ACCIAIUOLI
. Famiglia originaria di Bergamo, si trasferì, con Guigliarello o Guigliadello, a Firenze, nei primi del sec. XII; e prese stanza nel Borgo Ss. Apostoli, dove continuò ad avere case e palazzi nei secoli successivi, essendo i suoi membri registrati a prestanza nel quartiere di S. Maria Novella, nel gonfalone della Vipera. Gli A. appartennero al partito guelfo, e, quando questo si scisse, seguirono i Neri. Sulla fine del '200, Leone di Riccomanno, dei primi priori nel 1282, fondò la compagnia mercantile che da lui prese nome, e salì a rapida fortuna, raggiungendo il culmine nei primi decennî del '300. Come le consorelle fiorentine, essa stabilì succursali nei centri principali del traffico mondiale, ad Avignone, a Parigi, a Bruges, a Londra, a Chiarenza, a Tunisi; e, oltre a fare operazioni di commercio, prestò a interesse a grandi feudatarî, ad alti dignitarî ecclesiastici, a monasteri e anche a sovrani, che attinsero largamente da quelle casse. La sua attività si svolse in modo particolare nel Mezzogiorno d'Italia, dove gli A. si stabilirono con gli Angioini, e si affermarono per il crescente bisogno di danaro di quei principi nelle lotte contro gli Aragonesi. Furono perciò ben visti dai pontefici, che fecero di essi i loro banchieri - campsores - e affidarono loro, talvolta in unione con le compagnie associate dei Bardi e dei Peruzzi, la riscossione delle imposte sul clero e dei tributi corrisposti dai principi. La fortuna della compagnia a Napoli cominciò con Acciaiuolo, padre del gran siniscalco Niccolò (v.), che, ai primi del '300, salito grandemente nel favore del re, fu nominato suo ciambellano e consigliere, non che vicario regio di Prato in Toscana: ufficio lucroso da cui ritraeva annualmente un provento di 10.000 fiorini d'oro. In restituzione degl'ingenti mutui concessi, gli A. ebbero il diritto di riscossione dei dazî, e agevolazioni di ogni sorta nel commercio dei tessuti e delle granaglie: il quale ultimo può dirsi che diventasse quasi loro monopolio. Oltre che ai re Angioini e ai papi, prestarono anche all'ordine dei Gerosolimitani, che li indusse a porre una succursale in Rodi, divenuta in breve tempo una delle principali, per essersi dedicata anche all'industria delle essenze dei fiori, coltivati in appositi giardini e serre.
Gli A., impegnati con i Bardi e con i Peruzzi nei finanziamenti delle guerre di Edoardo III d'Inghilterra, e indeboliti dallo sforzo pecuniario per aiutare il comune fiorentino nelle infelici guerre per il possesso di Lucca - guerra di Lombardia, contro Mastino della Scala e contro Pisa - furono coinvolti nei grandi fallimenti del 1345, e si trovarono in una condizione particolarmente sfavorevole per avere tra i loro creditori in prevalenza alti prelati e, comunque, persone di chiesa, le quali, forti dei loro tribunali speciali, non vollero accettare le decisioni dei sindaci nominati dalla signoria per curare il fallimento. Proprio per questo, il "cessare" degli A. non ebbe soltanto imponenti ripercussioni nel campo economico, ma determinò anche, a Firenze, un grave conflitto fra lo Stato e la Chiesa, poiché il comune fu costretto a intervenire nell'interesse dei falliti, identificato con quello della città, cui sarebbe stata fatale una maggiore carestia di danaro, quando le poche somme rimaste avessero esulato per soddisfare al cento per cento i creditori di Roma e di Avignone. Con il concordato del 23 marzo 1345, si pattuì che la compagnia in liquidazione avrebbe corrisposto 10 soldi per lira, cioè il cinquanta per cento, entro un determinato tempo, per aver modo di realizzare i crediti soprattutto all'estero; il 2 aprile successivo, una legge stabilì l'immunità dei cittadini di fronte alle giurisdizioni estranee e specialmente ai tribunali ecclesiastici, e, per vigilare all'osservanza della provvigione, fu in seguito creato l'ufficio dei "quattordici difensori della libertà". Nel marzo 1346, avendo la Signoria negato l'aiuto del braccio secolare all'inquisitore dell'eretica pravità, Pietro dell'Aquila, e avendo punito i famigli del podestà che, da lui sollecitati, avevano tratto in arresto un socio degli Acciaiuoli per un grosso debito della casa verso il cardinale Pietro Gomez vescovo di Sabina, il prelato scomunicò i priori, e colpì la città con un interdetto, dal quale fu assolta, soltanto dopo un anno, da Clemente VI. Come la compagnia degli A. si trovò al centro della questione, così un membro di quella famiglia, Angelo, vescovo di Firenze, ebbe una parte notevolissima nello sviluppo della controversia. Quell'astutissimo prelato, che aveva favorito la tirannide del duca d'Atene "per li suoi consorti, per non essere costretti a pagare"; che aveva saputo afferrare le redini dello stato dopo la cacciata del Brienne, salvando di nuovo i famigliari parteggianti fino all'ultimo per l'odiato signore; accettò, senza protestare, la legge contro i fòri privilegiati, non osservò né fece osservare l'interdetto, si rese complice dei reggitori del comune, che insieme con lui furono accusati e chiamati a scolparsi dinnanzi alla curia pontificia. Solo nel 1355, quando, terminata la liquidazione della compagnia, si vollero inserire le leggi contro il clero nello statuto podestarile, il vescovo Acciaiuoli si ricordò bene della sua dignità, e con l'arma dell'interdetto impose la revoca delle disposizioni. Come dal vescovo Angelo, gl'interessi della casa furono sempre sostenuti in Comune da rappresentanti della famiglia che ricoprirono alte cariche nel reggimento dello stato. Dal 1282 al 1341, gli A. ebbero 28 priori e 7 gonfalonieri di giustizia, 4 gonfalonieri delle compagnie, 5 buoniuomini, 3 consoli dell'Arte di Calimala.
Nelle lotte fra Albizzi e Medici, nelle quali si spense la libertà comunale di Firenze, gli A. parteggiarono per i secondi, tranne qualche membro della famiglia che si schierò contro il potente Maso, congiurando per ottenere l'abolizione dell'istituto dell'ammonizione. Fra questi pochi, Donato di Jacopo, esiliato nel 1396. Un altro A., Agnolo di Jacopo di Donato, partecipò, più tardi, per rancori privati, alla congiura di Luca Pitti, e si ebbe egli pure il confino con tutti i suoi figli, perdonati poi e richiamati in patria. In compenso della loro devozione, i Medici elevarono molti degli A. alle dignità di consigliere e di senatore: dignità che non mancarono neppure al tempo dei Lorena, quando, tuttavia, la storia della famiglia Acciaiuoli non ha più, nella politica fiorentina, particolare rilievo.
È tuttavia da segnalare la sua importanza sotto altri aspetti. Fra gli A., la storia ricorda il cardinale Angelo (1349-1408) creato cardinale e arcivescovo di Firenze da Urbano VI, ch'egli sostenne contro l'antipapa Clemente VII, come poi agevolò l'elezione di Bonifacio IX, che lo impiegò in importanti missioni; fu tutore di Ladislao e governatore del regno di Napoli; rappacificò gli Orsini con il papa. Rammentiamo Donato (v.), i neoplatonici Angelo, Iacopo, Neri, Piero e il domenicano Zenobio (v.). Nel sec. XVII e nel XVIII, Filippo, poeta drammatico e musicista, i cardinali Niccolò (1630-1719), legato pontificio a Ferrara e cardinale vescovo di Ostia; e Filippo (1760), nunzio a Lisbona. L'ultimo ramo della famiglia si estinse in Nicola Diacinto di Diacinto Emanuele e di Maria Anna Acciaiuoli, nato a Firenze nel 1753, morto a Venezia nel 1834. La sorella di Nicola Diacinto, Giulia Francesca, era entrata a far parte della famiglia Ricasoli, sposando il cav. priore Giovanni del cav. Giovan Francesco; ed era morta nel 1786.
Dalla succursale della compagnia stabilitasi a Napoli nel Trecento, ebbe inizio la fortuna politica degli A. nel regno e poi in Grecia. In compenso di aver fatte le spese della spedizione del conte Giovanni di Gravina, fratello di Roberto re di Napoli, che voleva rivendicare a sé il principato di Acaia, gli A. avevano avuto alcune terre a titolo di feudo. Più tardi, alla morte del gran siniscalco Niccolò, Ranieri di Jacopo suo nipote, che da lui ereditò la signoria di Corinto, s'impadronì con le armi di Tebe, Argo, Micene, Sparta, e di Atene, di cui si fece primo duca. Privo di prole maschile legittima, diede la primogenita in sposa a Teodoro Paleologo, figlio dell'imperatore greco, e le assegnò in dote Corinto; lasciò Tebe al suo figlio naturale Antonio; restituì Atene ai sovrani di Napoli. Antonio, con l'aiuto dei Veneziani, riprese la capitale greca, che arricchì, dal 1403 al 1435, di importanti lavori pubblici e di opere notevoli di abbellimento, tra le quali i due leoni posti all'entrata del porto del Pireo (chiamato appunto Porto Leone), più tardi asportati e collocati dai Veneziani sulla porta esterna del loro arsenale. Ranieri II, cugino di Antonio, governò poi fino al 1451, salvo l'intervallo dal 1439 al 1441, quando fu cacciato dal fratello Antonio (Antonio II). Alla morte di Ranieri, la corona ducale passò al figlio minorenne Francesco, sotto la tutela della madre Chiara Giorgi, che offerse mano e ducato a Bartolomeo Contarini, e si fece sposare nel 1453 dal patrizio veneziano, colpevole di avere avvelenato la moglie appunto per poter passare a nozze principesche. L'ultimo duca d'Atene, Francesco, figlio di Antonio II, fece rinchiudere e uccidere Chiara nella rocca di Megara; ma poi, costretto a cedere Atene a Maometto II, fu relegato, a sua volta, a Tebe e ivi strangolato. Così finì, a metà del sec. XVI la dominazione degli A. nell'Attica e in Morea. Tutta la Grecia era ormai in potere dei Turchi.
Bibl.: Litta, Genealogia della famiglia Acciaiuoli; G. B. di Lorenzo Ubaldini, Origine della famiglia degli Acciaiuoli e degli uomini famosi in essa, in Storia della casa degli Ubaldini, Firenze 1588; O. Maltzing, Das Bankhaus der Medici und seine Vorläufer, Jena 1906, pp. 47-55; J. A. Buchon, Recherches historiques sur la principauté française de Morée, Parigi 1845; L. Tanfani Centofanti, Niccola Acciaiuoli, Firenze 1863.