro ulteriore trattamento vada in ogni caso effettuato nel rispetto dei limiti derivanti dalla normativa in materia di protezione dei dati personali (art. 3, co. 1, d.lgs. n. 33/2013).
Nonostante abbia il pregio di porre in evidenza le criticità connesse con una total disclosure sregolata, questa ricostruzione del Garante per la protezione dei dati personali si scontra con un dato normativo incancellabile, ossia che l’accesso civico generalizzato spetta a chiunque, «indipendentemente dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti» (art. 7, co. 1, lett. h, l. n. 124/2015) e che esso non è «sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente» (art. 5, co. 3, d.lgs. n. 33/2013), oltre al fatto che l’istanza di accesso civico generalizzato non richiede una motivazione, con conseguente impossibilità/illegittimità di qualsiasi vaglio sulle ragioni a fondamento della pretesa di accesso.
Proprio prendendo le mosse dal dato normativo, del resto, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che l’interesse conoscitivo è destinato a prevalere sulla tutela dei dati personali ogniqualvolta le informazioni richieste rientrino oggettivamente nell’ambito di quel controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, con la precisazione che «l’indagine sulle reali motivazioni del richiedente l’accesso civico generalizzato esuli dai compiti attribuiti al Comune che deve limitarsi a verificare che non ricorrano casi di esclusione previsti dalla legge» (TAR Campania, Napoli, 22.12.2017, n. 6028, in pa.leggiditalia.it). Senza considerare, peraltro, che la verifica sull’effettiva funzionalizzazione dell’accesso civico rischierebbe di implementare pericolosamente i margini della discrezionalità amministrativa, la quale si troverebbe onerata del compito di verificare l’effettiva meritevolezza della pretesa conoscitiva.
Esclusa la possibilità di un vaglio sulla meritevolezza della pretesa cognitiva del richiedente, a maggior ragione risalta la necessità che l’amministrazione operi un’attenta ponderazione degli interessi in gioco alla luce della possibilità di pregiudizio concreto ad uno degli interessi contemplati nel catalogo dell’art. 5 bis, il quale funge - a ben vedere - quale unico contro-limite all’irrilevanza delle finalità e delle effettive motivazioni sottese all’istanza.
In assenza di precisi indici normativi, il criterio per la ponderazione concreta degli interessi in gioco non può che essere il principio di proporzionalità, onde verificare l’effettiva assenza di alternative comportanti un minore sacrificio di tali interessi (criterio di necessità) nonché ponderare il beneficio conseguente all’accoglimento dell’istanza di accesso rispetto al sacrificio causato agli interessi secondari e/o agli interessi privati contrapposti e concretamente in gioco (criterio di stretta proporzionalità).
Il panorama giuridico italiano è ad oggi caratterizzato dalla contemporanea presenza di tre tipologie distinte di accesso, che rischiano di sovrapporsi l’una sull’altra. Sulle spalle dell’accesso classico di tipo difensivo e sull’impianto degli obblighi di pubblicazione senza riscrivere ex novo un codice della trasparenza muovendo dai sistemi FOIA prevalenti in altri ordinamenti o presso le organizzazioni internazionali, è stato innestato un diritto di accesso civico individuale, determinando così un effetto “millefoglie” (Gardini, G., Il paradosso della trasparenza in Italia: dell’arte di rendere oscure le cose semplici, in Federalismi.it, 2017, n. 1, 11.1.2017, 7 ss.).
I problemi applicativi conseguenti a tale stratificazione delle tipologie di accesso sono numerosi. Eppure, allo stesso tempo, non è chiaro nemmeno se sia auspicabile la progressiva attrazione dell’accesso documentale entro il paradigma dell’accesso civico generalizzato, il quale andrebbe ad assumere la fisionomia di una prerogativa di accesso bonne à tout faire.
Un utile banco di prova su cui misurare l’effettiva capacità di attrazione del diritto di accesso documentale entro il paradigma dell’accesso civico generalizzato è proprio la sfera della riservatezza, considerato il suo carattere fisiologicamente antitetico. L’accesso civico, difatti, non può che arrestarsi in presenza di una concreta lesione alla sfera personale, non potendo tale interesse conoscitivo comprimere un valore di rango superiore quale è il diritto alla riservatezza, data la sua funzione di controllo generalizzato sull’operato dell’amministrazione (e non dei cittadini).
Per tale ragione il diritto individuale all’informazione amministrativa non potrà che essere tutelato entro i limiti e le finalità che gli sono proprie, ossia la conoscenza dei dati che riguardano la p.a., essendo riconosciuto in capo ai cittadini per consentire un controllo democratico sull’operato della p.a., e non certo per conoscere informazioni riguardanti i privati.
Ben diverso, invece, è il caso del diritto di accesso documentale che nasce proprio in funzione di tutela di interessi individuali e personali, e non già per salvaguardare il corretto esercizio della funzione amministrativa. Di talché, nel caso di un contrasto tra accesso documentale e diritto alla privacy, viene ad aprirsi un conflitto tra due diritti volti entrambi alla tutela di un interesse personale, in cui il secondo è destinato a soccombere qualora la pretesa conoscitiva riguardi dati personali comuni necessari ai fini della tutela in giudizio di altri interessi. Mentre, nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso documentale è consentito nei limiti in cui esso sia effettivamente indispensabile, laddove va operato un bilanciamento tra diritti di pari rango in caso di interessi super-sensibili.
Non sembrano esserci, in conclusione, le condizioni per una “confusione” degli istituti all’interno di una compagine comune. Né andranno confuse le tipologie di accesso, attesa la differente capacità “penetrativa” e di atteggiarsi rispetto al tema della riservatezza. Come sottolineato dall’Anac nelle linee guida in materia di accesso civico, tenere ben distinte le due fattispecie è essenziale per calibrare i diversi interessi in gioco allorché si renda necessario un bilanciamento caso per caso tra tali interessi. Tale «bilanciamento è ben diverso nel caso dell’accesso 241 dove la tutela può consentire un accesso più in profondità a dati pertinenti e nel caso dell’accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità (se del caso, in relazione all’operatività dei limiti) ma più esteso, avendo presente che l’accesso in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione) di dati, documenti e informazioni» (Anac, delibera 28.12.2016 n. 1309).
Se tuttavia l’accesso documentale non sembra destinato a “scivolare” verso il paradigma dell’accesso civico - essendo diversa sia la funzione che i presupposti applicativi - al contempo il primo può operare come una sorta di accesso “di secondo grado”, ove la domanda previamente formulata alla stregua di una richiesta di accesso civico generalizzato venga ad essere respinta, sempre a condizione, beninteso, che il soggetto titolare sia in grado di vantare una posizione giuridica qualificata rispetto al documento di cui si chiede l’ostensione. Qualora non sussistano i presupposti per concedere l’accesso civico - in particolare perché potrebbe derivarne un pregiudizio concreto ed estremamente probabile alla tutela dell’interesse alla protezione dei dati personali dei controinteressati -, resta pur sempre la possibilità per l’istante di accedere alla documentazione richiesta, anche con i dati personali in chiaro, mediante la proposizione di un’istanza di accesso documentale, questa volta previa dimostrazione del possesso di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento da mostrare (parere del Garante per la protezione dei dati personali, 10.8.2017, n. 360).
Nonostante le aporie e le questioni che restano aperte, è indubbio che il paradigma dell’accesso civico generalizzato rappresenti una spinta decisiva a dischiudere le porte del “castello amministrativo” - per tornare all’immagine kafkiana - definitivamente consacrando la volontà di sapere del cittadino a vero e proprio diritto. Eppure, in assenza di una rete di regole certe e di un’adeguata capacità amministrativa nella gestione delle istanze, il regime di total disclosure è suscettibile di determinare una non giustificata interferenza nei diritti e nelle libertà dei cittadini. L’accessibilità totale agli atti e alle informazioni in possesso delle p.a. non può insomma essere declinata senza una proporzionata protezione delle informazioni personali da un’eccessiva invasione della sfera di riservatezza delle persone coinvolte, in particolare in un contesto storico-tecnologico in cui la privacy appare sempre più indifesa e confinata in spazi angusti.
Dall’esame dei pareri rilasciati dal Garante per la protezione dei dati personali emerge, in effetti, come sovente la richiesta di accesso civico generalizzato non sia affatto finalizzata ad un controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali, quanto piuttosto miri a soddisfare un interesse conoscitivo meramente individuale o addirittura utilitaristico del richiedente. Il rischio concreto è che da strumento partecipativo al servizio dei cittadini, l’accesso civico generalizzato si presti ad essere impiegato quale mezzo di controllo dei dipendenti pubblici e dei soggetti privati che interagiscono con l’amministrazione, ponendosi al servizio di una volontà di sapere priva di un’effettiva dignità civica.
Fonti normative
Artt. 2, 97 Cost.; d.lgs. 25.5.2016, n. 97; artt. 3, 5, 5 bis d.lgs. 14.3.2013, n. 33; artt. 59, 60 d.lgs. 30.6.2001, n. 196; artt. 22, 24 l. 7.8.1990, n. 241.
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