ACQUEDOTTO (latino aquae ductus; francese aqueduc; spagnolo acueducto; tedesco Wasserleitung; inglese aqueduct)
È quell'insieme di opere d'arte e di tubazioni che adducono l'acqua necessaria all'alimentazione idrica nei centri abitati.
I. - Storia.
L'acquedotto, nella sua consueta espressione monumentale, è certamente una delle più tipiche manifestazioni dell'arte costruttiva dei Romani; ma la tecnica della condotta delle acque era conosciuta ed applicata anche prima dei Romani, anzi in età lontanissime. L'approvvigionamento dell'acqua nelle antiche città della Babilonia, dell'Assiria e della Persia, piuttosto che per fontane, pozzi e cisterne, delle quali pure si son trovati resti non infrequenti, avveniva di solito direttamente dai fiumi e dai canali; per la Mesopotamia, in modo particolare, dai due grandi fiumi che l'attraversano e dai numerosi canali che la solcavano in ogni senso. Ma già al tempo della più antica civiltà mesopotamica, quella dei Sumeri, si costruivano condotti in mattoni e a vòlta per il drenaggio e lo scolo delle acque: non solo infatti se ne sono trovati a Ninive e a Babilonia, ma anche a Lagash (Tello), e soprattutto a Nippur (fig.1), dove si sono scoperti i resti di uno di siffatti acquedotti ad arco ellittico (il più antico arco oggi conosciuto) presso i resti della Ekur, la presargonica torre sacra (ziggurat) di Enlil (prima metà del IV millennio a. C.), e, presso la fronte sud-ovest della torre medesima, i resti di un altro simile condotto di Ur-Engur (prima metà del III millennio a. C.).
Strabone (XVI, I, 5) accenna alla cochlis come a un mezzo per far salire l'acqua ai giardini pensili di Babilonia, ma l'accenno deve essere accolto con molte riserve. Non mancano del resto gli avanzi di acquedotti veri e proprî anche in Oriente: basti ricordare quelli a vasche digradanti, scavate nella roccia e riunite da piccoli condotti, scoperte presso Bavian (fig. 2); canalizzazione probabilmente in rapporto con la famosa iscrizione di Bavian che narra come Sennacherib, per provvedere Ninive di buona acqua, condusse un canale da Kisri a Ninive e lo alimentò con le acque del Choser, fornendo poi di acqua con simili canali altre 18 località prossime.
Anche più frequenti sono gli acquedotti scavati nella roccia che s'incontrano in Giudea, in Samaria e in Galilea, e che erano di costruzione fenicia, o almeno ripetevano elementi, metodi e forme tolti all'arte costruttiva dei Fenici: se ne trovano ad 'Askar, Anin, Leggiūn,'Ain et-Ṭābighah, ma soprattutto a Gerusalemme, dove quello di Siloe (fig. 3), che porta il nome di Canale di Ezechia, lungo 533 metri, di altezza variabile e di debole pendenza (30 cm. per tutto il percorso) sappiamo essere stato costruito meno per fornire d'acqua la città che per togliere ad un nemico che l'assediasse il beneficio di valersi dell'acqua della così detta Fontana della Vergine.
Ma i Fenici stessi, che condussero il celebre acquedotto di Tiro (resti presso Rās el-‛Ain), trassero probabilmente quella tecnica da più antiche costruzioni degli Ittiti: e, del resto, che questi acquedotti sotterranei, con pozzi verticali di aerazione, fossero noti e diffusi in tutta l'Asia occidentale è anche attestato dalle parole eon cui Polibio (X, 28) descrisse quelli che, alimentati dalle cascate scendenti dal Tauro, scorrevano verso Ecatompilo.
Questa medesima tecnica degli acquedotti sotterranei, che seguivano la conformazione del suolo ed erano muniti di pozzetti verticali, si trasmise sino da età molto antica, durante il II millennio a. C., dall'Oriente al bacino del Mediterraneo, e si conservò poi in Grecia (acquedotto di Corinto) come in Oriente (acquedotto di Palmira), fino ai tempi del dominio romano.
Resti di tubi di terracotta, bene innestati e cementati con calce, si ritrovarono sotto un pavimento del palazzo di Cnosso; parecchi altri resti di antichi condotti si trovarono ad Argo, a Micene (acquedotto sotterraneo che portava le acque della fonte Perseia), ad Itaca; e in Itaca Omero ne ricorda l'esistenza presso la casa di Ulisse. A Tirinto gli scavi dello Schliemann misero in luce tutto un sistema di canali (condotti quadrangolari in terracotta entro un canale più grande sotterraneo in muratura, di cui emersero i resti sotto la stanza dei bagni, sotto una camera e sotto la corte del gineceo).
Anche i famosi bacini di scarico del lago Copaide, in Beozia, furono compiuti secondo una tecnica del tutto simile. Più frequenti sono gli acquedotti greci eseguiti in questa guisa durante tutto il fiore dell'età classica. Sono tali quello famoso di Eupalino a Samo, lungo 7 stadî (Erodoto, III, 60), quello ad alta pressione di Pergamo (fig. 4), che, venendo dal monte Madaras, dava acqua all'acropoli, quello di Metimna (Lesbo), quello di Novum Ilium, quelli di Megara, di Rodi, di Ialiso, di Sicione, di Gizio, di Filippi, di Demetriade, e sopratutto quelli di Priene, di Cirene (particolarmente i cunicoli della fonte di Apollo, recentemente riesplorati e illustrati), di Atene e di Siracusa.
Gli acquedotti destinati a rifornire di acqua la città di Atene e la pianura circostante fino al Pireo, erano numerosi, di età diverse e di diverse provenienze, e costituivano intorno alla città una rete complessa di condotti sotterranei tal volta sovrapposti, di solito costruiti in pietra, ricoperti di lastre piatte o di tegole e provvisti di pozzetti d'aerazione: essi portavano l'acqua del Pentelico o del Parnete, dell'Imetto o del Licabetto. Gli acquedotti di Siracusa portavano alla città, secondo lo Schubring, l'acqua del monte Crimiti e quella del fiume Anapo; ma il Cavallari, che ha ristudiato questo problema, è d'avviso che il primo acquedotto non fosse destinato a raccogliere le acque del Crimiti, ma rintracciasse e incanalasse quelle latenti del sottosuolo: egli ha poi messo in evidenza tutto il complesso sistema degli acquedotti siracusani: alcuni di essi sono posti sotto terra anche a grande profondità, con frequenti spiragli quadrangolari; altri, molto piu semplici, corrono solo in parte sotto terra, mentre in alcuni tratti consistono in un canale scavato fino a poca profondità nel sasso e coperto di lastre di pietra (fig. 5).
Degli Etruschi non abbiamo veri e proprî acquedotti; ma che essi ne conoscessero e forse ne praticassero la tecnica a condotti scavati nel sottosuolo o nella roccia e a pozzetti verticali, non può parer dubbio, poiché sappiamo che essi furono abili idraulici, e abbiamo testimonianze di questa loro arte non solo in cloache e fognature (come quelle di Graviscae e di Marzabotto), ma anche in gallerie ed emissarî, come il Punte Sudo sul Cremera a Veii, la tagliata di Ansedonia e forse il grandioso emissario del lago di Albano (secolo V-IV a. C.), che si ritiene anch'esso opera di artefici etruschi.
Ma l'acquedotto come opera monumentale sopraelevata è creazione romana, se anche possa trovarsene l'ispirazione e la radice nell'arte degli Etruschi o nella tecnica dei Fenici di Tiro e di Cartagine. Di questa creazione, delle sue leggi e delle sue forme noi abbiamo non solo le testimonianze monumentali in Roma e in tutto il territorio dell'Impero, ma abbiamo ancora la testimonianza scritta nelle opere di Frontino (De aquis et aquaeductibus urbis Romae), di Vitruvio (De architectura, VIII, 7) e di Plinio (Nat. hist.. XXXI, 31; XXXVI, 24), oltreché in quelle di Faventino e di Palladio, che sono tarde abbreviazioni derivanti, la prima direttamente dal trattato di Vitruvio e, la seconda, in questa parte, dal compendio medesimo di Faventino, attraverso Gargilio Marziale.
Lo scopo degli acquedotti romani era di condurre acque pure e salubri, ricercate spesso anche lontano, e particolarmente acque di fonte meglio che acque correnti: l'acquedotto di Cartagine infatti nasceva ai piedi del monte Zaguan, alla distanza di 132 km.
Nel caso delle acque correnti il condotto partiva direttamente dal corso d'acqua, completando talvolta la presa con uno sbarramento di derivazione a valle: ma, nel caso più frequente delle sorgenti, l'acquedotto si iniziava con un ben costrutto serbatoio (castellum, caput aquae), a cui le acque affluivano per mezzo di cunicoli di drenaggio, talvolta anzi con due bacini successivi, l'uno per la raccolta e l'epurazione delle acque, l'altro per il loro avviamento. Vitruvio raccomanda (VIII,1) di evitare le fonti campestri o di pianura, le quali dànno acque pesanti e dure; ed è noto che i Romani ponevano l'abbondanza e la purezza delle acque come l'esigenza prima della vita e dell'edilizia urbana.
L'acquedotto vero e proprio, specus o canalis, poteva essere di varie sorta; un canale costruito in muratura o scavato direttamente nel tufo, un tubo di piombo o di bronzo (esempî di questi ultimi le fistulae soledae di Betilieno in Alatri), un condotto di terracotta o di legno (Plinio, Nat. hist., XVI, 81) o anche un canale scavato in blocchi di pietra ammorsati gli uni negli altri, di cui abbiamo esempî a Patara ed a Poti (Arezzo): anche al ponte del Gard, lo specus è in pietra col fondo rivestito di calcestruzzo. Ma più frequenti sono gli specus in muratura, i tubuli fittili e le fistulae di piombo: fra tutti, i primi erano i più comuni presso i Romani, sia che essi corressero sotterranei, sia che essi attraversassero e superassero le depressioni del terreno per mezzo di costruzioni costituite da alte mura, talvolta massicce ma più spesso ad arcuazioni (fig. 6). L'altezza degli specus variava di solito da m. 1,30 a 2, la larghezza da m. 0,50 a 1,20, il loro profilo poteva essere ellittico o rettangolare e la copertura era talora a vòlta, tal'altra piana o triangolare o trapezoidale, in pietra o in cotto: il fondo e le pareti erano in opus signinum e il fondo stesso, e talvolta anche le pareti, erano rivestiti di uno stucco duro e grasso (maltha, bitumen cum oleo). La copertura dello specus era raccomandata da Vitruvio in modo particolare.
Di tratto in tratto però, per la necessaria aerazione e per le opere di pulitura, si apriva nella vòlta uno spiramen, che, nel caso degli acquedotti sotterranei, costituiva un vero e proprio pozzo circolare (quelli dell'acquedotto di Dugga sono oggi ancora visibili e presentano un metro di diametro), che raggiungeva il cunicolo per una profondità che talvolta, come a Chelves, superava anche 30 m. Tali aperture dovevano esser poste secondo Plinio ogni due actus, cioè ogni 240 piedi, secondo Vitruvio ogni actus: ma taluni interpreti di Vitruvio ritengono errata la comune lezione di questo passo, e vogliono che anche in esso debba trattarsi di due actus: vero è che negli acquedotti esistenti abbiamo esempî di distanze molto diverse fra i lumina: due actus nell'acquedotto di Bologna, meno di uno in quello di Palmira (fig. 7).
Particolarmente nei tempi più antichi, l'acquedotto, anche presso i Romani, era di regola sotterraneo: ma nelle regioni a forti e mutevoli dislivelli del terreno la necessaria continuità di pendenza del condotto non poteva raggiungersi soltanto col mezzo dei cunicoli sotterranei, ed occorreva alternare a questi i sostegni a muro pieno o ad arcate, che tenessero alto il canale sulle depressioni del suolo: di qui i tipici acquedotii nel loro aspetto monumentale, che potevano salire anche a grandi altezze, anche oltre i m. 50, per quanto i Romani abbiano conosciuto anche il sistema delle condotte forzate a sifone rovescio, delle quali troviamo i precetti nell'opera stessa di Vitruvio ed applicazioni in non pochi degli acquedotti supersiiti, particolarmente di provincia; ad es. in quelli di Alatri (184 a. C.), di Angizia, di Lione, di Rodez, di Arles, di Vaison, tli Costantina, di Tebessa, di Patara e di Aspendo, malgrado la difficoltà, per le condizioni della tecnica metallurgica di allora, di preparare fistulae di piombo capaci di resistere a pressioni superiori a 6° magari ad 8 e a 10 (Alatri) atmosfere. Al che essi rimediavano regolando l'ingresso delle acque a mezzo di saracinesche, evitando prudentemente nel loro uso gli angoli e le brusche voltate, trasformando gli angoli stessi (geniculi) in ventres, ossia in curve a largo raggio per mezzo di basse e idonee sostruzioni. Intorno a ciò Vitruvio fornisce notizie precise e preziose per quanto non sempre felicemente tradotte e interpretate dai moderni commentatori. Talvolta questi sifoni erano adottati come provvedimento integrale, specialmente per acquedotti brevi e di modesta portata; tal'altra essi erano usati parzialmente e combinati con gli acquedotti ad arcate, servendo così non ad eliminare ma soltanto a rendere minore l'altezza delle strutture sopra suolo. Vitruvio consigliava di ricorrere ai sifoni con le condutture plumbee o fittili soltanto in caso di valles perpetuae, quando non fosse possibile rimediare al dislivello né nrcumductionibus né con sostruzioni ad libramenta, quemadmodum in rivis et canalibus. Nei condotti a sifone i Romani, per dare esito all'aria e permettere le riparazioni, interrompevano talvolta le tubature dei corsi inferiori con colonne montanti, sormontate da piccoli serbatoi (Pompei) o con rampe ascendenti e discendenti (Aspendo): l'acqua tornava così per un momento al suo livello naturale.
La misura da dare alla pendenza dell'acquedotto, la mensura declivitatis, preoccupò anche notevolmente i costruttori romani perché, regolando la pendenza, essi regolavano anche la violenza delle acque. Frontino infatti, scrivenda dell'Anio Vetus, dice che quell'acquedotto aveva longidinem passuum XXXXIII milium, ita exigente libramento. Talché essi, per diminuire l'inclinazione, sentirono talvolta la necessità di allungare il percorso dell'acquedotto ricorrendo anche all'espediente di spezzarne il rettilineo in diversi segmenti, come avvenne per l'aequedotto di Segovia, dal Caseron all'Alcazar: spezzature che avvenivano di solito non per curve ma per angoli, per attenuare sempre più l'impeto della corrente. Numerosi del resto sono gli esempî di antichi acquedotti dove il corso delle acque è prolungato per una distanza due o tre volte maggiore di quella rettilinea tra il capo e la foce, appunto per diminuire l'inclinazione e dare alla pendenza una misura giusta ed uniforme: tali sono i rivi dell'Anio Vetus, della Marcia, dell'Anio Novus e della Claudia, e tale anche quello dell'acqvedotto di Nîmes. La pendenza è stata fissata da Vitruvio in un semipiede per cento piedi e da Plinio in un quarto di pollice per 100 piedi (per centenos pedes sicilico), pari a m. 0,208 a chilometro (1: 4.800). Di fatto le pendenze variano secondo i diversi acquedotti ed anche secondo i varî tratti di un acquedotto medesimo, oscillando esse normalmente fra i limiti di1:100 e1:5.000 a seconda delle diverse esigenze locali, non esclusa quella del clima, che, nei luoghi più rigidi e soggetti al gelo, richiede maggiori pendenze per evitare il pericolo delle basse temperature. Le minori pendenze ci vengono offerte oggi per esempio dagli acquedotti di Nìmes (0,07 a 0,67 per km.), di Antibes (0,41 per km.) e da tratti di quello di Metz: maggiori, dallo stesso acquedotto di Metz (3,47 per km.) e dall'Anio Novus che presenta una pendenza media di 1,45 per km. ma in alcuni tratti raggiunge il coefficiente di 3,008.
Appunto per regolare la pendenza intervenivano anche le grandi sostruzioni e particolarmente le mirabili arcuazioni a uno, a due ed anche a tre ordini sovrapposti, che sono il segno superstite e glorioso di queste opere, e che, rispetto al muro pieno, presentavano incontestabili vantaggi di solidità, di economia, di facilità di transito, di leggerezza e di bellezza d'aspetto. Questi acquedotti ad arcate, che, basse presso i punti di congiungimento alle colline, si alzavano poi solide ed eleganti, agili e grandiose sopra il fondo della valle, costruiti generalmente con un vivo senso di euritmia e con una profonda esperienza di ordine tecnico nelle strutture e nelle dimensioni delle pile e degli archi, sono una delle più tipiche impronte di romanità, disseminate e profuse per tutto il vasto dominio segnato dai confini dell'Impero.
Le strutture di questi acquedotti sono delle più varie: ora in pietra, ora in mattoni, ora nei due materiali ad un tempo, e variamente combinati in massa e in rivestimento; quelli di pietra poi si presentano ora in grossi blocchi a secco, ora in media struttuta e, nelle pile, anche in piccola. Le pile talvolta sono esattamente verticali, come a Roma e a Segovia, tal'altra presentano dei potenti contrafforti a scarpa come a Fréjus e a Cherchel, ma il più spesso sono allargate e rafforzate alla base per mezzo di numerose riseghe nel senso trasversale, come a Lione, o nei due sensi, come a Metz; talvolta ancora, come nell'acquedotto Claudio, un risalto unico era dato alla pila presso l'imposta degli archi, di guisa che l'apertura degli archi era notevolmente maggiore di quella tra pila e pila.
Gli archivolti di solito erano semplici e senza modanature: qualche volta, ma nei tempi più tardi, la chiave di volta sporgeva all'estradosso. Il diametro degli archi variava in generale dai 3 ai 7 m., ma, eccezionalmente, nell'acquedotto di Nîmes raggiunge i m. 24 e 52: il rapporto tra il vuoto e il pieno alle pile variava fra i m. 0,33 e 0,78. L'altezza maggiore sopra il suolo variava normalmente dai 7 ai 20 m. ma l'acquedotto di Segovia raggiunge m. 28,50 e quello di Metz m. 32,50. Di regola gli acquedotti erano ad un solo ordine di arcate, ma non di rado, per una prudente avvedutezza tecnica e al fine di raggiungere ad un tempo una maggiore altezza ed una solidità maggiore, si costruirono anche a due, a tre ed eccezionalmente a quattro ordini di arcate sovrapposte: tali sono i grandi acquedotti di Nîmes, di Metz, di Segovia, di Merida e di Tarragona. Qualche volta un solo acquedotto portava sulle stesse arcate, sovrapposti ma distinti, i condotti di due e talora di tre acque differenti, come avvenne a Roma per l'Anio Novus, per la Claudia, e per la Julia, la Tepula e la Marcia: ma solo in tempi più tardi e nelle provincie più lontane si mescolarono in uno stesso canale acque di sorgenti diverse. Lungo il percorso dell'acquedotto erano disposti, secondo il grado di purezza naturale dell'acqua, uno o più bacini di epurazione (piscinae limariae) nei quali, per mezzo di una improvvisa diminuzione della velocità dell'acqua, precipitavano tutte le sostanze eterogenee e le impurità, che si raccoglievano al fondo, donde erano condotte fuori per mezzo di appositi canali di scarico. Alcuni di questi bacini presentano delle disposizioni particolari e più complesse, come quello che è nell'acquedotto di Arles o, meglio ancora, quello dell'Aqua Virgo sul Pincio, a quattro vani a coppie sovrapposte.
Al termine degli acquedotti si trovavano i grandi serbatoi di distribuzione o castella (v. idraulica) dai quali appunto l'acqua veniva ripartita per mezzo di calices bronzei, che presso i Romani erano lunghi 12 dita ed avevano un diametro rigorosamente calibrato. Da essi l'acqua passava poi nei condotti plumbei o fittili: il calibro base era per i Romani quello della fistula quinaria che aveva un diametro di dita 1,51/224 (m. 0,022 circa), col centro posto a 12 dita sotto il livello costante dell'acqua. Frontino ci dà però 25 altri moduli multipli della Quinaria, di cui tuttavia solo 15 erano in uso. Il consumo dell'acqua era calcolato in quinarie (litri 0.48 al secondo) o nei sottomultipli di 1/12 (oncia), 1/48 (sicilico) o 1/288 (scrupolo). Frontino ricorda (I, 25) che il merito di avere introdotto il modulo della quinaria era variamente attribuito ad Agrippa o a Vitruvio.
In Roma, durante l'età repubblicana, la magistratura delle acque e la costruzione e manutenzione degli acquedotti era di pertinenza dei censori; e con l'autorità del senato i censori stessi, di cinque in cinque anni, erigevano quei pubblici edifici, solitamente col provento delle maggiori entrate (Livio, XXXIX, 44; Plinio, Nat. hist., XXXVI, 15-24; Polibio, VI, 11; Frontino). Unica eccezione è l'acquedotto eretto in Roma nell'anno 608 dal pretore Marcio. Ai censori, quindi (e solo eccezionalmente ad altri magistrati) spettava tanto la locatio degli acquedotti, cioè il darne in appalto i lavori, quanto la probatio o collaudo.
Nell'età augustea e più precisamente nell'anno 35 a. C., poiché gli acquedotti funzionavano in modo assai imperfetto, M. Agrippa li restaurò a proprie spese, e, essendo edile, avocò a sé tutta la cura e la spesa degli acquedotti e organizzò ed attrezzò a tal fine una schiera di 240 schiavi, che, morendo, lasciò ad Augusto, il quale a sua volta li cedette allo stato. Claudio istituì una seconda schiera di questi operai, la familia Caesaris, che restò di proprietà dell'imperatore. Dopo la morte di Agrippa, Augusto ricostituì l'amministrazione delle acque e nel 10 a. C. creò la carica speciale dei curatores aquarum le cui attribuzioni furono regolate da un senato-consulto (Corp. Inscr. Lat., VI, 773, 1248, 1723; X, 2456; XI, 571). Essi erano coadiuvati da numerosi funzionarî, fra i quali due adiutores ed un architectus, o ingegnere idraulico: è noto che uno dei primi architecti nell'amministrazione delle acque fu probabilmente il vecchio Vitruvio, che dovette collaborare con Agrippa all'introduzione della quinaria. Il primo dei curatores scelto da Augusto fu Messalla Corvino; il quindicesimo, sotto Nerva, fu Frontino, che sugli acquedotti romani compose il famoso trattato. Claudio istituì anche i procuratores aquarum. Nel sec. III. per la dignità delle persone tra cui i curatori erano ordinariamente scelti, essi assunsero anche il nome di consulares aquarum, che appare in molte iscrizioni, o consulares aquarum et minuciae, che trovasi in altre (dalla porticus Minucia). Pare che il curator o il procurator aquarum assumesse anche il nome di comes formarum ricordato dalla Not. Dign., Occ. IV, 5 da una iscrizione (Corp. Inscr. Lat., VI, 1765) e da una formula di Cassiodoro (Var., VII, 6): ma il rapporto fra il curator e procurator aquarum da una parte, e il consularis ed il comes dall'altra non è ancora esattamente chiarito.
Acquedotti di Roma. - Sino all'anno 312 a. C., cioè sino alla perduzione dell'acqua Appia, i Romani si valsero soltanto delle acque del Tevere o di quella di fonti urbani, di pozzi di acqua viva o di cisterne (Ab urbe condita per annos CCCCXL, scrive Frontino I, 4, contenti fuerunt romani asu aquarum quas aut ex Tiberi aut ex puteis aut ex fontibus hauriebant). Al tempo di Frontino gli acquedotti erano invece nove, quattro dei quali di età repubblicana:
1) Aqua Appia (312 a. C.), romanae magnificentiae magnitudinisque primitiae (Fabretti), fu condotta in Roma dai censori Appio Claudio Cieco e C. Plauzio Venox, lungo un percorso di m. 16.550, e prendeva origine presso la Rustica a sinistra della via Collatina, per quanto il testo di Frontino non sia esatto in questo punto; già per circa 90 m. esso procedeva sulle tipiche arcate (Front., V; T. Liv., IX, 29; Diod. Sic., XX, 36).
2) Anio Vetus (272 a. C.), condotto lungo 64 km. per cura prima dei censori Manio Curio Dentato e Lucio Papirio Cursore, e poi del duumviro Fulvio Flacco, prendendo le sorgenti sulla sinistra del fiume Aniene a monte di Tivoli, anzi a 850 m. a monte di S. Cosimato. Più lungo era in questo il percorso ad arcuazioni, ed è particolarmente da ricordare il magnifico ponte Lupo, alzato e allungato poi per ricevere la Claudia e la Marcia e l'Anio Novus (Front., VI; Aur. Vict., Vir. ill., 43).
3) Aqua Marcia (146 a. C.), condotta, per opera del pretore Q. Marcius Rex, dalla valle medesima dell'Aniene a 94 km. da Roma, presso il 36° miliario della via Valeria; per sei miglia del suo percorso era ad arcate (Front., VII; Mart., VI, 42; Plin., Nat. hist., XXXI, 3; Strab., VI; Dio. Cass., XLIX, 42).
4) Aqua Tepula (116 a. C.), condotta dai censori Cneo Servilio Cepione e L. Cassio Longino, prendendo origine a 2 miglia a destra del decimo miglio della via Latina (Front., VIII-IX; Plin., Nat. hist., XXXVI, 24).
5) Aqua Iulia (35 a. C.), condotta dall'edile M. Agrippa, prendendo origine sotto il ponte degli Squarciarelli presso Grottaferrata; al decimo miglio della via Latina si fondeva con la Tepula e insieme poi si sovrapponevano alla Marcia, costituendo al sesto miglio il superbo acquedotto a tre spechi, utilizzato poi da Sisto V, per l'acqua Felice (Front., VIII-IX; Plin., Nat. hist., XXXVI, 24), (fig. 8).
6) Aqua Virgo (22 a. C.), condotta da Agrippa, dall'ottavo miglio della via Collatina, a monte del casale di Salone, con le sue 700 arcate decorate in alcuni tratti di colonne e di statue (Front., X; Plin., Nat. hist., XXXI, 25, e XXXVI, 24; Vitr., VIII; Dio. Cass., LIV, 11; Seneca, Ep. 83).
7) Aqua Alsietina (2 a. C.), condotta per opera di Augusto, lunga 33 km., dal lago Alsietino, oggi di Martignano, presso la via Claudia; questo acquedotto fu poi utilizzato da Paolo V per l'acqua Paola (Front., XI).
8-9) Aqua Claudia e Anio Novus (38-52 d. C.), condotte da Caligola e da Claudio e derivate ambedue dalla valle dell'Aniene presso la via Sublacense, a 38 la prima a 42 miglia la seconda da Roma, di cui a 6 per la prima e 9 per la seconda sopra le colossali arcuazioni che raggiungono presso Tor Fiscale la massima altezza di m. 27, 41 (Front., XIII-XXV; Corp. Inscr. Lat., VI, 1256, 1287, 1258). (tav. LXVI).
Questi nove acquedotti, i cui tratti sopra terra rappresentavano complessivamente una lunghezza di km. 49, fornivano a Roma 12.454 quinarie (circa 705.000 mc. d'acqua nelle 24 ore, tenendo conto delle molte dispersioni) e servivano ad ogni uso della vita; ma era considerata particolarmente potabile la Marcia, mentre la Virgo era destinata principalmente ai bagni e l'Anio alla irrigazione.
In seguito però essi risultarono ancora insufficienti all'accresciuta popolazione e agli accresciuti bisogni: altri acquedotti ed altre derivazioni si aggiunsero, i cui nomi, registrati variamente dai cataloghi e dai topografi antichi, farebbero ascendere gli acquedotti romani a 19, a 23 o magari a 25. Procopio, al sec. VI, al tempo cioè dell'assedio di Vitige, ne ricorda 14. Ma si sono spesso confusi gli acquedotti veri e proprî, cioè i distinti spechi che entravano in città, con le nuove diramazioni di acquedotti maggiori. Il Lanciani prudentemente ritiene che nell'antica Roma gli acquedotti urbani non siano stati mai più di 11: i 9 frontiniani, la Traiana e la Alessandrina, costruita da Alessandro Severo, tutta in laterizio, nel 225.
Acquedotti d'Italia. - La ricchezza e la grandiosità degli acquedotti di Roma contrasta vivamente se non con la rarità, certo con la modestia di quelli delle altre città d'Italia, sopratutto se essi si confrontano con quelli delle altre provincie dell'Impero. Non con la rarità, perché gli scavi condotti fino ad oggi hanno messo in luce un po' dovunque tubuli fittili e fistule plumbeae che ci danno testimonianze di antichi acquedotti; ma gli acquedotti monumentali scarseggiano e sono infrequenti le loro superstiti rovine.
Ricordiamo tra i più notevoli quelli di Genova (in Val Bisagno, costruito originariamente nel sec. III a. C.), di Pompei (che scendeva dal monte per alimentare parecchie città della regione), di Pozzuoli (destinato ad alimentare la Piscina mirabilis), di Nora (con imponenti arcuazioni laterizie), di Acqui (tav. LXVIII) (lungo oltre 14 km. e che mostra ancor oggi i resti di circa 40 delle sue pile e dei suoi archi), di Rimini (nel burrone della Figarella) e sopratutto quello di Alatri, ad alta pressione, detto di Betilieno, e poi ancora quelli di Gubbio, Narni, Terracina, Angitia (alto Liri, con una galleria di km. 2,5) Massa d'Albe, Capistrello, Altavilla Irpina, Palaziano, Brindisi e Termini Imerese.
Acquedotti di Francia. - 1) Acquedotto di Nîmes. - Costruito ad epoca incerta (età di Agrippa per alcuni, età degli Antonini per altri), per condurre a Nîmes le acque delle sorgenti dell'Eure, attraverso un percorso di km. 49, 750, esso è particolarmente noto per il ponte sul Gardon, detto Pont du Gard, magnifica costruzione a tre piani lunga per ognuno di essi, a partire dal basso, m. 142,35, m. 242,45, m. 273, e alto m. 48,77, totalmente in grandi blocchi a secc0 nei due ordini inferiori. Notevole la struttura delle volte dei due primi piani formate di due anelli paralleli e indipendenti, nonché la leggera curva che il ponte presenta in pianta (tav. LXVII).
2) Arquedotto di Metz. - Lungo km. 22, costruito, a quanto pare, nel sec. I per condurre a Metz le acque del vallone di Bouillons, attraverso la Mosella, sopra un ponte a 14 arcate, lungo m. 1120 e alto fino a m. 33. Restano ancora 7 arcate intiere e 10 piloni; questi, in conglomerato con rivestimento di piccoli blocchi rettangolari, si vanno rastremando dal basso all'alto per mezzo di riseghe ogni m. 3,30.
3) Acquedotti di Lione. - La Lione romana ebbe cinque acquedotti; il primo, del Mont Pilat, costruito verso la metà del sec. I, era lungo 52 km.; il secondo, del Mont d'Or, dell'età degli Antonini, conservò fino al 1827 parte degli archi del grandioso ponte a sifone sul vallone della Grange-Blanche; il terzo, di Montromant, era lungo circa 40 km.; il quarto prendeva le acque del Rodano presso Montluel. L'acquedotto meglio conservato, quello del Mont Pilat, aveva lungo il suo percorso undici ponti e tre ponti a sifone, di costruzione mista a pietre e mattoni, con diverse piscinae limariae.
4) Acquedotto di Fréjus. - Costruito sotto Claudio e restaurato da Vespasiano per portare a Forum Julii le acque della Siagne, con un percorso di km. 40, lungo il quale si svolgevano diversi ponti con le pile sostenute lateralmente da speroni obliqui.
5) Acquedotti di Lutetia. - La Lutetia romana era alimentata da tre acquedotti, quello di Auteuil, costruito sotto Costanzo Cloro, quello di Arcueil, costruito da Giuliano, e quello di Chaillot. Il più importante era il secondo, lungo 16 km., in gran parte a canale scoperto.
Altri acquedotti in Francia meritano ancora un ricordo: i due acquedotti di Antibo, uno dei quali soltanto è giunto sino a noi, quello di Arles con i resti di un bel ponte alto 10 m., i tre di Marsiglia, di cui uno soltanto ha lasciato vestigia, quello di Luynes, che aveva un ponte di 46 arcate, quello di Cahors che aveva un ponte a tre piani alto circa 50 m. ed esistente ancora nel sec. XIV, quelli di Aix, Fos, Vaison, Vienne, Autun, Besançon, Martigny, Lillebonne, Vieil Évreux, Poitiers, Saintes, Périguex, Tolosa e del Mont Auxois.
Acquedotti della Spagna e del Portogallo. - Anche la penisola iberica vide sorgere nel periodo romano un gran numero di superbi acquedotti: basti ricordare quelli di Siviglia, Toledo, Celda, Sagunto, Barcellona, Consuegra, Calahorra, Evora; ma soprattutto quelli di Segovia, di Tarragona, di Chelva e i due di Mérida. Carattere peculiare degli acquedotti della Spagna, come di quelli dell'Africa romana, è che gli ordini di arcate sovrapposte non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma le pile salgono uniche dalla base all'ultima imposta superiore e sono soltanto rilegate da archi di congiunzione, a mezza altezza o ai due terzi, a seconda che si tratti tli acquedotti a due o a tre ordini (fig. 9).
1) Acquedotto di Segovia. - Costruito da Traiano e alimentato dalle sorgenti della Fuenfría, dopo circa 15 km. di percorso passava prima sopra una costruzione in muratura lunga 772 m. e dopo avere attraversato una piscina di deposito penetrava sul magnifico ponte che, al di sopra dell'attuale piazza dell'Azoquejo, lo conduce all'Alcazar. Dal Caseron all'Alcazar l'acquedotto presenta in pianta l'aspetto di una linea spezzata in 4 segmenti per aumentare la lunghezza del percorso: il 1° di sei archi, il 2° di 25, il 3° di 4, ed il 4° e più importante di una doppia serie di 43 arcate. Le pile sono verticali e quelle degli archi inferiori vanno diminuendo dal basso all'alto per mezzo di grandi riseghe: la costruzione è a grandi blocchi a secco di granito, ben squadrati. La larghezza dello speco era di m. 2,50, una delle maggiori riscontrate negli antichi acquedotti. Sopra il primo ordine, nel tratto più alto, correva una iscrizione dedicatoria, oggi scomparsa (fig. 10).
2) Acquedotto di Tarragona. - Dell'età augustea, lungo 8 km., trova la sua maggiore magnificenza nel grande ponte de Las Ferreras, a due piani, rispettivamente di 8 e 25 arcate, a grandi blocchi, con i piloni superiori verticali e gli inferiori a riseghe e segmenti obliqui. È meno grandioso ma più agile ed elegante di quello di Segovia.
3) Acquedotti di Mérida. - Due sono gli acquedotti di Mérida, l'uno, detto di S. Lazzaro, lungo 6 km. con un ponte di 144 arcate, l'altro di età augustea, famoso per il suo superbo ponte de Los Milagros a tre piani, alto 25 m., del quale restano 10 arcate e 37 piloni. L'uno e l'altro sono costruiti di un conglomerato di pietre e cemento, rivestito di belle e grandi pietre, i cui filari si alternano, di 4 in 4 nell'uno, di 5 in 5 nell'altro, con quattro e cinque sottili ricorsi di mattoni rossi (fig. 11).
Altri acquedotti del mondo romano. - L'acquedotto di Atene, iniziato da Adriano e compiuto da Antonino Pio, portava alla città le acque del Pentelico e delle fonti di Kalogresa. Lo speco (1,60 × 0,70) era in parte scavato a grande profondità nella roccia, in parte costruito in laterizio.
Anche Bisanzio ebbe in età romana un grande acquedotto in pietra costruito da Valente, con materiali tolti alle mura di Calcedonia, ma restaurato in parte da Solimano; esso è a sifone, lungo 24 km., con m. 1200 di arcate a due ordini, alte 24 m.
Tra gli altri acquedotti del mondo romano ricordiamo quelli di Magonza (che conserva ancora 40 pile a materiali alternati di pietra e mattoni), di Colonia, di Solicinium e di Vindonissa (Windisch) e quello a sifone di Venda Silurum (Caerwent).
Anche nelle diverse provincie dell'Africa settentrionale i Romani hanno lasciato resti imponenti di acquedotti, alcuni dei quali a più ordini.
1) Acquedotto di Cesarea (oggi Cherchel). - Lungo oltre 32 km., con avanzi grandiosi, presso Zurich, di un ponte a tre ordini costruito a grandi blocchi.
2) Acquedotti di Costantina. - Tre grandi acquedotti portavano a Costantina l'acqua del Physgiah, del Gebel Uasc e del Bu-Merzug, e i due ultimi passavano il Rummel su due ponti, il secondo dei quali, a grandi blocchi, a tre ordini ed alto 20 m., ha lasciato alcuni avanzi.
3) Acquedotto di Cartagine. - Non già punico, come prima si riteneva, ma di età adrianea, è uno dei più belli dell'Africa. Portava l'acqua alle cisterne della Malga dal Zaguan e dal Giugar, con un percorso di 132 km. Lo specus (0,82 × 1,82) passava su lunghe arcuazioni ad uno e a due ordini, alte sino a m. 40.
Altri acquedotti romani dell'Africa erano, oltre i due di Tebessa, quelli di Thuburnica, Thabraca, Sufes, Simithu, Leptis Magna, Makter (ne restano 20 arcate), Dugga, Aphrodisium (el-Mahdiyyah), Lambesa, Diana Veteranorum (Zana), Portus Magnus (Arzew), Arsenaria, Castellum Tingitii (Orléansville), Tigaudia Municipium, Tipasa, Icosium (Algeri), ad Medias (Médéa) e Rapidi.
Nell'Asia romana, oltre gli acquedotti di Uthina (del quale restano ancora sette arcate a grande struttura), di Anemurium, di Lamas, di Zumbat-Kalesī, di Sinope, Nicomedia, Palmira, Petra, Patara, Smirne, Samo, ricordiamo particolarmente quello a sifone di Aspendo, quello adrianeo di Pergamo, e quello di Cesarea (Anazarbe), quest'ultimo a due rami tutti su arcuazioni alte 10 m. L'acquedotto di Beirūt aveva un ponte a tre ordini, a grandi blocchi, lungo 200 m. e alto 60; l'acquedotto di Iasos (Caria) era ad arcate irregolari a grandi blocchi di calcare (fig. 12).
IL Medioevo e il Rinascimento. - Caduto l'Impero, per molti secoli, in Roma "si vendeva l'acqua cavata da pozzi e dalle fontane particolari.... Cola di Rienzo era figlio di una che viveva d'acqua da portare. L'ospedale di S. Giovanni ebbe origine da questa gente che portava l'acqua per Roma". Così il Cancellieri (Possessi, p. 506); e il Lanciani (Comment. di Front., p. 186) ritiene che gli aquariciarî formassero nel Medioevo una vera e propria compagnia di mestieri. Certo è che in Roma gli acquedotti antichi, che ai tempi di Teodorico e di Cassiodoro ancora funzionavano, che anzi Teodorico ristorò e Procopio vide e descrisse, in parte andarono rapidamente guasti per l'azione del tempo e l'incuria degli uomini, in parte andarono distrutti per effetto delle frequenti incursioni barbariche. Vitige infatti li distrusse durante l'assedio di Roma, e se anche Belisario poté ristabilire, almeno in parte, l'acqua Claudia e l'acqua Traiana, è fuor di dubbio che, tra il 549 e il 776, tutti gli antichi acquedotti erano morti in Roma. E non solo in Roma avveniva un tale scempio: sappiamo che l'acquedotto d'Arcueil a Lutezia fu rovesciato dai Normanni nel sec. IX.
Qualcuno di essi, però, e nonostante la crescente difficoltà della mano d'opera, anche nel Medioevo fu non solo conservato, ma restaurato e talora ricostruito o costruito anche ex novo: opere isolate, non certo comparabili per il numero, per le proporzioni per la scienza tecnica, a quelle romane, ma che rivelano nondimeno la continuità della tradizione. A Roma, caduta così in basso, poco si è fatto anche in questo campo. Tuttavia pare accertato che Adriano I avesse cominciato nel 776 a riparare gli antichi acquedotti, e che di mano in mano l'acqua Traiana, la Marcia, la Claudia e la Vergine avessero ripreso, almeno in parte, la loro vita, e che la Claudia abbia corso sotto Leone III (a. 795) nei grandi Triclinia lateranensi: poi, nulla più si fece per essi fino al sec. XV. Ma Spoleto nel sec. XI vedeva risorgere un vecchio acquedotto romano, che nel sec. XIII era di nuovo e quasi totalmente rifatto (tav. LXIX), con un doppio ordine di arcate a sesto acuto, da Gattapone, il creatore della Rocca (non ha fondamento la tradizione che ne attribuisce la costruzione a Teodorico), come Casamari, nel 1200, faceva nascere il suo bell'acquedotto di pietra ad archi a tutto sesto, e Sulmona, nel 1257, il suo ad archi ogivali; un secolo dopo, anche Salerno vedeva sorgere i suoi due ad archi ogivali e ad archi ribassati.
In Francia alcuni acquedotti venivano costruiti (di Pré-Saint-Gervais a Parigi; di St. Bertin, 1095) o ricostruiti (acquedotto del Mans, 832-857) per mezzo di tubuli fittili chiusi in un masso di cemento: e a Coutances sorgeva nel 1277 un grande acquedotto con 170 arcate ogivali alte sino ad un massimo di m. 15,20. Molte di queste opere del sec. XII-XIII sono dovute in Italia e in Francia all'iniziativa tecnica dei Cisterciensi (Casamari, Limoges, St. Polycarpe), così come alcuni dell'Oriente son dovuti all'iniziativa e all'opera dei cavalieri di Rodi (le belle arcate dell'acquedotto di Rodini sono appunto superstiti dalla loro epoca), mentre nella penisola iberica e nel Marocco altri ne facevano sorgere i re mori, come l'acquedotto mirabile di Elvas, lungo 30 km. e che comprendeva un ponte a quattro ordini alto circa 83 metri quello di Fez (1207) e quelli di Marocco e di Siviglia, dovuti a Yaqūb al-Manṣūr (1194); acquedotti medievali si trovano del resto in tutto il vasto dominio musulmano; in Persia erano frequenti gli acquedotti sotterranei con spiragli posti di tratto in tratto e sormontati da torricelle (ad es. premo Qaṣr-i Qāgiār). Ma soprattutto notevoli sono gli acquedotti medievali di Bisanzio, due dei quali si attribuiscono a Giustiniano e sono una perfetta opera di ingegneria civile; l'uno presenta un ponte di 342 m., a tre ordini di arcate, ed è alto 35 m.; l'altroi il maggiore e il più famoso, è quello detto di Burgas, col suo magnifico ponte a due ordini, alto pure 35 m. e lungo m. 140 e 240, con i suoi archi leggermente acuti e fiancheggiati da muri ad ala e con i suoi robusti piloni rinforzati da contrafforti prismatici. Nei sec. XI e XII Costantinopoli vide sorgere altri due acquedotti, l'uno dei quali a due ordini e lungo m. 716, e l'altro, quello di Pera, di m. 420, alto m. 29. Anche gli acquedotti di Adana e di Mopsueste sono riferibili all'età giustinianea. Nel sec. XIV a Salamina di Cipro fu ricostruito ad archi acuti l'antico acquedotto romano che dava l'acqua a Famagosta.
Col sec. XV, anche in Occidente riprese feconda la vita delle acque: e, mentre per opera di Giovanni di Escobedo (1481) tornava in funzione l'acquedotto di Segovia, Nicolò V faceva rinascere in Roma l'acqua Vergine, che nuovi lavori di Pio IV e di Pio V resero costante e sicura. Sisto V fa poi portare a Roma da Rifolta Borghese (tra M. Falcone e Gallicano) l'acqua Felice, ad opera dell'architetto Matteo da Castello; Paolo V, nel 1609, ristora ed aumenta l'acqua Traiana (della quale già pare si valesse Innocenzo VIII nel 1484) dandole il nome di acqua Paola. Così, a Parigi, nel 1613, Maria de' Medici fa risorgere l'acquedotto d'Arcueil, e, oltre mezzo secolo dopo, Luigi XIV fa intraprendere, sotto la direzione di Vauban, i lavori degli acquedotti che avrebbero dovuto portare a Parigi le acque dell'Eure e che furono condotti innanzi per 115 km. con il famoso ponte di Maintenon, a tre piani e alto 73 metri. Nel 1641, presso Arles, sorgeva il lungo ponte dell'acquedotto di Craponne (750 m.) con 94 arcate a tutto sesto di m. 6,10 di diametro.
L'opera più notevole, in questo campo, del sec. XVIII è l'acquedotto che Carlo III fece eseguire, sui disegni del Vanvitelli, per portar l'acqua del monte Taburno alla sua reggia di Caserta, con un percorso di oltre 42 km., di cui 6300 in galleria e che attraversa la valle presso Maddaloni sopra il meraviglioso ponte a tre piani di 17, 27 e 43 arcate, lungo m. 539 e alto m. 57,82, con lo specus di m. 1,66 × 1,20: opera veramente romana per l'ardimento della concezione e della forma.
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II. - Tecnica costruttiva.
L'importanza della funzione degli acquedotti, resa ancora più grande dall'estensione dell'urbanesimo nelle società moderne, impone alla tecnica costruttiva una somma complessa di problemi ed esigenze.
1) Consumo d'acqua. - Il fabbisogno d'acqua è molto variabile per i centri abitati a seconda delle abitudini igieniche e dello sviluppo maggiore o minore delle industrie; variabile in grado minore, per le popolazioni rurali poiché dipende dall'abbeveramento degli animali secondo che si abbia dell'acqua potabile o meno.
La quantità minima giornaliera necessaria ad un individuo è di circa 30 litri (bevanda, litri1; cottura di alimenti, litri 3; lavanda personale, litri 8; nettezza della casa, litri 8; lisciviamento, litri 10): e per il bestiame: un bue litri 30; un cavallo litri 50; un ovino litri 2; un caprino o suino litri 5, e 10 volatili da cortile litri 1. A ciò bisogna aggiungere una percentuale per inevitabili perdite che si aggirano attorno al 10-15% della portata considerata. Per le singole industrie non è possibile dare in linea generale il quantitativo d'acqua necessario: naturalmente bisognerà tenerne conto di volta in volta. La portata complessiva per la popolazione rurale varia da litri 50 a litri 90 per individuo-giorno, a seconda della maggiore o minore abbondanza d'acqua disponibile per l'abbeveramento degli animali e per l'inaffiamento dell'orto casalingo; per la popolazione urbana bisogna invece considerare un limite minimo tra. gli 80 e 150 litri per individuo-giorno, dovendosi computare anche la portata necessaria per i servizî pubblici, ospedali e caserme che varia tra 1/2 ed i 2/3 di quella strettamente necessaria all'individuo.
Le quantità sinora segnate indicano i consumi medî, mentre è evidente che durante la stagione invernale si avranno valori minori e durante quella estiva valori maggiori. Si hanno infatti le seguenti variazioni mensili:
Da ciò si deduce che l'aumento del consumo estivo rispetto a quello medio oscilla attorno ad 1,35, mentre le richieste d'acqua nelle varie ore di un giorno oscillano molto sensibilmente tra 1,50 e 2,00 di quelle medie relative al mese considerato.
Passando ad un altro ordine di considerazioni, bisogna poi calcolare per il consumo d'acqua l'incremento della popolazione e della agiatezza della zona servita dal nuovo acquedotto, poiché quest'opera non ha un fine solamente igienico, ma anche economico. Il rinvigorimento delle forze umane, l'abbeveramento degli animali con buona acqua produce naturalmente, specie nei centri rurali, una maggiore e più costante attività nei lavori agricoli ed una maggior produzione di latte e relativi derivati nonché di ortaglie. È giusto irrigare la terra, ma bisogna avvicinare anche al lavoratore l'acqua potabile per allontanarlo da tutte quelle bevande alcooliche che lo debilitano ed aumentano in esso la debolezza, talora prodotta inizialmente dalle febbri di malaria.
Determinato il consumo medio, occorre considerare, sulla base dei censimenti eseguiti, il probabile incremento della popolazione dopo un certo numero di anni (almeno 25), poiché una provvista d'acqua deve essere rivolta non solo a sistemare le richieste del momento, ma a sopperite anche ai bisogni delle generazioni future. In genere questo incremento può essere considerato tra il 1/3 ed 1/4 della popolazione attuale, ma volendo fondarci sopra dati pratici, indicata con P la media percentuale annua d'aumento che si è verificata negli anni precedenti e con Nα il numero degli abitanti attuali, il presumibile numero Nf degli abitanti alla fine di un successivo periodo di n anni può essere indicato con buona approssimazione dalla seguente equazione:
in base alla quale converrà calcolare il fabbisogno d'acqua. Secondo quanto si è detto, presa p. es. una cittadina di Nα abitanti, per la quale si sia verificato negli anni precedenti un aumento annuo medio di popolazione pari a → p%, ed alla quale si voglia assegnare una dotazione netta di U litri al giorno per abitante, fissando in ragione di α% le perdite dovute alle tubazioni, la portata, espressa in litri al 1″, durante le ore di maggior consumo in un mese estivo sarà rappresentata da:
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2) Captazione delle acque. - In relazione alla loro provenienza ed alla loro potabilità le acque utilizzabili per un acquedotto possono suddividersi in tre vaste categorie e cioè:
a) acque superficiali;
b) sorgenti;
c) falde freatiche e falde profonde.
a) Acque superficiali. - I corsi d'acqua servono dall'antichità all'alimentazione umana: però trasportano nella maggior parte dei casi anche le acque di rifiuto dei centri attraversati, e senza l'autopurificazione non potrebbero dare che un'acqua di qualità molto difettosa. È perciò prudente filtrarla e sterilizzarla prima del suo uso come bevanda, anche se si è cercato di fare la presa in luoghi dove sia poco inquinata e più limpida, e se si sono allontanate il più possibile le cause di impotabilità. Bisogna dunque cominciare un progetto di distribuzione d'acqua da un fiume con lo studio in diversi punti del suo valore igienico e delle misure di protezione che bisognerà eseguire. Ma questo, come dall'esame di altre condizioni del problema, dipende la scelta della località per la presa: p. es. non dovranno essere trascurati i provvedimenti da prendersi per la difesa dell'impianto dalle piene. Si devono perciò ottenere con misure dirette le variazioni del livello liquido e delle portate, i movimenti eventuali del fondo, il trasporto di sabbie più o meno pulite o di ghiaia, appoggiandoci ai dati ricavati dall'idrologia. Sopra questo argomento si esporranno ora uno o due esempî di costruzione di prese dirette, rinviando per le altre considerazioni alle voci che ne trattano più diffusamente. La fig. 13 rappresenta una presa da fiume mediante una specie di chiavica con muri d'ala costruiti entro l'argine e con la platea alla stessa quota del letto del fiume: termina verso campagna con un pozzo d'aspirazione con il fondo più basso e verso fiume con una griglia. Questa costruzione, che dà ogni garanzia di sicurezza per la continuità dell'esercizio, è evidentemente molto costosa, anche se la bocca verso fiume ha delle dimensioni piuttosto piccole.
La fig. 14 invece rappresenta una presa sotto il letto di un fiume ricoperto da un riporto di sassi e muratura a secco: esso dà un'acqua grossolanamente filtrata. Questo tipo di presa è molto adoperato in America. Una presa di questo genere è facilmente eseguibile con un ampio tubo metallico chiuso superiormente con una zuccheruola bucherellata.
I centri abitati che sono situati in vicinanze di un lago naturale o di una vallata, che con opere abbastanza facili può essere sbarrata, possono ricorrere alla loro utilizzazione con i seguenti vantaggi ed inconvenienti: grande volume d'acqua immagazzinata, sedimentazione naturale, diminuendo così le materie ed i microbî sospesi, freschezza dell'acqua al di sotto di una certa profondità (fig. 15); d'altra parte grande facilità di accrescimento di alghe e d'altri vegetali emananti cattivi odori, grande pericolo di inquinamento delle acque per cui è necessaria la loro filtrazione e sterilizzazione. Riguardo poi ai laghi naturali occorrono degli studî preliminari, come per i corsi d'acqua; bisognerà studiare il regime del lago, le variazioni di livello col mriare delle stagioni, le portate che può dare senza diminuire di troppo il suo invaso, la qualità chimica, biologica e batteriologica delle acque. La limnologia darà altri chiarimenti necessarî. La presa dell'acqua deve esser fatta nella località più favorevole e ad una profondità sufficiente per avere una bassa temperatura (almeno 10 metri in estate). A proposito della temperatura è bene far osservare che dalla fig. 15 si rileva che essa durante la stagione invernale rimane quasi sempre costante per tutta la profondità, mentre d'estate subisce un abbassamento rapido tra i 5 e i 15 metri di profondità sotto il pelo liquido e poi rimane quasi costante. Con la presa bisognerà allontanarsi il più possibile dalle sponde (possibilmente 200 m.), per avere la maggiore purezza possibile. La tubazione, che viene affondata dopo un rilievo preciso, deve essere sopraelevata alla presa mediante un castello metallico alto almeno 5 metri sul fondo stesso (fig. 16), o appoggiata sopra palafitte, o formata con una galleria sboccante sul fondo alla quota voluta. Diamo di seguito le misure di protezione da prendersi nella formazione di un lago artificiale per acqua potabile:
a) L'acqua di un lago artificiale, per la sua origine e per le sue qualità, è simile alle acque fluviali e perciò deve essere generalmente sterilizzata: in qualche caso però la protezione contro possibili infezioni esterne può essere sufficientemente assicurata con particolari provvedimenti locali.
b) Il bacino imbrifero del lago ariificiale deve essere popolato il meno possibile e non avere grossi centri abitati nelle sue prossimità: le sponde devono essere rimboscate ed i piani ridotti a praterie.
c) Per rendere migliore la qualità dell'acqua bisogna cercare che serva di irrigazione alle praterie prima di condurla al lago per mezzo di drenaggi.
d) Tutta la superficie di terreno coperta dall'acqua del lago deve essere completamente pulita d'alberi, radici, erbe, e lo strato di terra coltivata dev'essere levato intieramente.
e) L'epurazione delle acque può essere fatta con mezzi chimici o meccanici: tuttavia sarebbe bene eseguire una filtrazione naturale, la quale si ottiene con l'irrigazione di praterie ben protette dalle acque impure superficiali ed un drenaggio che trasformi l'acqua superficiale in acqua sotterranea.
Le prese possono esser fatte adottando le seguenti disposizioni, applicate per la presa sommersa di Milwaukee nel Michigan (fig. 17): essa è formata da una robusta tura divisa con tavoloni di cm. 30 × 5 distanti tra loro 5 cm.: gli scomparti, tranne il centrale dove sbocca il tubo di presa, sono riempiti per la parte sotto l'imboccatura del tubo in calcestruzzo e per la parte superiore con grossi ciottoli.
b) Sorgenti. - Si elencano di seguito secondo la loro origine e si dà una breve descrizione delle loro caratteristiche, perché è necessario conoscerle per stabilire senza errori le opere di presa. Per lo più per la presenza di frane e di falde di detrito le loro acque compiono un percorso considerevole nei materiali incoerenti prima di affluire all'esterno: in tal caso si deve distinguere la sorgente geologica dalla sorgente reale. Allorquando si tratta di utilizzare queste acque a scopo potabile, è necessario spingere i lavori di captazione fino al livello della sorgente geologica, poiché le acque nel percorso attraverso i detriti sono alquanto facilmente soggette ad inquinarsi.
a. Sorgenti di versamento. - Sono determinate dalla presenza di una roccia poco permeabile, che serve di base ad una formazione dotata di accentuata permeabilità: le acque scorrono sulla superficie inclinata di contatto fra le due rocce, sino a che affiorano in uno dei punti più bassi delle linee di intersezione della superficie di contatto con quella topografica (fig. 18). Condizione necessaria è che l'inclinazione degli strati non superi quella del terreno.
Casi particolari si hanno nelle sorgenti ascendenti quando lo strato acquifero compreso fra altri due relativamente impermeabili forma una piega sinclinale (artesianismo a bacino) e taglia la superficie esterna del terreno secondo due linee. Quella superiore serve all'assorbimento delle acque meteoriche che vengono trasportate altrove, e quella inferiore rappresenta il punto ove l'acqua sorgiva è costretta ad affluire (fig. 19).
Nelle sorgenti di sfioramento in cui la roccia meno impermeabile si trova sotto la roccia permeabile con la superficie di contatto disposta a bacino, nelle cavità risultanti si accumulano le acque fino a che non raggiungono il livello di almeno un punto della linea di intersezione della superficie di contatto colla superficie del terreno (fig. 20). Si hanno sorgenti di trabocco per sbarramento quando una formazione poco permeabile costituisce una specie di barriera, a monte della quale le acque si accumulano fino a che non riescono ad affluire all'esterno (fig. 21). Esse possono verificarsi sia nel caso che strati alternativamente poco o molto permeabili abbiano un'inclinazione assai più accentuata di quella del versante lungo il quale affiorano; oppure quando ad una roccia più antica e permeabile se ne addossa un'altra di formazione più recente e meno permeabile.
b. Sorgenti di convergenza. - Sono prodotte dall'affioramento nel fondo di una valle di una falda acquifera determinata dalla esistenza di uno strato impermeabile sotto un deposito alluvionale o un masso di calcare fessurato (acqua di fondo; v. fig. 22). Se si considerano le curve di livello della superficie del terreno e le isofreatiche, in un dato momento si avrà un afflusso di acqua nei punti dove quelle curve coincidono, di modo che la curva di livello comune sarà una linea di sorgenti la quale tenderà a spostarsi da monte a valle seguendo l'andamento delle precipitazioni atmosferiche. L'origine perciò di queste sorgenti è superficiale ed il loro deflusso può sparire con l'abbassarsi della falda freatica che le alimenta, anzi quando tendono ad occupare depressioni prive di scolo dànno origine a stagioni e laghetti atti a íavorire lo sviluppo della malaria.
c. Sorgenti diaclasiche. - La circolazione delle acque nelle masse calcaree fratturate è complicatissima: talora i corsi d'acqua sotterranei possono essere interrotti da bacini o riserve naturali in comunicazione con l'atmosfera, anche se si trovano a profondità di qualche centinaio di metri. Le sorgenti che ne derivano hanno per lo più una portata rilevantissima, soggetta però a forti variazioni. Altre volte le acque penetrate entro le fratture raggiungono grandi profondità, acquistando nello stesso tempo una pressione notevole: se allora le diaclasi, ove esse circolano, si chiudono, le acque sono costrette a risalire verso la superficie attraverso altri canali analoghi a quelli che hanno servito per la discesa. Si originano così delle sorgenti che rientrano nella categoria di quelle ascendenti dotate di una temperatura superiore a quella della regione di emergenza. Quelle che cessano di sgorgare nei periodi di siccità, e solo in caso di piogge abbondanti e prolungate continuano il loro afflusso, si chiamano temporanee, menne il nome di sorgenti intermittenti viene riservato a quelle che ritmicamente dànno o no acqua (fig. 23). Il fenomeno di questa regolare intermittenza, i cui periodi vanno da poche ore sino a molti mesi, è dovuto alla presenza di cavità sotterranee che comunicano colla superficie esterna per mezzo di un canale a forma di sifone. Ma quest'ultime si distinguono le sorgenti intercalari le quali ad intervalli fissi ed indipendenti dalle stagioni dànno alternativamente quantità di acque diverse, e le sorgenti intermittenti-composte alimentate da due cavità di ampiezza ineguale, comunicanti mediante un silone fra loro e per mezzo di un altro sifone con l'esterno.
d. Risorgenti. - Derivano dai risbocchi di fiumi, torrenti o di altre acque superficiali che improvvisamente si perdono nel terreno: sono acque sospette dal punto di vista igienico perché, avendo un percorso in parte superficiale ed in parte sotterraneo, lungo il quale per lo più non vengono completamente filtrate, trascinano germi e sostanze pericolose. Affini alle risorgenti sono le risultive, derivanti dalle acque superficiali che si perdono fra i ciottoli e nei coni di deiezione e ritornano poi all'esterno alla loro fronte. Le acque di queste risultive costituiscono spesso il principio di un corso d'acqua, oppure si dirigono altrimenti nella pianura. Tale fenomeno è particolarmente evidente nei coni di deiezione del Friuli ed è comune anche a molti fiumi della Valle Padana.
La captazione delle sorgentì è stata per molto tempo trascurata perché non si era ancora ricorsi alla geologia, che può fornire i dati generali per la risoluzione del problema indicando la posizione dei terreni permeabili ed impermeabili. Si deve pure ricorrere allo studio igienico delle acque con analisi chimiche e con analisi batteriologiche. Dalle prime si possono avere indicazioni se all'acqua profonda si mescoli abbondante acqua superficiale: quando invece la mescolanza avviene in piccola quantità bisogna ricorrere alle seconde per ottenere dati più precisi. Non è sufficiente ottenere un'acqua con una costante composizione chimica, ma occorre averla fresca, con una proporzione moderata di sali minerali, con poche sostanze organiche e specialmente esente da batterî patogeni. Perciò si devono prendere alcune precauzioni per impedire alle acque di scorrimento di giungere nel bacino della sorgente direttamente o dopo un breve percorso sotterraneo. Si consideri dapprima per esempio una sorgente di versamento sgorgante lungo un pendio montuoso dove lo strato geologico è ricoperto da materiali mobili franati. Attraverso ad essi passa l'acqua prima di rendersi visibile all'esterno in un punto più basso dell'affioramento dello strato impermeabile che serve di sostegno alla falda acquifera che l'alimenta. L'opera razionale di captazione deve allora comprendere un cunicolo orizzontale con la base appoggiata al tetto dello strato impermeabile. Se invece si considera una sorgente emergente, l'acqua sgorga generalmente attraverso uno strato alluvionale depositato sopra il fondo valle: deve venire captata per mezzo di un pozzo raggiungente lo strato geologico che l'adduce. Può essere che quest'ultimo non riesca a raccogliere tutti i filetti liquidi ed allora lo si deve completare con opportune gallerie laterali che abbiano un avanzamento perpendicolare alla direzione delle principali fenditure della roccia. Da ciò risulta evidente che una sorgente di versamento può essere captata a quota più alta del suo punto di sgorgo senza però aumentare la portata, laddove in una sorgente di emergenza, purché lo sgorgo non sia l'unico o l'ultimo sfogo dell'acqua di fondo, la portata può essere di molto aumentata abbassando la quota di presa con opportune opere. Questo abbassamento deve però esser fatto con grandi precauzioni poiché, se il nuovo livello è a quota inferiore delle acque superficiali vicine, si deve temere che queste s'infiltrino sino alla falda acquifera alimentante ed arrivino così all'edificio di presa dopo un percorso insufficiente perché possano depurarsi completamente. In tutti i casi è bene otturare gli eventuali canali delle acque superficiali verso la falda sotterranea con strati di argilla bene pilonati. Le opere di presa delle sorgenti sono perciò svariatissime a seconda delle condizioni locali; si descrivono ora brevemente il bottino di presa per sorgente con sbocco sgorgante, e poi le relative variazioni per sorgente con sbocco per trasudamento dalla roccia. Questi due tipi potranno essere applicati in quasi tutti i casi delle sorgenti di versamento, mentre per le sorgenti emergenti e diaclasiche molto spesso si può ricorrere alle gallerie di sbarramento del fondo valle o a pozzi in muratura o tubolari, come si vedrà in seguito.
Quando gli sgorghi non sono molto lontani tra loro (qualche metro), si può ricorrere ad un'unica opera di presa detta bottino di presa; se invece sono alquanto discosti si dovrà eseguire per ciascuno di essi un bottino più semplice del precedente per poi riunire le acque mediante collettori in un'unica camera di raccolta o di misura. La prima operazione da farsi è quella di ripulire la roccia nelle vicinanze dello sgorgo togliendone il cappellaccio, rimovendo la terra e i sassi di scoscendimento che ad essa si addossano, e tagliando la parete rocciosa quasi verticalmente. Apparecchiata così la fronte, è bene raccogliere le acque in una prima vaschetta, detta di decantazione (fig. 24), con fondo inclinato, di larghezza e lunghezza convenienti (dimensioni minime 2 × 3 metri) dove, smorzando la loro velocità, possono depositare la sabbia finissima che quasi sempre portano in sospensione. Questa vasca di decantazione è provvista, nel punto più basso del fondo, di un canale di scarico (generalmente costruito da un tubo di ghisa del diametro di mm. 100 provveduto all'estremità di una saracinesca d'arresto) e termina a valle con uno stramazzo in parete sottile, tanto alto nella parte mediana da far defluire l'acqua necessaria. Segue una seconda vasca, detta di presa che si approfonda da m. 1,50 a 2, sotto la soglia dello stramazzo: in essa pesca la zuccheruola del tubo di presa, bucherellata per trattenere le materie eventualmente trasportate dall'acqua e seguita da una saracinesca di chiusura. Siccome è indispensabile che le acque non vengano a contatto con l'atmosfera, le due vasche possono essere coperte da vòlta a botte impostata sopra i due piedritti laterali. Il muro frontale deve terminare sotto alla vòlta, poiché essendo diverso l'assestamento delle murature a vòlta da quelle piane, si produrrebbero in caso diverso delle soluzioni di continuità attraverso le quali potrebbe passare dell'acqua superficiale. Al bottino di presa si accede mediante una porta aperta sul muro frontale seguita da un vestibolo e poggiante sopra un gradino di cm. 30. Il vestibolo ha il pavimento inclinato verso la porta esterna per rendere impossibile l'entrata di eventuale acqua esterna: dall'altra estremità vi è la porta di accesso alla vasca di presa. Tutte e due le porte sono di ferro, apribili dall'interno verso l'esterno, affinché materie eterogenee depositate sopra di esse cadano sempre fuori dell'opera di presa, e per lo più sono congegnate in modo che l'interna non si possa aprire se l'esterna non è chiusa. Sotto al pavimento del vestibolo si apre un pozzetto largo circa m. 0,70-0,80 nel quale stanno le saracinesche del tubo di presa e di quello di scarico della vasca di decantazione. Per impedire all'acqua di risentire le variazioni della temperatura esterna, l'effetto del gelo e dei raggi solari, si ricopre tutta la costruzione con uno strato di terra alto 60-80 cm. sopra la volta e scendente lungo i piedritti a scarpata naturale. L'acqua meteorica si infiltra entro questo strato terroso ma non può raggiungere l'interno del bottino attraverso le murature poiché queste sono ricoperte con una cappa cementizia dello spessore di cm. 4-5. I piedritti si elevano in altezza sino a circa due terzi della freccia della vòlta, potendosi così disporre un timpano inclinato, che viene ricoperto dalla cappa, e dove questa termina si collocano dei tubi di drenaggio di terracotta, del diametro di 10-15 cm., innestati gli uni negli altri ed appoggiati sopra una cornice sporgente munita di apposito gocciolatoio, che ha l'ufficio di disperdere quell'acqua che eventualmente non fosse stata raccolta dai tubi di drenaggio. È importante notare che per impedire che l'acqua abbia a rigurgitare nel bottino e quindi diminuire l'efflusso degli sgorghi, si devono aprire nelle pareti della vasca di decantazione degli opportuni sfioratori con la soglia al livello massimo concesso. Questi sfioratori possono avere una larghezza di 50-60 cm., un'altezza di 30-40 cm.; la soglia è accuratamente cementata: l'acqua stramazzata si raccoglie in una vaschetta donde è smaltita mediante un tubo di scarico comunicante con un sifone o chiusino idraulico per evitare la comunicazione diretta coll'esterno. Questi chiusini sono di forme diversissime: uno dei tipi più semplici consiste in un pozzetto chiuso superiormente e diviso mediante una parete di cemento in due camere comunicanti inferiormente. Alla prima arriva il tubo di scarico dello sfioratore; dalla seconda, ad una altezza di 50-60 cm. sopra il fondo, parte il tubo verso l'esterno: una volta introdotta l'acqua nel chiusino, l'ambiente interno rimane completamente separato dall'esterno.
Quando le acque di una sorgente si manifestano per trasudamento da rocce conglomerate è conveniente costruire un'unica galleria di raccolta. La sua lunghezza dipende da quella degli strati trasudanti: in alcuni acquedotti come in quello di Siena si raccolgono in tal modo 150 litri al 1″. Per la costruzione di questo manufatto si deve pulire e denudare la roccia per tutta l'estensione dell'utilizzazione, e, con le stesse cure ed avvertenze già precedentemente accennate, costruire al piede della roccia in senso longitudinale il cunicolo di raccolta, avendo cura di intestarlo in quei punti dove non c'è stillicidio d'acqua (fig. 25). Questo cunicolo, possibilmente visitabile, deve avere una forte pendenza perché le acque possano raccogliersi o al centro o ad una estremità, dove si dispongono la vasca di raccolta e il tubo per la presa. Esso poggia sopra una platea impermeabile ed è costituito da una cunetta semicircolare di raggio variabile da cm. 50 ad 1 metro e con sponda che si eleva verso valle 50 ÷ 60 cm. sul pelo liquido. Appoggiata sopra di essa ed al muro di chiusura si dispone una banchina, larga non più di cm. 80 per consentire il passaggio ai sorveglianti; a questa banchina sottostà un canaletto per lo scarico delle acque di sfioro. La platea di base, che a monte si innesta solidamente nella roccia per impedire fughe d'acqua, a valle per la medesima ragione ha un muro frontale che si approfondisce nel terreno di fondazione m. 0,50 ÷ 1. Se la galleria ha due pendenze, la camera di raccolta e la vasca di presa, come quella precedentemente descritta, vengono disposte nel punto di mezzo, dove si ha la maggiore depressione: se ne ha una sola, esse vengono disposte ad un'estremità.
c) Falde freatiche e falde profonde. - Il primo strato acquifero prossimo alla superficie del terreno, che deriva direttamente dalle piogge o dalle infiltrazioni dei corsi d 'acqua sovrastanti, dicesi falda freatica, mentre il nome di falde profonde è attribuito alle zone acquifere separate da quelle superficiali da strati relativamente impermeabili. Queste acque profonde raggiunte con una perforazione tendono spesso a risalire verso la superficie ed anche ad elevarsi sopra il suolo: in tal caso costituiscono le falde artesiane. Le acque meteoriche, cadendo su rocce fessurate o anche sopra materiali clastici a grossi elementi e quindi dotati di notevole penetrabilità, vengono rapidamente assorbite: esse allora non circolano sotto forma di falde, ma si incanalano entro le fratture ed i meati e tendono a riunirsi in veri e proprî fiumi sotterranei scorrenti in gallerie. Queste acque di penetrazione o percolazione hanno un regime affatto diverso da quello che si verifica nei terreni porosi permeabili e sono caratteristiche delle rocce calcaree. La maniera in cui l'acqua scende nel sottosuolo ha grande importanza pratica, poiché l'acqua che si infiltra attraverso rocce minutamente porose si libera facilmente dalle materie perimlose dal punto di vista igienico, mentre quella che penetra lungo la diaclasi non può subire questa depurazione. Tuttavia è importante osservare come tra le acilue di infiltrazione quelle freatiche sono spesso sospette quando si trovano molto vicine alla superficie del terreno, mentre in alcune rocce permeabili le acque possono essere purificate allorché le fratture hanno pareti molto ravvicinate, oppure sono riempite parzialmente da materiali argillosi e silicei provenienti dall'alterazione della massa rocciosa. Le acque freatiche si presentano non solo nei terreni alluvionali incoerenti, ma anche nelle regioni dove la superficie è costituita da rocce compatte porose, o percorse da sottili meati (conglomerati, arenarie, ecc.). Queste rocce assorbono le acque meteoriche le quali, se trovano nella discesa un fondo impermeabile, si arrestano, si diffondono e crescono di livello dando origine ad una superficie acquifera analoga a quella che si verifica nei depositi alluvionali. L'acqua, dopo, può scendere lentamente verso le zone di maggiore deflusso attraverso i pori ed i meati. Anche in questo caso l'inclinazione del livello acquifero sarà tanto maggiore, quanto più forte è il richiamo alla base, e più lento il movimento entro gli interstizî della roccia compatta. Questa circolazione sotterranea differisce da quella delle acque freatiche le quali impregnano le alluvioni sciolte, per una maggiore differenza fra i limiti di velocità nelle diverse parti del sottosuolo. Allo strato impermeabile che serve di base alla falda freatica possono succedere altri strati di differente natura litologica, la cui alternanza è capace di determinare diversi livelli acquiferi profondi. Allorché uno strato permeabile è racchiuso fra due strati relativamente impermeabili disposti a conca (artesianismo a bacino) o comunque inclinati (pendio artesiano), le acque meteoriche che si infiltrano in corrispondenza, dei suoi affioramenti sono soggette ad una pressione piezometrica come se si trovassero in un tubo chiuso. Se in un punto del tetto dello strato permeabile si apre una comunicazione coll'esterno, l'acqua vi salirà tendendo a raggiungere l'altezza della linea dei carichi piezometrici che congiunge il punto di alimentazione delle falde con quello d'efflusso. Dalle osservazioni compiute in numervsi pozzi artesiani risulta come due di essi, vicini ed alimentati dalla stessa falda, possono influenzarsi a vicenda diminuendo così la portata reciproca. Inoltre il volume dell'acqua zampillante aumenta col diametro del pozzo, senza però essere proporzionaie alla sezione, e quanto più in basso viene attinta l'acqua. Per i comuni pozzi artesiani la portata Q cresce sensibilmente in ragione diretta della permeabilità K della massa filtrante e della depressione h, ossia della depressione effettiva del livello piezometrico, diminuita della perdita di carico dovuta sia all'attrito lungo la canna del pozzo, sia alla velocità di efflusso della bocca, e cioè:
in cui d è il diametro del pozzo, a l'altezza della canna filtrante ed R il raggio di chiamata. I pozzi artesiani vicini al mare subiscono assai sensibilmente l'influenza delle maree. L'alta marea aumentando il carico sopra i punti di uscita dell'acqua, che sono sotto il livello marino, per varî motivi meccanici ed idraulici ne diminuisce od annulla la velocità di efllusso, e quindi ne risulta innalzata la superficie piezometrica: il fenomeno contrario si verifica durante la bassa marea.
Il regime delle acque artesiane, frequenti in particolar modo nelle pianure alluvionali, non è in rapporto alle condizioni morfologiche della regione immediatamente sovrastante, ma a quelle che si osservano alla perileria del bacino od alla sua cintura montana. Mentre la superficie acquifera delle falde freatiche è variabile con le piogge che cadono direttamente sul terreno e con le piene dei fiumi vicini, il livello piezometrico delle acque profonde artesiane è più costante. Le acque sottratte dai pozzi sono lentamente rifornite e si stabilisce un equilibrio tra le acque uscenti in modo lento, uniforme e continuo, ed il rifornimento intermittente alle origini della falda, che possono essere lontanissime.
Sotto la zona freatica di una notevole parte della Valle Padana esistono parecchie falde acquifere profonde, che dànno origine a sistemi a pendio artesiano. Nella regione circumadriatica l'uscita delle acque salienti è spesso accompagnata da uscita di gas, dovuti alla lenta alterazione degli abbondanti resti vegetali racchiusi per fluitazione o per residuo di vita palustre nella massa sedimentaria. Entro la potente coltre alluvionale della Valle Padana la salienza delle acque profonde riesce tanto più accentuata, sino a superare il livello del terreno, quanto più questo è basso; quindi essa è soprattutto notevole lungo le linee speciali corrispondenti ad antichi corsi d'acqua. Queste falde sono in gran parte formate dalle acque meteoriche che cadono sui terreni quaternarî di costituzione grossolana dell'alta pianura fasciante le Alpi e gli Appennini, ma anche dalle acque scendenti dalle regioni sia subalpine, sia subappenniniche e quindi fuoriuscenti per lo più come acque subalvee profonde dalle vallate sboccanti sul piano. Possono essere captate per mezzo di: a) drenaggi; b) gallerie filtranti; c) pozzi in muratura o tubolari.
a) Drenaggi. - Quando queste falde sono poco profonde, si possono raggiungere con trincee sul cui fondo viene eseguito un drenaggio coperto superiormente da ghiaia e sabbia e poi da uno strato argilloso impermeabile costipato vicino alla superficie del suolo.
Il drenaggio visibile è soprattutto di utile impiego, poiché si possono sempre liberare dai depositi le feritoie laterali e pulire il fondo. Inoltre si può innalzare il piedritto, posto a monte, di uno o due metri al disopra della sua copertura per sopraelevare artificialmente il livello della falda idrica (fig. 26). L'estremità più bassa può essere chiusa con un solido muro attraversato da un tubo il cui deflusso sarà regolato da una saracinesca secondo i bisogni (fig. 27). In questo caso, quando le acque meteoriche non dànno una portata sufficiente, si può rinforzare la falda naturale con l'innaffiamento artificiale della superficie alimentante. È una specie di filtrazione intermittente: quando però gli strati sabbiosi o ghiaiosi attraversati dall'acqua di irrigazione sono di piccolo spessore, la filtrazione è insufficiente per ottenere un'acqua potabile. Cosi ci si avvicina alla creazione di una falda acquifera artificiale in strati permeabili poveri d'acqua. La fig. 27 mostra schematicamente il sistema: una derivazione da un corso d'acqua conduce l'acqua per mezzo di un canale in ampî bacini aperti negli strati sabbiosi (fig. 28). Il loro fondo è più elevato del livello naturale dell'eventuale falda sotterranea, cosicché l'acqua proveniente da essi provoca un suo innalzamento e produce un regime di filtrazione continua. Il limo che si deposita ostruisce però i canaletti del suolo aumentando la resistenza alla filtrazione, e provocando un innalzamento del livello liquido nei bacini: quando ha raggiunto il massimo bisogna eseguire un'accurata pulitura. Si può pure rinforzare una falda, senza distribuzione artificiale d'acqua superficiale, facendo discendere nella falda inferiore la portata di una superiore.
b) Gallerie filtranti. - Le variazioni di livello di una falda freatica in una vallata alluvionale e le sue relazioni con i diversi regimi del fiume sono molto variabili: Belgrand, avendo notato che in parecchi casi quest'acqua ha una composizione chimica ed una temperatura diversa da quella del fiume, concluse che tale falda è generalmente alimentata dallo sfioramento di acque sotterranee provenienti dai versanti della valle, e perciò le gallerie ed i pozzi filtranti non prendono l'acqua del fiume (fig. 29). Ciò però non avviene quando i versanti sono impermeabili e di conseguenza non contengono falde idriche. Allora l'acqua affluente nelle alluvioni della valle proviene dal fiume. Tra questi casi estremi ve ne sono numerosi di intermedî in cui la portata può ridursi di molto ed anche a nulla durante la stagione del massimo consumo. Per riconoscerli si fa un pozzo di assaggio vicino al versante con maggiori acque sotterranee: quando tali acque si versano nelle alluvioni, il livello d'acqua in esso è più elevato che nel fiume, la composizione chimica diversa, e l'acqua è più fresca in estate e più calda in inverno. Inversamente, quando si ha un livello più basso o quasi eguale a quello del fiume, la prova della proveni-nza fluviale è data dal parallelismo delle variazioni di questi due livelli e delle temperature, dalla composizione chimica, dalla facies bacterica. Lo studio della natura geologica dei versanti dà anche ragguagli sufficienti per la soluzione del problema. Nei casi misti si ha naturalmente una combinazione delle proprietà delle due acque e si può pure farsi un'idea delle proporzioni del miscuglio. È evidente che le modalità di captazione devono essere diverse a seconda che ci si trovi in un caso o nell'altro: quando il fiume non ha influenza in alcun modo, si rientra nel caso della captazione di una falda qualsiasi generalmente poco profonda e si deve allora scegliere tra le gallerie drenanti longitudinali ed i pozzi in muratura. Se al contrario il fiume alimenta una gran parte della falda, si deve prima di tutto condurre le acque fluviali nelle gallerie trasversali o nei pozzi filtranti, in modo che il passaggio attraverso l'alluvione permetta una sicura e costante filtrazione durante la traiettoria orizzontale dei filetti liquidi. La filtrazione orizzontale è variabile con i seguenti elementi:
1.° Dimensioni ed omogeneità delle sabbie e delle ghiaie attraversate.
2.° Spessore dello strato filtrante.
3.° Velocità di filtrazione, dipendente dalla differenza di livello tra l'altezza d'acqua nel fiume o il di sopra della falda sotterranea e la galleria. Questa velocità deve essere evidentemente moderata.
4.° Numero dei batterî dell'acqua, poiché non tutti sono fermati dallo strato filtrante, ma certamente ne viene stroncata la virulenza. Da ciò si desume che questa filtrazione dev'essere sorvegliata come quella artificiale, e che inoltre bisogna prendere grandi precauzioni nella scelta della situazione planimetrica ed altimetrica delle gallerie e dei pozzi. In particolare è evidente che queste opere non devono essere immerse nella falda non ancora filtrata, o che il loro contorno deve avere tale forma da obbligare i filetti liquidi a seguire un percorso orizzontale sufficiente per la loro potabilità. Essa può essere migliorata sostituendo lo strato filtrante naturale, quando è di qualità difettosa, con uno strato di sabbia pulita di riporto che potrà essere ulteriormente cambiato quando sarà intasato dal limo. Questo metodo riavvicina sempre più la filtrazione naturale all'artificiale, e permette di rispondere ad una delle più gravi obbiezioni a questo modo di captazione: e cioè che l'intasamento dello strato filtrante naturale fa diminuire molto rapidamente la portata, in modo che prima o poi l'opera deve essere abbandonata. Ora, se è facile sostituire un pozzo con un altro infisso a breve distanza, è quasi impossibile sostituire una galleria, specialmente trasversale (poiché una longitudinale potrà essere allungata).
c) Pozzi in muratura e tubolari. - I primi sono scavati da operai specialisti, che però raramente prendono tutte le precauzioni necessarie per evitare incidenti. Quando si devono attraversare terreni compatti non vengono puntellate le pareti ed un operaio lavora sul fondo mentre un altro è all'argano di manovra per sollevare le terre scavate. Nella roccia si può approfondirsi così senz'alcun pericolo, purché si abbia la precauzione di staccare dalle pareti, a misura che si scende, tutti i sassi vacillanti. Giunti alla falda acquifera, si abbassa il pozzo nell'acqua il più possibile, lavorando naturalmente nell'epoca in cui si hanno i periodi di magra. Spesso è inutile proteggere questi pozzi con muratura, salvo che nella loro parte superiore dove si attraversano strati formati da materiali minuti. Il cilindro di muratura poggia allora sopra un gradino fatto nello strato roccioso. I pozzi da eseguirsi invece negli strati terrosi o argillosi, e soprattutto in quelli sabbiosi, sono i più difficili e pericolosi da scavarsi poiché devono essere blindati con forti sbadacchiature e la muratura dev'essere costruita per tutta la loro profondità. Quando poi la coesione del terreno è troppo piccola, il procedimento più economico e più rapido è di costruire la muratura sopra un supporto cilindrico formato da ferri sagomati e tagliente in basso (fig. 30). Si procede scavando o dragando all'interno sotto tale anello che si abbassa così un po' per volta anche per il peso della muratura sovrastante. Quando si procede all'aspirazione di acqua da un pozzo, specialmente in modo continuo, nella falda si produce una depressione imbutiforme, la quale si allarga superiormente sopra una certa superficie. È bene conoscere quest'ultima per vedere se due pozzi si influenzano o se al pozzo possono concorrere filetti liquidi infiltratisi nel terreno in località abitate o igienicamente pericolose. Il calcolo teorico, che suppone l'omogenità degli strati e il fondo orizzontale dello strato impermeabile, non può dare che raramente tale soluzione, e bisogna più spesso ricorrere all'esperimento diretto. In questo caso per ciascun grado di esaurimento o per ciascun abbassamento del livello liquido si misurerà la depressione di livello in tutti i pozzi vicini che sono influenzati.
La fig. 31 mostra il risultato di uno studio di questo genere fatto da Thiem per conoscere la potenzialità della falda sotterranea alimentante Monaco: la depressione provocata da un abbassamento di 5 metri è dissimmetrica e si estende sino ad un villaggio, e perciò un aggottamento prodotto da pompe sino a questa profondità avrebbe recato nocumento ai pozzi di quel centro abitato, e, quel che è più dannoso, avrebbe facilitato l'assorbimento dei filetti liquidi passanti sotto il villaggio e certamente inquinati. Numerose città situate in pianure alluvionali attingono l'acqua dalla falda sotterranea generalmente abbondante e potabile col mezzo di pozzi di grande diametro discesi normalmente sino a 30-50 metri sotto terra (fig. 32).
Un pozzo tubolare da infiggersi a profondità poco rilevante è forato nella parte inferiore ed è munito di puntazza. Viene approfondato nel terreno per mezzo di un battipalo sinché la parte forata non sia giunta alla falda acquifera. Si aspira allora con una pompa, o direttamente nel tubo o introducendo nel suo interno un altro tubo, il che è preferibile perché l'acqua posta tra di essi giova come riserva ed evita eventuali colpi d'ariete. Naturalmente, per avere la maggiore portata possibile, conviene che la parte forata attraversi tutto lo spessore dello strato acquifero, ed è utile che la somma dei fori di una sezione trasversa sia superiore all'area del tubo, normalmente 1,5 volte. La portata diminuisce molto rapidamente col diminuire delle dimensioni della sabbia, un po' più rapidamente del quadrato, e varia anche, con la pressione, ma in questo caso si allontana dalla legge di proporzionalità. Nella pratica si è molto spesso lontani dalle condizioni teoriche, perché si manifestano dei trasporti di sabbia che finiscono col produrre un vuoto attorno ai fori della puntazza. Questi pozzi presentano dei grandi vantaggi igienici sui pozzi in muratura, perché non si capta che l'acqua profonda, non vi è possibilità d'infiltrazione rapida delle acque superficiali, della polvere, di piccoli animali, e non possono essere facilmente inquinati. Con questo modo di captazione è necessario eseguire assaggi lunghi e prolungati, specialmente se la falda è profonda. Tale procedimento è tanto più costoso quanto più essa è profonda ed è perciò limitato dalle esigenze finanziarie. Si comincia dapprima con le ricerche idrogeologiche che daranno l'indirizzo alle ricerche, e poi si eseguirà il pozzo trivellato d'assaggio che deve discendere sino alla falda acquifera per misurare le variazioni di portata col variare della depressione. Per le profondità sino ai 30 metri circa si adopera il materiale di sondaggio dei pozzi Northon; per quelle maggiori bisogna ricorrere a trapani speciali mossi per mezzo di aste rigide vuote per permettere il passaggio di acqua o d'aria previamente compressa, o a corone di acciaio munite anche di punte di diamanti che taglieranno le rocce con il loro moto circolare. Una delle grandi difficoltà che si presentano nella manutenzione di questi pozzi, situati per lo più in terreni alluvionali e perciò sabbiosi, è di impedire il trasporto, attraverso i fori o le fessure di presa del tubo, dei granuli di sabbia; ciò deve farsi per avere un'acqua limpida, e impedire l'ostruzione progressiva dei fori, la relativa diminuzione della portata, e, quel che più importa, il franamento degli strati in vicinanza al filtro del pozzo, che finisce col metterlo fuori servizio in breve tempo. Il rimedio più semplice, quando le sabbie sono piuttoato grosse, si ottiene rivestendo l'esterno della parte bucherellata del pozzo con una serie di reti a maglie fitte, od introducendo nel suo interno una specie di canestro allungato formato pure di rete sottile e levabile per la pulitura. Quando però la sabbia diviene sottilissima bisogna infiggere dapprima un tubo a grande diametro (a) nel cui interno se ne introdurrà uno (b) di diametro sensibilmente minore (fig. 33). Tutti e due sono bucherellati per l'altezza utile dello strato acquifero e tra di essi si pone della ghiaia di spessore decrescente da b verso a, che funziona da filtro per l'arresto delle sabbie. Per porre i diversi strati anulari di questo filtro, si possono adoperare dei cilindri mobili verticali formati con lamiera sottile e di diametro gradualmente variabile. L'esperienza ha dimostrato che in pratica si può sollevare il tubo esterno a dopo preparato il filtro, e così il riempimento di sabbia grossa e ghiaietto rimane a contatto con la sabbia acquifera verso l'esterno e col tubo di presa verso l'interno.
Per captare così le falde profonde come quelle a minore profondità si deve scegliere tra i due procedimenti per punti successivi o per linea continua. Segue perciò qualche considerazione utile basata sulla distinzione delle falde acquifere a seconda della natura dei terreni e della linea dei carichi piezometrici:
a) Sia dapprima la falda idrica senza pressione. Quando si tratta di una falda che produce l'imbibizione uniforme dello strato permeabile, non è molto diverso procedere alla sua captazione per mezzo di galleria o di pozzi. È sufficiente che questi ultimi sieno situati in modo che toccandosi le loro zone d'influenza captino tutta l'acqua seguendo la linea prestabilita. La galleria presenta un grande vantaggio quando può evacuare le sue acque per gravità, mentre i pozzi possono essere più facilmente sostituiti in caso di intasamento. Non è lo stesso se la falda è discontinua, alimentata da una rete di canali sotterranei, poiché è evidente che un pozzo può cadere nell'interno di una maglia e dare portata nulla, pur passando accanto ai filetti liquidi. In questo caso una galleria può riuscire molto più facilmente, perché con la sua continuità deve incontrare almeno una parte dei canali sotterranei.
b) Quando la falda idrica è artesiana bisogna procedere diversamente. In caso di artesianismo completo, ossia quando l'acqua risale sino alla superficie terrestre, è molto più favorevole la posa in opera dei pozzi tubolari: senza dubbio con una falda a maglie alcuni di essi possono risultare improduttivi. In questo caso bisogna eseguirne parecchi, in modo che quelli utili diano la portata della falda, ma la facilità della loro posa in opera ed il vantaggio d'avere l'acqua senza innalzamento meccanico non devono far rimpiangere l'esecuzione inutile di qualche sondaggio. Quando invece l'artesianismo è incompleto, o quando dà una portata insufficiente, la questione è discutibile e molto complessa. Se la galleria può essere situata ad una profondità del suolo che non sia troppo grande, è facile la sua esecuzione, e per la sua continuità può sventrare più facilmente gran parte dei canaletti della falda acquifera. Questa galleria sarà sempre posta sul tetto dello strato impermeabile portante quello permeabile, o almeno il più basso possibile. In questo caso essa è completamente, o quasi, immersa nella falda, per cui si potrebbero incontrare delle grandi difficoltà d'esecuzione alla profondità richiesta. Allora si deve porla in mezzo ad uno strato impermeabile superiore e provocare l'ascensione delle acque con pozzi tubolari. Se, al contrario, il livello dell'acqua rimane troppo profondo, l'esecuzione di una galleria nella falda sarà ancor più difficile; allora si deve ricorrere ad un certo numero di pozzi le cui acque possono essere sollevate per mezzo di pompe in ciascuno di essi, oppure possono essere raccolte con una tubazione posta al disotto del loro livello piezometrico minimo.
c) Rimane infine il caso complesso in cui si debba attingere l'acqua contemporaneamente da più falde acquifere sovrapposte non completamente artesiane. Si devono anzitutto rilevare i loro livelli piezometrici: quando questi sono molto diversi, si dovrà eliminare la galleria e costruire dei pozzi discendenti a ciascuna falda, raggruppati possibilmente con sifoni in un'unica centrale di sollevamento. Quando invece i livelli piezometrici sono quasi eguali e risalgono abbastanza vicini alla superficie in modo che sia pratica ed economica un'unica captazione, allora si deve costruire una galleria unica. Essa può raccogliere semplicemente dai pozzi le portate di diverse falde ed essere il loro collettore generale, o drenare direttamente una delle falde e captare con pozzi le altre, o ancora essere situata al di sotto dello strato impermeabile di una di esse e captarla con pozzi discendenti, mentre le altre saranno captate con pozzi ascendenli. Si comprende facilmente che in ciascun progetto si devono bilanciare i vantaggi e gl'inconvenienti di ciascun sistema, quali: il costo spesso molto elevato delle gallerie; la complicazione portata dai numerosi impianti di sollevamento nel caso dei pozzi; le spese di manutenzione e la facilità degli aggiustamenti e delle sostituzioni (fig. 34).
Concludendo, si può ricordare che le sorgenti hanno per la maggior parte un grande inconveniente, e cioè la diminuzione, spesso molto cospicua, delle loro portate nei momenti di grande siccità, quando maggiore è la richiesta d'acqua potabile. Non è così nei prelevamenti dalle falde profonde, poiché, subendo più lentamente l'influenza delle piogge, conservano una portata quasi costante ed inoltre possono essere regolate. Cioè si può nei periodi di acque molto abbondanti captare una parte solamente delle acque disponibili, e conservare il rimanente come riserva nel terreno. Con i pozzi, le cui acque non salgono sino alla superficie, è sufficiente regolare l'innalzamento meccanico. Perciò il livello piezometrico della falda, abbassatosi durante il consumo massimo, potrà innalzarsi di nuovo, immagazzinando la quantità d'acqua dovuta alla differenza tra la richiesta massima e la minima che verrà utilizzata durante le epoche di siccità. Con i pozzi completamente artesiani, bisogna invece ricorrere alla regolazione delle luci di deflusso, restringendone il diametro od innalzandone la quota di scarico. Quanto alle gallerie filtranti, o captanti, si regola la loro portata per mezzo di sbarramenti murarî fortemente ancorati al loro perimetro e attraversati da un tubo regolabile con saracinesca.
3) Adduzione delle acque dall'origine ai centri di consumo. - L'adduzione delle acque viene eseguita normalmente mediante tubazioni in pressione, che possono essere metalliche (acciaio, ghisa centrifugata, ghisa comune) o cementizie (calcestruzzo semplice o armato; calcestruzzo centrifugato; eternit). I loro costi sono molto variabili: ad ogni modo, come indicazione, si può ritenere che quelle in calcestruzzo centrifugato costino metà di quelle di ghisa, e quelle di eternit solo un terzo di meno. Però queste tubazioni, che godono tali vantaggi economici, possono sopportare solamente 5 atmosfere di esercizio e devono servirsi di giunti diversi a seconda delle condizioni dei terreni sopra cui si posano: si hanno così giunti rigidi (a bicchiere, con riempimento di cemento liquido), e semirigidi od elastici con uso di anelli, di gomma, che, se non sono di prima qualità, possono produrre delle abbondanti perdite. Non descriviamo in questo articolo le complesse e specialissime modalità di esecuzione delle singole strutture delle tubazioni ed i relativi pezzi speciali.
Il calcolo del diametro di una condotta si può fare con varie spressioni, ricavate da dati pratici. Viene ora consigliato l'uso della formula del Fantoli per tubazioni usate:
che concorda abbastanza bene con i risultati ricavati dall'espressione del Sonne e del Darcy-Bazin.
L'espressione ricavata dal Darcy, più comunemente indicata nei manuali e per la quale si trovano anche parecchi specchi riassumenti i risultati maggiori del calcolo, corrisponde abbastanza bene nel caso di tubazioni nuove, mentre per quelle usate dà valori assai inferiori al reale quando si tratti di diametri inferiori ai 100 mm., ed esagerati per diametri superiori ai mm. 300. Il rapporto non va considerato costante, ma decresce coll'aumentare del diametro e precisamente:
Non considerando il problema del minimo costo, si adopera semplicemente l'espressione precedente quando in un determinato tronco non si hanno né diramazi0ni secondarie, né erogazioni di sorta. Invece, nell'ipotesi di una conduttura con semplici diramazioni secondarie a portata costante, la perdita di carico totale sarà espressa da:
Invece nel caso di erogazione uniforme lungo il percorso, come si verifica nelle distribuzioni di un centro urbano, qualora le prese di carico per uso dei varî fabbricati che fiancheggiano la condotta si potessero considerare come uniformemente distribuite lungo la condotta e di uniforme portata, si avrà, chiamando con Qe la portata che entra nella tubazione, Qu quella che esce, e q l'erogazione unitaria lungo il percorso:
Si può semplificare il termine tra parentesi, con errore nullo nelle applicazioni pratiche, sostituendolo col quadrato della portata d'estremità Qu aumentata di 0,55 q • L, e cioé porre:
Nel caso in cui la portata di estremità Qu sia eguale a zero, la formula precedente viene così semplificata:
Da ciò si deduce che una tubazione, la quale eroga uniformemente lungo tutta la sua linea un volume totale Qe, perde in altezza la terza parte di quanto perderebbe erogando lo stesso volume alla sua estremità. Volendo l'espressione (3) anche in funzione di Qe, poiché 0,55 Qu + 0,55 q L = 0,55 Q l, essa può essere espressa come segue:
Nelle tubazioni, invece, costituite da tronchi susseguentisi parte a portata costante, parte ad erogazione uniforme lungo il percorso e portata d'estremità, si ha:
In tutti questi calcoli però è di grande importanza la clausola che l'impianto da progettarsi risulti economicamente il migliore. Tra le grandezze che entrano nella relazione (1), la portata Q è una quantità che si determina in base alle condizioni ed alle esigenze locali; così pure la lunghezza L delle tubazioni è data dalla posizione delle sorgenti e della rete di distribuzione delle acque; infine la differenza di livello tra quelle due località fornisce l'altezza H utilizzabile come perdita di carico, tenuto però conto che le acque devono avere un'altezza residua di pressione da determinarsi di volta in volta secondo le caratteristiche altimetriche della zona da servire. Con ciò rimane indeterminata la grandezza D, ossia il diametro da assegnare alla tubazione. Però nelle tubazioni costituite da più tronchi susseguentisi con portate diverse, non è sufficiente la conoscenza dell'altezza utilizzabile totale H per risolvere il problema, ma bisogna conoscere le perdite di carico alla fine dei varî tronchi elementari. Queste quantità che in generale vengono fissate ad arbitrio per rendere determinato il problema, in seguito all'introduzione della clausola del minimo costo, risultano determinate con un calcolo abbastanza esatto, eliminando così ogni causa di incertezza e di arbitrio.
La perdita totale H per il tronco di tubazione lungo L è (considerando la quantità c costante con il diametro, per le sue relativamente piccole variazioni):
Ora se il costo di una tubazione è, con sufficiente approssimazione, proporzionale al diametro e alla sua lunghezza:
e se il primo varia uniformemente lungo il percorso, si ha:
Questo valore deve essere minimo applicando l'equazione di condizione (7). Secondo la teoria del calcolo delle variazioni, data l'espressione
che deve sussistere contemporaneamente a
il valore di y che soddisfa queste condizioni è dato dall'equazione
sempre però che la derivata seconda
per x compreso tra 0 ed L rappresenti un valore positivo. Nelle condizioni poste attualmente, la (9) diviene
e la (10)
il che corrisponde ad un valore positivo. L'equazione (11) rappresenta così la soluzione del minimo costo, per cui:
dove C rappresenta una costante da ricavarsi caso per caso.
In pratica si può semplificare quanto sopra nei problemi che si verificano normalmente, poiché la legge della variabilità di Qr si può quasi sempre ridurre ad una legge lineare.
a) Tronco a portata costante: hx = costante e Dx = costante.
da cui si deduce che la linea della perdita di carico è una retta.
b) Successione di tronchi a portata costante:
c) Tronco con erogazione uniforme lungo il percorso (tronchi terminali di una rete):
Il diametro si determina in ogni sezione mediante la conoscenza di hx e Qx. Esso quindi dovrebbe essere variabile con continuità ed il suo diagramma sarebbe una parabola di terzo grado. Supponendolo invece costante, come succede nella pratica, non si verifica più la condizione di minima spesa. In tale ipotesi:
d) Tronco di conduttura con erogazione uniforme lungo il percorso e portata costante nell'estremità:
Con ciò si ha, come nel caso precedente, un diametro variabile con continuità: siccome però è economicamente opportuno adottare i diametri in commercio, bisogna scegliere quello o quelli che sotto eguali condizioni di portata forniscano un'eguale perdita finale di carico, ottenendosi così una linea piezometrica che si avvicina assai a quella economicamente più vantaggiosa.
e) Successione di tronchi ad erogazione uniforme lungo il percorso, e di tronchi a portata costante:
4) Reti urbane. - Occorre ora estendere l'esame ad un'intera rete di distribuzione, cercando di raggiungere lo scopo che ogni punto del territorio possa ricevere la quantità d'acqua necessaria alle condizioni preventivate di pressione, e che l'impianto sia economicamente il migliore. Se l'enunciato del problema è facile a dirsi, non altrettanto ne è la risoluzione. Troppe sono le incognite relative a tutte queste masse d'acqua fluenti in una rete cittadina perché il problema possa riuscire determinato; occorre dunque porre alcune ipotesi che si distacchino il meno possibile dalla clausola del minimo costo. La prima ipotesi che deve esser fatta è quella che l'acqua raggiunga il posto di distribuzione secondo la via più breve. Veramente la soluzione del minimo costo dovrebbe considerare la riunione della maggiore quantità d'acqua possibile e la più accurata utilizzazione dei territorî maggiormente elevati come sede delle condutture principali. Però un più approfondito esame del problema porta alla conclusione che il deviare dalla via più breve con lo spostare le tubazioni principali sui territorî più elevati presenta solo di rado un vantaggio economico, e ad ogni modo solo di secondaria importanza. Quanto poi alla riunione di grandi quantità d'acqua, essa rappresenta un'economia relativamente piccola e non sempre ben realizzata: infatti il raggruppamento delle acque in poche condotte presenta l'inconveniente che durante le inevitabili interruzioni di una di queste si producono delle perdite esagerate di carico nella rimanente rete, con perturbazione generale della distribuzione.
Con l'ipotesi del percorso più breve risulta facile determinare sopra una planimetria il corso delle acque: noti i quantitativi di consumo in ogni singolo punto della rete, e note le vie che l'acqua dovrà seguire per raggiungere la sua località di utilizzazione, si possono subito determinare le portate dei varî tronchi e quindi delimitare le condotte principali, ossia quelle attraverso le quali scorrono le maggiori quantità d'acqua. L'intera rete di distribuzione resta così scomposta in condotte principali, in condotte secondarie ed in semplici tronchi di collegamento. Giunti a questa suddivisione, si passa senz'altro al calcolo delle diverse tubazioni secondo il procedimento del minimo costo, iniziando il calcolo dalla condotta principale più sfavorevolmente situata e passando man mano alle altre, indi alle secondarie e così via sino alle elementari.
Ciò fissato, occorre determinare quali siano le strade che devono essere servite, determinazione che dipende sopra tutto dalle esigenze e condizioni locali. Si deve tener conto delle zone verso le quali con maggior probabilità si avrà un ingrandimento cittadino estendendo anche ad esse la distribuzione o tenendone almeno conto nell'impostazione dei calcoli e nella compilazione dello schema inerente al corso delle acque. Può inoltre riuscire vantaggioso per la distribuzione il collegamento di due o più tronchi staccati mediante una tubazione allacciante per formare un circuito chiuso, quand'anche essa dovesse essere collocata in località estranee alle vie da seguirsi direttamente. Stabilito così l'andamento delle tubazioni, se ne riporta il tracciato sopra una planimetria dell'abitato e su questo schema si procede alla ricerca del corso delle acque secondo la ipotesi della via più breve. Ove il grafico delle tubazioni si presentasse sotto la forma di ramificazioni semplici (fig. 35), la determinazione del corso delle acque sarebbe subito fatta. Se A rappresenta il nodo d'introduzione delle acque, B e C i territorî da alimentare, la via più breve è senza dubbio quella indicata dalle frecce. Però una rete di distribuzione d'acqua potabile si presenta assai difficilmente sotto un aspetto così semplice, tanto più che questa soluzione presenta grandi svantaggi. Infatti nel caso che si verificasse una rottura in H, l'intera zona B rimarrebbe senza alimentazione idrica durante tutto il periodo della riparazione: pericolo gravissimo specialmente in caso d'incendio.
Inoltre l'acqua nei tronchi finali di una condotta così costituita rimane pressoché in riposo, per cui, oltre ad acquistare uno sgradevole sapore metallico, viene a raccogliere in questi fondi ciechi tutte le impurità della tubazione, il che certo non è giovevole. Perciò si deve cercare di collegare tra loro le varie tubazioni in modo che l'acqua sia sempre in movimento (fig. 36): in questo caso la determinazione del corso delle acque secondo la via più breve è un po' più complicata, ma di facile attuazione. Si abbia una tubazione chiusa ad anello e sia A il nodo d'immissione. È chiaro che, nell'ipotesi che le acque seguano la via più breve, il vertice 1 deve essere alimentato secondo la via A − 1, mentre il vertice 7 secondo la via A − 7 per cui l'acqua proveniente da A si biforca in due parti delle quali una prenderà la via A − 1 − 2 e l'altra la via A − 7 − 6. Deve perciò esistere un punto B che può venire alimentato indifferentemente, tanto seguendo la via A − 1 − 2, come seguendo la via A − 7 − 6. Tale punto, che bipartisce la tubazione poligonale in due rami distinti e con direzione opposta di corrente, si chiama punto di separazione delle acque ed è situato nel giusto mezzo, a partire da A, del perimetro poligonale A − − 2 − 3 − 4 − 5 − 6 − 7 − A. Questa ricerca è puramente grafica, e così, proseguendo lungo gli altri anelli e ponendo le frecce secondo il senso della corrente, restano individuati i percorsi che le acque devono seguire per portarsi al punto di utilizzazione secondo il cammino più breve. È opportuno in seguito considerare se, allo scopo di migliorare la distribuzione, non convenga procedere a qualche spostamento dei punti di separazione in dipendenza dalle condizioni locali, o modificare il percorso di qualche tubazione, oppure aggiungere qualche tratto non considerato. A questo proposito si ricordi che, ove gli spostamenti non abbiano a risultare eccessivi, si deve procurare che le località più elevate possano venir servite da tubazioni principali. Sulla base dello schema così modificato si determinano poi le portate e le competenze dei varî tronchi. Per questo si comincia col prendere in esame le porzioni di tubazione comprese tra due nodi consecutivi, e si determina secondo i dati degli ultimi censimenti il numero degli abitanti che sono alimentati da esse: se non è possibile ricavare così la diversa densità della popolazione, la si potrà ottenere facilmente considerando la variazione di densità dei caseggiati e della loro diversa altezza. È sempre consigliabile far risultare la diversità del numero degli abitanti moltiplicando la lunghezza effettiva di ciascun tronco stradale per un indice di correzione, lasciando sempre costante l'intensità media della popolazione in relazione alla totale lunghezza delle strade abitate. Inoltre bisogna tener presente che nelle zone centrali ove massima è l'agglomerazione, il numero così risultante non deve essere accresciuto di tutta la percentuale d'aumento prevista per il futuro, che sarà invece applicata integralmente dove è compatibile un maggiore agglomeramento, e con scalare aumento nelle zone periferiche poco abitate, verso le quali, in base ai piani regolatori, si incanalerà l'espansione futura della città. Determinato per ogni singolo tronco di condotta il numero degli abitanti, che dalla stessa devono ricevere la quantità d'acqua necessaria, si consiglia di istituire alcuni specchi, compilati come i due alla colonna seguente, ricordando che:
in cui la competenza q1 in litri al 1″ per abitante vien data dalla
Di seguito è opportuno redigere un terzo specchio ove, sulla base del percorso più breve delle acque, con inizio dalle tubazioni elementari, vengono per ogni tronco riportate le sue erogazioni particolari, nonché quelle delle diramazioni da esso dipendenti. Si ricava perciò la portata iniziale Qe e la finale Qu di ciascuno di essi. È superfluo osservare che la portata iniziale di un tronco corrisponde alla somma della sua erogazione particolare e di quella delle tubazioni elem-ntari che da esso si dipartono, e similmente la portata finale corrisponde alla portata iniziale diminuita della particolare erogazione che si verifica lungo di esso. Invece come portati media di un tronco con erogazione iniziale Qe, e finale Qu, si intende il valore:
e con erogazione solo lungo il percorso
Determinato questo terzo specchio, restano da individuare quali siano i tronchi principali, secondarî, elementari, che costituiscono la rete cittadina, dopo di che si eseguisce il calcolo del diametro delle singole tubazioni in cui è stata scomposta, seguendo il procedimento del minimo costo, ed iniziando le operazioni dalla condotta principale e più sfavorevolmente situata, per passare poi man mano alle altre. Come altezza utilizzabile quale perdita di carico della tubazione principale, si prende il dislivello H tra la quota di origine e quella topografica del punto di estremità aumentata del franco, necessario per assicurare la distribuzione sino ai più alti fabbricati. Determinati i diametri, e successivamente la linea piezometrica relativa al tronco principale secondo l'ipotesi del minimo costo, si passa al secondo tronco, con l'avvertenza che la perdita di carico utilizzabile è data dalla differenza tra la quota piezometrica precedentemente calcolata del nodo 2, e la quota topografica del punto F, aumentata, come già si disse, del franco richiesto in questa località. Analogamente si procede per i tronchi successivi sino agli elementari: è opportuno però notare che per questi ultimi non si devono più applicare le portate risultanti dai computi qualora fossero inferiori ad un determinato valore minimo. Infatti è indispensabile che una condotta sia capace di sopperire in ogni suo punto alle richieste straordinarie che possono verificarsi in caso d'incendio, e che sono certamente di molto superiori, nelle tratte estreme, alle richieste ordinarie, sia pure nelle ore di massimo consumo. Così, allo scopo di essere sufficientemente premuniti contro un eventuale incendio, nei centri rurali si deve avere a disposizione in qualsivoglia punto delle condotte una portata di almeno 2 litri al 1″, mentre per i centri più ragguardevoli tale portata deve essere aumentata a 3-4 litri al 1″, sino a 10 per le grandi città. Pertanto tutte le tratte, che dallo speccnio N. 3 risultano con portate inferiori ai dati sopra riferiti, devono essere inserite nel calcolo come tronchi a portata costante. Infine si consiglia di non adottare, almeno nella distribuzione di centri importanti, diametri inferiori ai 100 mm., quand'anche i risultati del calcolo lo permettessero.
In alcune reti vi sono alle volte due ed anche più tronchi che per le loro condizioni di portata e di ubicazione pressoché analoghe, possono far dubitare quale sia il più importante e sfavorevolmente situato (fig. 37). Per poter procedere a questa determinazione con tutta sicurezza, si riportino sopra uno stesso piano, partendo dall'origine, i profili longitudinali dei tronchi che si considerano di primaria importanza e fra i quali si vuole individuare il più sfavorevolmente posto. Siano questi, ad es., i tronchi O − A, O − B, ed O − C. Dai punti estremi di ogni tronco si innalzino delle verticali e su di esse si riportino i segmenti A − A′, B − B′, C − C′ corrispondenti al franco che si vuole mantenuto ad ogni estremità, collegandoli poi con O. Di queste tre linee, che schematicamente rappresentano le piezometriche, quella che sta superiormente a tutte è la O − C′, e pertanto il tronco O - C è il più sfavorevolmente situato, per cui ad esso deve essere applicato per primo il calcolo, secondo il concetto del minimo costo. Susseguentemente il calcolo dovrebbe essere applicato al tronco O - B. Ciò non deve essere inteso in senso assoluto, ma rappresenta una traccia del procedimento nei casi ordinarî. Pertanto, mentre per le distribuzioni sopra territorî pianeggianti la scomposizione dell'intera rete può farsi solamente in base ai dati dello specchio N. 3, per le distribuzioni sopra località accidentate occorre dare il maggiore sviluppo al profilo altimetrico, includendo in esso, sempre secondo la direzione delle acque, non solo tutti i tronchi principali ma anche i secondarî e le loro ramificazioni. Si deve poi controllare che in corrispondenza dei culmini, anche intermedî, il franco sia sempre superiore al minimo compatibile. Così si può determinare l'andamento planimetrico ed altimetrico dei varî tronchi e compilare la graduatoria, che deve essere adottata per il calcolo secondo il concetto del minimo costo. Nel caso poi che tali risultati generassero ancora incertezza per le speciali condizioni del luogo, si ricorrerà di nuovo allo specchio N. 3 per scegliere quel tronco che come portata risultasse più importante.
Bisogna ora ricordare che il calcolo dei diametri in base alle perdite di carico, determinate seguendo il concetto del minimo costo, può segnalare delle dimensioni non esistenti in commercio. È necessario perciò sostituirle con quest'ultime, dividendo magari il tronco in più tratti a diametri variabili per allontanarsi il meno possibile dalle quote piezometriche teoriche. Indubbiamente queste ultime assumeranno valori più o meno diversi a seconda della cura posta nell'adattamento pratico. Risulteranno pure spostati i punti di separazione delle acque nei tronchi di collegamento. Se le differenze fossero di piccola entità, non è il caso di preoccuparsene, poiché nei tratti allaccianti e di estremità le portate furono considerate di molto superiori a quelle normali, e quindi gli spostamenti non dovrebbero ripercuotersi sino al nodo di alimentazione. Nel caso però che fossero tanto considerevoli da far variare il collegamento di alcuni tronchi in modo che non riuscissero ad essere più alimentati dalla tubazione principale, il calcolo eseguito non potrebbe più sussistere, e dovrebbe essere rifatto in base alle nuove risultanze.
Noto tutto ciò, si calcola il valore di C con la seguente espressione:
e si potrà compilare lo specchio N. 4.
Con questi dati e con l'aiuto delle tavole già calcolate dai manuali, vennero determinati i diametri commerciali da adottarsi, e quindi, con l'espressione del Fantoli, le perdite effettive di carico per cui fu possibile redigere l'ultimo specchio N. 5.
Il procedimento generale che si è così illustrato si presenta all'atto pratico assai più sollecito di quanto sembri: infatti molti dei valori degli specchi1, 2, 3, sono indispensabili anche per il calcolo ordinario di una rete di distribuzione cittadina, senza il vincolo dell'ipotesi del minimo costo. Le maggiori operazioni si riducono principalmente alla compilazione dello schema del percorso delle acque ed alla ricerca delle condotte principali.
Prima di terminare questo paragrafo sulle reti urbane è opportuno ricordare che le condutture di allacciamento dalla tubazione stradale sino all'utente vengono quasi sempre eseguite dall'amministrazione dell'acquedotto, mentre l'esecuzione delle condutture interne alla proprietà privata viene assunta dall'interessato, con la riserva del diritto di controllo e collaudo da parte dell'amministrazione, in base a determinate prescrizioni. Poiché le perdite di carico per una diminuzione del diametro crescono assai rapidamente, è desiderabile che nelle condotte di allacciamento, specialmente nelle località più elevate della zona di distribuzione, non si superino velocità di1:1,4 m. al 1″. Nel calcolo di Q per gli allacciamenti delle case si potrà supporre all'incirca che il 15% dei rubinetti esistenti, comprese le cacciate delle latrine, siano aperti contemporaneamente e che per ogni rubinetto defluiscano circa litri 0,3 al 1″.
Per non dover chiudere la tubazione stradale quando si rendono necessarie alcune riparazioni nelle tubazioni di allacciamento si deve applicare ad esse una saracinesca. L'allacciamento viene per lo più eseguito in carico con l'ausilio di un apparecchio a strettoio con annessa saracinesca, che è collegato a flangia alla scatola a stoppa traverso la quale passa il trapano. Eseguita la perforazione, quest'ultimo viene ritirato un poco a tergo della saracinesca, che viene chiusa per rendere possibile l'esecuzione del montaggio dei rimanenti pezzi speciali dell'allacciamento (fig. 38). In una rete di distribuzione urbana si devono poi porre gli idranti in modo che siano facilmente reperibili in qualsiasi stagione. Perciò nei centri di pianura essi possono esser posti sotto i marciapiedi, mentre in quelli di montagna, dove i geli sono molto frequenti, è bene porli a colonnetta. Come bocca d'incendio si raccomanda il diametro di mm. 70, che corrisponde a due tubi normali di canapa di mm. 52 ciascuno. È noto che la parte di un idrante più soggetta al consumo è la guarnizione di cuoio della valvola. Si verifica continuamente l'inconveniente che sassolini e granelli di sabbia, o entrati dall'esterno attraverso l'apertura di scarico, o contenuti nell'acqua stessa, si depositino sulla superficie della sede deteriorando la guarnizione; allora la tenuta non avviene più perfettamente, l'acqua penetra nell'idrante a valvola chiusa e facilmente si congela. Per ovviare a tale inconveniente, bisogna allora porre come valvola una sede rivestita di metallo senza sporgenze di sorta, in cui s'introduce a perfetta tenuta il conio che ha la forma di uno stantuffo. Per eliminare il congelamento, è bene invece avere uno scarico automatico a stantuffo.
5) Zone di carico e serbatoi. - Se i luoghi di distribuzione sono due o più, in quanto lo consenta la pressione, con una condotta anulare o altri collegamenti si può ottenere un compenso. Se il livello delle località servite varia assai, può esser utile la formazione di singole zone di carico (fig. 39). Se p. es. si suppone che da un serbatoio A si debba distribuire l'acqua ad una zona che si estende lungo un versante collinoso e che viene intersecata dalla linea piezometrica relativa al massimo consumo in a e b, i territorî al di sopra di questa linea non vengono alimentati o hanno una debole pressione disponibile. Se invece il serbatoio viene collocato in B, la tubazione A − B, non dovrebbe condurre più la portata massima oraria, ma la media, e perciò la linea di carico assumerebbe una posizione più elevata A − a. Per i territorî situati più in basso, nel caso di massimo consumo si avrebbe la linea di carico a1 − b1, che per la parte alta sarebbe molto prossima al limite. In questo caso si potrebbero formare con i territorî alti e con quelli bassi due zone distinte, servite ciascuna dalla propria tubazione, in modo che per i primi si potesse ottenere la linea piezometrica a1 − b1. Nel caso in cui le condizioni locali non offrissero opportunità di collocare in B un serbatoio di carico, ma ciò fosse possibile solamente in A, si dovrebbe aumentare il diametro della tubazione A − B, in modo che anche durante le ore di massimo consumo la linea di carico non potesse abbassarsi sotto A − a1. Le condutture di distribuzione per ciascuna parte della zona dovranno suddividersi nei due territori a quota diversa. Quando due serbatoi di carico posti a quota diversa devono alimentare una zona molto accidentata (fig. 40), può ad esempio succedere il caso che il territorio 3° di essa non possa essere alimentato con una pressione sufficiente, se h è il carico necessario, mentre alcune parti dei territorî inferiori avrebbero una pressione superiore al limite desiderabile (60-80 metri). Dal serbatoio A2 con la linea piezometrica A2 − a2 potrebbero alimentarsi i territorî più bassi di F q1, mentre per il terzo territorio sopra accennato bisognerebbe ricorrere ad una speciale tubazione con una perdita di carico minore di hz. Si può fare a meno di ciò, ponendo sul vertice della collina un serbatoio di compenso, che dovrebbe riempirsi durante le ore di minimo consumo.
Quando l'acqua viene fornita con innalzamento meccanico, deve determinarsi con confronti di spesa se convenga disporre parecchi serbatoi di carico a diversi livelli, e formare così diverse zone di pressione. Hanno la preferenza quegl'impianti che, a pari semplicità e sicurezza di esercizio, dànno il minimo costo annuo per l'esercizio, l'ammortamento e gl'interessi del capitale impiegato. L'alimentazione di due serbatoi posti a diversa altezza richiede due saracinesche C1 e C2 e il troppo pieno D. (fig. 41 a). Più sicuro nel funzionamento è l'impianto con due tubazioni, nel qual caso le saracinesche C1 e C2 possono collocarsi nella stessa officina delle pompe (fig. 41 b). Per differenze di livello assai forti e per grandi impianti riesce vantaggioso per lo più provvedere ad uno speciale impianto di pompe per ciascun serbatoio (fig. 45 c), per evitare che debbano lavorare con carichi troppo variabili. Quando la zona da alimentare (fig. 42) è disposta lungo i due versanti della vallata di un fiume, e dal lato opposto alla presa c'è la possibilità di collocare un serbatoio di estremità E, si può limitare con una linea T − T1 la zona che in caso di massima erogazione deve essere alimentata da A. Le sezioni delle tubazioni devono allora essere calcolate in modo che in caso di consumo minimo, compresavi l'erogazione per il riempimento del serbatoio, la linea di carico venga a collocarsi in A. Nei punti elevati dei quartieri I e II e lungo la T − T1 si deve almeno avere libera la pressione necessaria di esercizio h0. Se il deflusso diminuisce, la linea di separazione T − T′ si porta vicino ad E. Dalla scelta di essa dipendono le dimensioni del serbatoio di estremità. Quanto alla capacità di tali serbatoi, essa dipende dalle particolari esigenze locali. Come condizione minima si può ritenere che si possano raccogliere le acque non consumate e defluenti durante le ore notturne. Ora, in via generale, si ammette che il consumo nelle 10 ore giornaliere corrisponda ai 3/4 circa del consumo nelle 24 ore, e pertanto nelle 14 ore rimanenti si verificherà un'eccedenza espressa da
È bene però che durante il funzionamento normale il serbatoio non abbia mai a trovarsi completamente vuoto e che invece, per qualsiasi evenienza e in qualunque istante, vi sia la possibilità di avere a disposizione una riserva d'acqua. Perciò la capacità del serbatoio deve essere aumentata oltre il quantitativo suddetto, e avvicinarsi almeno ai 2/5 della dotazione complessiva giornaliera. In riferimento all'ubicazione del serbatoio, conviene che quello di raccolta sia situato più vicino che sia possibile al territorio della distribuzione. La cosa è intuitiva dopo quanto è stato detto in precedenza, ma non è sempre possibile per la mancanza di una località adatta. La migliore situazione si verifica quando, seguendo la direzione della tubazione di adduzione delle acque, s'incontra o si viene a fiancheggiare, prima della zona da servire e in vicinanza della stessa, uno sperone montano di sufficiente altezza. Se la località prominente si presentasse nell'interno della zona di distribuzione, in mancanza di altra zona circostante più elevata, la si potrà favorevolmente utilizzare per la costruzione del serbatoio di raccolta. Quando invece tale località esistesse dalla parte opposta, rispetto alla zona di distribuzione, dell'origine dell'acqua e magari anche fuori della stessa zona di distribuzione, si avrebbe un serbatoio terminale, per cui la tubazione che dalla sorgente porta le acque al serbatoio è utilizzata anche come tubazione di distribuzione lungo il percorso. È opportuno però collegare ad essa solamente i tronchi principali di distribuzione e non quelli secondarî, poiché riesce così più facile e spedito isolare un tronco di tubazione in caso di rottura. Un ultimo caso si ha quando la zona da alimentare è tutta pianeggiante e nell'interno non vi sono punti sopraelevati: allora l'ubicazione più favorevole per il serbatoio è nella sua parte centrale. Il serbatoio però deve essere convenientemente sopraelevato sopra terra. Esposti così i concetti principali che informano il criterio di scelta per l'ubicazione del serbatoio, si deve ora stabilire quale ne è la quota più conveniente, in relazione al calcolo più economico della tubazione di adduzione e della rete di distribuzione. Si supponga di avere perciò in A la sorgente di alimentazione e sia C il territorio della distribuzione, e che la tubazione di adduzione incontri nella prossimità della zona da servire le pendici di uno sperone montano che si presti per la costruzione del serbatoio di carico. Innumerevoli possibilità di soluzione si hanno per la sua quota: infatti nel profilo longitudinale (fig. 43) sono indicate tre arbitrarie posizioni B − B′ − B″, cui corrispondono tre linee delle perdite di carico che forniscono il medesimo franco all'estremità D della distribuzione. Bisogna dunque ricavare quale posizione sia la più economica. All'uopo, poiché, rispetto alla lunghezza totale della tubazione, gli spostamenti B − B′ − B″ rappresentano una variazione trascurabile, si sceglie nella zona di distribuzione il tronco di tubazione più importante e più sfavorevolmente posto, e si stabilisce che venga applicato al detto tronco, in connessione con quello che dal serbatoio conduce al luogo di captazione delle acque, il calcolo di massima economia. Nel caso della fig. 43 ciò deve essere applicato ai tratti: A − B, B − E, E − D. Fissata così la perdita totale di carico H, restano determinate dal calcolo quelle parziali alla fine dei varî tratti: in particolare la perdita di carico h1 del tratto A − B ci permette di determinare, per differenza dalla quota di A, quella del serbatoio relativa alle condizioni di minima spesa.
In determinate circostanze può verificarsi, come si è già veduto per le zone di carico, la convenienza economica d'istituire oltre ad un serbatoio di carico anche un serbatoio di compenso terminale. La capacità complessiva dei due serbatoi deve essere in questo caso calcolata secondo le speciali condizioni del luogo e di consumo; però si può assicurare che la capacità complessiva, anche seguendo ogni concetto prudenziale per assicurarsi la distribuzione in qualunque evenienza, può essere mantenuta nei limiti dei 2/5 della dotazione totale giornaliera. Sia L la lunghezza della condotta che attraverso l'abitato unisce i due serbatoi, ed H la loro differenza di livello. Si supponga che il consumo lungo la condotta possa essere considerato come ad erogazione uniforme lungo la linea, e sia q l'erogazione unitaria al secondo, corrispondente alle ore di maggior consumo. Durante la notte, l'erogazione unitaria diventa, per quanto precedentemente si è detto,
e pertanto il serbatoio A invierà a quello B un quantitativo di acqua Qt regolato dalla relazione (fig. 44):
ove Q è data alla sua volta da
Man mano che l'erogazione unitaria aumenta, diminuisce il valore di Qt finché raggiunge il valore zero corrispondente ad una portata q″, per cui si verifichi
La linea di carico in questo caso è una parabola tangente in D all'orizzonte per questo punto. Allorché l'erogazione diventa superiore ad 1,8 Q, Qt diviene negativo, il che significa che il serbatoio B alimenta una parte della rete. Il suo aiuto si estendera sino ad un punto M più o meno lontano da E a seconda dell'importanza del consumo. La linea di carico C N D resta ancora parabolica, ma con una curvatura sempre più accentuata. Detta l la lunghezza F − M, l′ quella E − M ed H′ la perdita di carico nel punto M, se si considera il tratto F − M, si ricava:
e per il tratto E M
Queste due equazioni insieme con la relazione l + l′ = L permettono di determinare tre incognite in funzione delle altre.
Le principali particolarità costruttive e le disposizioni dei meccanismi di manovra sono diverse a seconda che dobbiamo considerare serbatoi incassati, di testa o terminali, e serbatoi elevati. Quando la posizione altimetrica lo permette, il serbatoio viene costruito, tutto o in parte, in trincea per utilizzare il materiale di scavo. In questo ultimo caso, le pareti sporgenti dal piano terra vengono circondate con materiale di riporto, specialmente poi le solette o la vòlta di chiusura. Il riporto sopra quest'ultima dovrebbe avere un'altezza di m.1, 50 per evitare la propagazione all'acqua delle variazioni di temperatura; tuttavia come quantità minima si può assumere 1 metro. La forma più conveniente sarebbe la sferica, come quella che a parità di superficie racchiude il massimo volume: finora però ci si è limitati alla forma semi-sferica oppure cilindrica di cemento armato. Invece, nelle costruzioni con murature miste, si preferiscono le forme a pareti rettilinee, e in questi casi la sezione più conveniente è il rettangolo con i lati che stanno come 3 a 4.
Nei piccoli impianti una sola vasca può soddisfare a tutte le esigenze, ma negl'impianti di qualche importanza se ne adottano due separate per averne una sempre in esercizio nel caso di pulitura o di lavori di manutenzione. L'altezza dell'acqua non deve sorpassare m. 5, e le pareti vengono calcolate per resistere a serbatoio pieno: quando si fanno in calcestruzzo armato, i piedritti possono venire costruiti in prolungamento delle vòlte, seguendo la linea di pressione, in modo che risulti sempre contenuta nel terzo medio, perché la muratura lavori sempre a compressione. Quando la capacità da contenere è rilevante (superiore ai 1000 mc.), la vasca può venire suddivisa da diaframmi intermedi in tanti scomparti interrotti ad una estremità, in modo da permettere la circolazione a zig-zag dell'acqua. La larghezza dei passaggi terminali è eguale a quella di uno scomparto, per non avere variazioni di velocità, che sono sempre nocive. Le vòlte o le piattabande di copertura devono essere coperte con cappa di cemento per proteggerle dalle filtrazioni esterne: così pure tutto l'interno del serbatoio deve essere accuratamente intonacato con gli angoli arrotondati. All'esterno, tra i muri perimetrali e il terreno originario, bisogna costruire un drenaggio dell'acqua piovana e delle eventuali colature di sottosuolo. Nella copertura devono essere introdotti dei tubi speciali d'aerazione che non permettano però l'entrata di materie estranee. In tutti i sabatoi vi devono essere il tubo di adduzione dell'acqua e quello di partenza, che in quelli terminali sono ridotti ad uno solo, il tubo di sfioro e quello dello scarico di fondo. Il tubo d'immissione può far giungere l'acqua nella vasca sia nella parte superiore sia inferiore, e quello di partenza deve trovarsi sempre sul fondo: è consigliabile distribuire o prendere l'acqua lungo un lato della vasca per mezzo di un tubo bucherellato, che faciliti il movimento di tutta la massa contenuta. Lo sfioratore è per lo più formato da una vaschetta di calcestruzzo armato, costruita lungo una parete delle vasche all'altezza del pelo liquido normale, e di lunghezza determinata per permettere lo scarico delle acque di piena, mentre lo scarico di fondo viene posto sul pavimento in un punto opportunamente depresso all'incrocio dei compluvî, per permettere lo scolo di tutte le acque e facilitare il trasporto delle eventuali sabbie depositate. Nei serbatoi di testa (fig. 45) i due tubi di arrivo e di partenza sono autonomi tra loro e vengono muniti di saracinesche, come pure lo scarico di fondo, mentre lo sfioratore comunica direttamente con l'esterno mediante un chiusino idraulico. Nei serbatoi terminali (fig. 46), invece, il tubo di arrivo e di partenza, che è unico, si biforca in due diramazioni, una per l'acqua che arriva, ed una per l'acqua che parte, munite di saracinesche e valvole a farfalla per impedire l'inversione del moto. Nelle figure qui riportate risulta chiaramente la suddivisione degli apparecchi di manovra e di registrazione.
In quanto alla disposizione delle vasche e dei meccanismi di manovra nei serbatoi elevati, è opportuno ricordare che in questo caso le due vasche devono essere concentriche, per non variare con la vuotatura di una sola il carico statico cui vanno soggette le armature di sostegno e di fondazione (figg. 47 e 48). Qualche volta, anche perché le zone da servire sono a quote leggermente diverse, le vasche possono esser sovrapposte l'una all'altra. L'acqua può giungere sempre dall'alto, passando la tubazione di arrivo per lo spazio lasciato libero nel centro per facilitare l'accesso alle vasche. Per esso passa pure il tubo di sfioro. In quanto alla tubazione di presa e di scarico, che dovrebbe attraversare il fondo delle vasche, per evitare possibili stillicidî per la diversa dilatazione del materiale cementizio e di quello metallico, è opportuno che per un certo tratto siano gettate in calcestruzzo insieme col fondo anche le tubazioni di partenza, potendo poi fissare a flangia quelle metalliche. Tale procedimento, seguìto per il serbatoio elevato di Padova della capacità di 2000 mc., non ha dato origine sinora ad alcun inconveniente.
G) Centrali di sollevamento e opere d'arte minori. - Benché molte di tali strutture siano descritte in linea generale nelle voci apposite, si crede tuttavia opportuno richiamare in questo paragrafo le caratteristiche principali rispetto al rifornimento d'acqua potabile.
L'ubicazione della centrale di sollevamento è di solito determinata dalle opere di presa o dal serbatoio di carico per diminuire al minimo il costo delle tubazioni prementi. Quando è possibile, essa viene posta sopra la vasca di raccolta delle sorgenti, e quando la presa è fatta da strati acquiferi sotterranei non risalienti sopra il suolo mediante un pozzo o più pozzi di attingimento, si deve possibilmente riunirli a sifone con uno centrale di grande diametro, da cui viene eseguita l'aspirazione delle pompe. La sala delle macchine viene collocata sulla superficie del suolo e si provvede al moto delle pompe mediante opportune trasmissioni. Negl'impianti recenti però si preferisce di collocare i gruppi di moto-pompa completi sotto il suolo, in modo da avere un'altezza d'aspirazione normale ed evitare il meccanismo delle trasmissioni e le perdite di energia alle quali queste dànno luogo.
Quando invece le acque sono completamente artesiane, i diversi pozzi vengono collegati tra loro mediante tubazioni, e l'acqua viene condotta in una vasca o pozzo di raccolta dal quale attingono le pompe (fig. 49). Nelle prese da laghi o da fiumi sono pure molto usate le condotte a sifone per condurre l'acqua al bacino di raccolta. In questi casi il fabbricato del macchinario può esser costruito in presenza d'acqua; perciò si deve porre ogni cura che la struttura riesca impermeabile (preferibilmente calcestruzzo armato molto ricco di cemento). Per evitare impianti costosi, si limita di solito la costruzione in terreno acquitrinoso al pozzo o alla vasca dove sbocca la tubazione a sifone, mentre il macchinario e tutto il resto del fabbricato viene tenuto elevato e possibilmente fuori acqua.
Negl'impianti moderni i gruppi di moto-pompa non dovrebbero funzionare più di 16 ore giornaliere, evitando così il turno notturno agli operai. Può accadere che la presa d'acqua nella stagione estiva eroghi presso a poco una portata eguale o poco maggiore al consumo normale, e bisognerà allora costruire sotto la sala-macchine, o di fianco, alla quota più elevata possibile, una o più vasche che servano per la raccolta della portata defluente dall'origine nelle otto ore di riposo. È bene però che questa vasca di attingimento delle pompe esista sempre, anche in proporzioni ridotte, per rendere sempre normale la loro aspirazione, sia in caso di deflusso irregolare della sorgente, sia per liberare l'acqua dall'eventuale aria. È bene poi che l'acqua innalzata non arrivi direttamente alle tubazioni di distribuzione, che sarebbero così soggette a piccole e continue oscillazioni compromettenti i giunti, ma sia spinta in camere d'aria di opportuna capacità, o, ciò che è ancora meglio, in serbatoi di carico la cui capacità deve essere in funzione dell'importanza della rete e della coesistenza di altri serbatoi di compenso. Naturalmente, se tali serbatoi sono incassati (costo per metro cubo immagazzinato da lire 200 a lire 500 al mc., secondo la penetrazione più o meno possibile nel terreno naturale e la loro capacità), si può largheggiare nella loro capacità sino ad assumerla eguale ad una giornata di pompaggio, eliminando i serbatoi che potrebbero essere più costosi, mentre, se sono sopraelevati (costo variabile per 28 metri di altezza da lire 750 a 900 al metro cubo immagazzinato), è bene ridurli al minimo necessario, magari a semplici torrini piezometrici, aumentando la capacità di quelli di compensti posti possibilmente nei punti terminali della rete.
Una delle questioni di massimo interesse economico, per l'elevato costo di tali impianti, è il collegamento reciproco tra la potenza del macchinario e il diametro delle tubazioni prementi, naturalmente per quelli che richiedono una grande lunghezza delle condotte e devono sorpassare un dislivello di almeno 100 metri. Esso deve essere reso minimo, considerando non solo il costo d'impianto, ma anche quello annuale d'esercizio e di manutenzione: perciò con la stessa potenza consumata si deve avere la minima spesa annuale. Gl'interessi annuali del capitale occorrente per l'impianto possono variare, a seconda delle facilitazioni governative, dal 2 al 4%; l'ammortamento del medesimo capitale dal 2 al 3,50%. Per le tubazioni invece, il loro ammortamento può variare dal 2 al 3% e la loro manutenzione può essere considerata con il 1/2%; per il macchinario in media si può prevedere una percentuale per ammortamento dell'8% e per manutenzione dell'i %. Il costo dell'energia elettrica consumata può essere in media valutato con lire 0,25 al kW-ora, mentre per i motori a vapore o ad olio pesante è variabile a seconda della loro potenza. Per questi ultimi nelle apposite voci si troverano i dati necessarî. Sul costo dei gruppi di moto-pompa si può dire che pure esso è variabile a seconda della potenza, da lire 1000 per HP installato, a 1500 e forse anche più per piccoli impianti, poiché gli apparecchi ausiliarî e di misura vi si devono porre lo stesso. Per brevità di calcolo si potrebbe ricavare un'espressione generale per ottenere il diametro meno costoso; ma, siccome essa dipenderebbe da coeffificienti tecnici ed economici troppo incerti e numerosi, è opportuno ricorrere all'esecuzione di diagrammi che diano approssimativamente la soluzione (fig. 50). Eseguito il computo della portata necessaria, si scelgono tre o quattro diametri con i quali procedere nel calcolo in modo che la velocità media oscilli tra m. 0,5 e 1,5, e da questi si ricavano le perdite totali di carico e il costo d'impianto. Quest'ultimo, moltiplicato per la quota annuale d'ammortamento, interessi ed esercizio, può essere segnata sopra un sistema di assi cartesiani le cui ascisse rappresentanti i diametri, e le ordinate i varî costi annuali. Dopo di ciò, sommata alle perdite totali di carico delle condotte l'altezza netta da superare con l'innalzamento meccanico, si può ricavare la potenza necessaria del gruppo di elettro o moto-pompa, e di qui, conoscendo il costo di un HP-ora e il numero delle ore annuali d'esercizio, la spesa annuale di esercizio. Sommandola a quella annuale delle tubazioni, si hanno i dati per segnare la seconda linea del diagramma (tubazioni + costo energia), la cui curvatura presenta un minimo (se non lo presenta, bisogna spostare la scelta dei diametri finché ciò riesca). Da ultimo, conoscendosi la potenza del macchinario, se ne può ricavare il costo, considerando, se del caso, anche una quota parte per riserva, e di qui la quota annuale per interessi, ammortamento e manutenzione, che, sommata alle precedenti, dà luogo ad una terza linea del diagramma (tubazioni + costo energia + macchinario), che designa con il punto più basso il diametro maggiormente economico. Naturalmente da principio si può supporre che la durata di esercizio giornaliera e l'energia necessaria siano costanti: quando invece si ha continuo aumento nelle portate, si deve far variare il lavoro del macchinario, in modo che la potenza rimanga costante. Inoltre, quando si deve tener conto della durata dell'impianto, magari con crescente portata, s'introduce nel calcolo il principio che la spesa deve essere minima per lo stabilito numero d'anni. Inoltre molto spesso accade che il diametro più economico ottenuto dal diagramma è compreso tra due diametri esistenti in commercio: sarà allora opportuno assegnare a ciascun diametro un certo tratto della tubazione, in modo da avvicinarsi il più possibile alla soluzione di massima economia. Quando un acquedotto è in esercizio da qualche tempo, è facile calcolare la sua massima portata dopo un certo numero di anni, mantenendo sempre il principio che l'esercizio sia il più economico possibile. Se essa risulta insufficiente, bisogna porre um nuova tubazione che può essere parallela alla prima e d'aiuto ad essa, se fa defluire l'acqua alla stessa sua quota, mentre deve sopportare pressioni diverse ed essere diversamente posta, se termina ad un serbatoio più elevato. Nel primo caso si calcola il diametro nuovo considerando che debba far defluire una portata media tra quella attuale e quella maggiore del periodo finale. Scelti così i diametri diversi, si calcolano per ciascuno di essi le perdite totali di carico, la potenza necessaria per il sollevamento della portata media, e di conseguenza applicando i costi si ricava il diametro più economico. Nel secondo caso, in cui la conduttura finirebbe ad un nuovo serbatoio di carico, si procede come per il calcolo di una nuova tubazione senza alcun legame con la precedente, di cui però si è accertata la potenzialità.
Quando l'acqua dei pozzi tubolari è a grande profondità senza essere saliente, per l'estrazione si adoperano dei corpi di pompa speciali che vengono calati nell'interno del pozzo fino alla profondità voluta. Consistono in un cilindro di bronzo che porta all'estremità inferiore la valvola d'aspirazione e alla parte superiore la valvola di ritegno e il tubo premente. Con altre disposizioni, il tubo di rivestimento del pozzo può servire contemporaneamente per la condotta dell'acqua. Se i pozzi dai quali si deve estrarre l'acqua sono parecchi, si ricorre ad un impianto ad aria compressa.
Molte sarebbero le opere minori da ricordare, ma, essendo esse trattate con voci speciali, ne noteremo qui alcune più caratteristiche per gli acquedotti. Una è il passaggio di un corso d'acqua quando non si possa usufruire di un ponte carreggiabile: bisogna allora passare il tubo attraverso una briglia da porsi come soglia fissa attraverso il fiume, che durante le magre lascia passare le acque attraverso una luce praticata entro di essa e nelle piene può anche sommergerla (fig. 51). Un'altra opera importante per un acquedotto è quella che dà la sicurezza che in una diramazione in carico non si risentano troppo sensibilmente le variazioni di pressione della tubazione principale, per non turbare l'equilibrio idraulico con conseguenze dannose anche alla sua resistenza. Ed è perciò che bisogna porre un tubo di sfioro regolatore, che sviluppato in altezza diverrebbe un torrino piezometrico alle volte molto costoso, mentre risulterebbe più economico, sviluppandolo (fig. 52) in lunghezza per mezzo di un certo numero di tubi collegati con curve sia superiormente che inferiormente. È stato tentato il calcolo per determinare lo sfioro dell'acqua con una certa variazione di pressione, ma la cosa migliore è l'esperimentare prima quanti elementi ad U bisogna collegare per ottenere la regolazione necessaria. In altri asi in cui per il terreno accidentato si può raggiungere una quota altimetrica sufficiente, si porrà una semplice soglia fissa incassata (fig. 53), che serva a ridurre la velocità d'arrivo dell'acqua e a regolarne il deflusso mediante tubi bucherellati, e una saracinesca comandata automaticamente da un galleggiante. Di seguito poi si potrebhe porre in caso di bisogno il partitore a stramazzo, o, se le diramazioni sono parecchie, a calice. In quest'ultim0 l'acqua da suddividersi viene immessa in una vasca in muratura nelle cui pareti sono praticate delle luci a battente. Queste luci devono naturalmente trovarsi in condizioni perfettamente identiche rispetto al livello liquido e alla direzione del moto (se è sensibile); perciò nessuna di esse dovrà praticarsi nella parete opposta allo sbocco del canale. Devono inoltre essere tutte libere o tutte egualmente rigurgitate, ed avere le larghezze proporzionali alle portate che debbonsi derivare.
7) Tariffe e misura dell'acqua. - Si distinguono principalmente tre modi di formazione delle tariffe: erogazione a corpo, erogazione a misura e una combinazione dei due sistemi. Nell'erogazione a corpo il consumo d'acqua viene stimato in base a determinati indici. Dove si hanno acque abbondanti, e il trasporto alla zona di distribuzione non è causa di forti spese, il pagamento a corpo ha il vantaggio di semplicità di amministrazione, di soppressione della spesa per i contatori, e della certezza per i consumatori circa la somma da pagare. Quindi per impianti di piccole città e per distribuzioni a gruppi di centri abitati, non di rado s'introducono tariffe a corpo per facilitare il reclutamento dei consumatori, facendo riserva di ulteriore introduzione dei contatori. Però questo metodo ha condotto sempre ad un largo sciupio dell'acqua. Come criterî di regolarizzazione valgono il numero degli abitanti, il numero dei locali abitati, la superficie dei detti locali, ricordando che molto spesso non vengono conteggiati quelli di superficie minore ai 9 mq., e quelli che non sono destinati a permanenza continua delle persone. Per i locali speciali di uso pubblico o industriale si stabiliscono speciali tariffe. Può valere inoltre il valore dell'affitto di casa o il valore dell'imposta fabbricati. I metodi summenzionati consentono anche l'esazione diretta dal proprietario dello stabile o dagli affittuarî. In quest'ultimo caso si può tener conto dei criterî sociali, quando alle piccole abitazioni si voglia concedere l'acqua gratuitamente o solo per un canone minimo, stabilendo invece una tariffa progressivamente crescente per le abitazioni più grandi e più costose.
Di gran lunga piò frequente e sempre più estendentesi in confronto dell'erogazione a corpo, è l'erogazione a misura con contatore. La semplicità della tariffa può essere raggiunta anche con questo metodo. È necessario che ogni consumatore sia partecipe nel coprire in modo corrispondente alle sue richieste le spese di produzione, e nel formare il lecito guadagno che spetta al fornitore. Quindi è giustificato e raccomandabile che si prendano per base un'erogazione minima, la graduazione dei prezzi a seconda della distribuzione dell'acqua, e la considerazione del consumo uniforme con prezzi inferiori per scopi industriali. Con i proventi dell'erogazione minima si devono coprire le pure spese di produzione, compreso un moderato interesse al capitale d'impianto (in tal caso per impianti comunali devesi tener conto anche del consumo per scopi pubblici). La tariffa dovrebbe teoricamente essere stabilita sulla base della richiesta di un individuo nel giorno di massimo consumo, poiché esso allora sopporterebbe in modo equo la quota di ammortamento ed interesse del capitale d'impianto. A tale scopo sarebbe però necessaria l'applicazione di contatori a massimo, che oggi non sono ancora penetrati nell'uso pratico, e che produrrebbero inoltre notevoli e non desiderate difficoltà di esercizio. Perciò il modo preferibile è di stabilire l'erogazione minima che deve esser presa di base per la tariffa sul consumo medio o minimo annuale. Può avvenire che il conteggio per il consumo minimo segua i concetti menzionati per le tariffe a corpo, e così si ha una combinazione tra le tariffe a corpo e quelle a misura. Dalla pratica risulta che la tariffa più semplice è quella che si basa sul consumo minimo, per istituire un nuovo conteggio solo quando essa sia stata superata. La graduazione dei prezzi si fa con scala decrescente coll'aumentare del conumo. Poiché gl'impianti vengono utilizzati nel modo migliore quando l'erogazione dell'acqua si distribuisce il più uniformemente possibile durante l'anno, così è equo fissare tanto l'erogazione minima quanto la graduazione dei prezzi secondo il consumo di un trimestre. La commisurazione diversa dei prezzi durante i mesi estivi e nel rimanente dell'anno non rende notevolmente difficile il conteggio, e così gli utenti contribuirebbero più esattamente al buon funzionamento e alla potenzialità dell'impianto. È consigliabile una speciale considerazione per gli usi industriali, poiché un prezzo basso è giustificato dal fatto che da una parte il consumo industriale utilizza più intensamente gl'impianti di quello domestico, essendo a portata costante e di lunga durata, e d'altra parte l'amministrazione dell'acquedotto ha interesse a trattenere per quanto può i consumatori industriali dal procurarsi acqua con impianti proprî.
Un terzo metodo, oramai poco applicato, apportante però il vantaggio che la rete di distribuzione può essere calcolata per il solo massimo estivo e non diurno, è quello con distribuzione a quantità fissa. Si fa per mezzo di una luce tarata che versa l'acqua in un serbatoio posto sopra ogni fabbricato, per riempirlo durante le ore di mini no consumo e poter così fronteggiare le punte giornaliere. Questo serbatoio deve esser posto nel punto più elevato della casa, e dotato di valvola intercettatrice e galleggiante e tubo di sfioro. Per la posizione scomoda in cui si trova, esso è sempre di difficile manutenzione, e perciò si riempie di polvere e anche di corpi estranei che contaminano l'acqua, che d'estate poi si scalda, diventando poco gradita all'utente. Non è quindi troppo consigliabile ed è stato applicato assai di rado.
Il contatore dell'acqua deve essere protetto dal gelo, facilmente accessibile e situato in modo che venga misurata tutta l'acqua consumata nella proprietà. In generale basta che il quadrante indichi ettolitri e metri cubi. La maggior parte dei contatori misura solamente in una direzione della corrente, e quindi deve essere collocata in opera conformemente alle frecce applicate esternamente. I contatori si distinguono in misuratori a volume, a palette e di Woltmann. I misuratori a volume sono a stantuffo o a disco: quando vengono costruiti accuratamente, misurano esattamente anche i litri, ma sono in generale più costosi di quelli a palette. Nel contatore a stantuffo l'erogazione viene misurata dal numero delle sue corse o dalle sue oscillazioni. Nei contatori d'acqua a disco di gomma indurita o in metallo cavo, esso viene calibrato secondo le superficie sferiche su cui striscia col suo contorno, così da suddividere il volume del recipiente in due parti eguali, una superiore e una inferiore. Le luci di afflusso e di deflusso sono situate l'una accanto all'altra, e sono separate da un diaframma verticale che s'incastra in una corrispondente scanalatura del disco misuratore, impedendo così che giri intorno al suo asse ortogonale e anche che l'acqua attraversi la camera di misura senza agire su di esso e quindi senza esser misurata. L'acqua nell'attraversare la camera di misura segue un percorso determinato, imprimendo un movimento di oscillazione al disco, che espelle così dalla detta camera una quantità d'acqua eguale alla sua capacità utile.
I contatori a palette possono avere l'asse di rotazione chiuso in una scatola a tenuta d'acqua, e quindi il meccanismo d'orologeria si trova all'asciutto. Se non esiste tale scatola a stoppa, lo schermo di vetro deve essere applicato a tenuta, poiché il ruotismo del contatore si muove entro l'acqua. Tale tipo di costruzione presuppone quindi acqua sempre limpida e senza corpuscoli in sospensione. Il contatore di Woltmann riposa sul noto principio delle palette omonime, per il quale v. idrometri.
III. L'acquedotto pugliese.
L'idea ardita e geniale di convogliare le acque da distribuire nelle città pugliesi prive di risorse locali, attraverso l'Appennino, utilizzando le sorgenti di Caposele in provincia di Avellino, venne concepita fin dal 1868 dall'ing. Rosalba del Genio civile. Alcuni progetti vennero preparati negli anni seguenti, ma soltanto nel marzo 1901, con apposita legge, venne stanziata dallo stato la somma di un milione di lire per l'accertamento della portata delle sorgenti di Caposete e per il completamento del progetto dell'acquedotto.
Il progetto di massima venne compilato dall'ing. Michele Maglietta del Genio civile, e prevedeva di derivare una portata d'acqua di 5 mc. al secondo dalla sorgente di Caposele con un canale principale della lunghezza di km. 236, alimentando tutti i centri abitati delle provincie di Bari e Lecce ed inoltre a4 comuni della provincia di Foggia. Detto progetto, che nell'attuazione venne alquanto modificato, contemplava una spesa di 136 milioni di lire.
Ancora nel 1902 (legge 26 luglio, n. 245) venne istituito fra lo stato e le provincie pugliesi un consorzio per la costruzione e l'esercizio dell'acquedotto e fu bandito il concorso per l'esecuzione dei lavori che avrebbero dovuto essere ultimati nell'agosto 1916. Nel 1919 le opere non erano invece ancora finite, così che lo stato addivenne ad una transazione con la società concessionaria, istituendo poi l'ente autonomo per l'acquedotto pugliese che, al finire del 1927, dopo soli 5 anni di reale attività, aveva portato il numero dei comuni serviti da 52 a 118.
L'acquedotto pugliese si presenta come un sistema complesso di acquedotti aventi in comune la sorgente.
Attraverso le varianti e gli ampliamenti effettuati ed in corso, l'acquedotto, che si sviluppa in un territorio di 20.000 kmq., deve alimentare 260 comuni, aventi una popolazione di circa due milioni e mezzo di abitanti, raggruppati in 8 provincie, appartenenti alle Puglie, alla Basilicata, e all'Irpinia.
La rete di trasporto dell'acqua è costituita da 244 km. di canale principale (da Caposele a Villa Castelli); 234 km. di diramazioni primarie (km. 46 a pelo libero e km. 188 in tubazione forzata, ivi compresi i 120 km. del gran sifone leccese); 1362 km. di conduttura forzata (costituenti il gruppo delle diramazioni secondarie). e, infine, 830 km. di canalizzazione per le reti di distribuzioni interne agli abitati. In complesso, dunque, km. 2670 di sviluppo di canali e di condotte.
La sorgente è quella del fiume Sele, sgorgante presso Caposele, ad una quota di m. 420 sul livello del mare, dalle pendici del Monte Paflagone, contrafforte del Cervialto (gruppo montagnoso compreso tra il Sele e il Calore).
Il bacino di alimentazione delle sorgenti ha un'estensione di circa kmq. 135. L' acqua è batteriologicamente pura; la sua durezza è di 14 gradi francesi e la temperatura oscilla tra 8 e 9 gradi centigradi.
Il valore medio della portata delle sorgenti può ritenersi di 4 mc. al secondo, ma essa varia sensibilmente durante l'anno e presenta massimi e minimi sfasati di circa 6 mesi rispetto ai massimi e minimi delle precipitazioni meteoriche nel bacino.
Le opere di captazione sono costituite: 1° da una grande diga di sbarramento costruita lungo la depressione sottostante alle sorgenti; 2° da un canale collettore al quale fanno capo 12 cunicoli di presa che si intestano nella roccia, nei punti ove scaturiscono le polle.
Dal collettore, l'acqua sbocca in un canale di arrivo e successivamente in una camera di raccolta e di manovra ove sono sistemate le paratoie per lo scarico.
Su di una parete della camera di raccolta è ricavato l'incile dell'acquedotto, con soglia a quota di m. 417,78 sul livello del mare, ove ha origine il canale principale, a pelo libero.
A valle dell'incile è sistemato uno stramazzo Bazin per la misura della portata derivata, che si immette quindi nella prima grande galleria del canale principale (detta dell'Appennino e lunga oltre 15 km.) la quale pone in comunicazione la valle del Sele con quella dell'Ofanto.
Il canale principale, per i primi 55 km., cioè da Caposele a Venosa, corre quasi tutto in galleria; dopo Venosa (ove si distacca l'importante diramazione primaria per Foggia) esso procede, parte in galleria e parte in trincea o su manufatti, e dopo aver attraversato con grossi sifoni a doppia tubazione le vallate del Calcarei, della Fiumara di Venosa, del Basentello e del Locone, imbocca, presso la stazione di Acquatetta, la grande galleria delle Murge. Dopo 16 km. di percorso sotterraneo il canale sbocca sul versante orientale del grande altipiano calcareo ai piedi dello storico Castel del Monte.
In prossimità dello sbocco della galleria delle Murge è situato l'edificio di presa della diramazione per Andria, dopo il quale il canale prosegue a mezza costa, generalmente in trincea, alimentando i numerosi edifici di presa delle diverse diramazioni. Dopo Mellitto (dove si distacca la diramazione per Bari) passando per Cassano, Gioia e Noci, il canale principale termina a Montefellone (quota di 323 m. s. m.) in prossimid di Villa Castelli.
Nei varî tratti del canale principale le sezioni hanno forma diversa: ovoidale, circolare e rettangolare con volta a tutto sesto.
Lungo il canale stesso si hanno: 99 gallerie per una lunghezza complessiva di km. 108; 93 ponti-canali per una lunghezza complessiva di km. 6; 6 sifoni a doppia tubazione con una lunghezza totale di km. 7 e diametro interno compreso tra m. 1,70 e m. 1,35; 122 km. di trincea.
Lungo tutto il canale corre la strada di servizio della larghezza di m. 4 ed una linea telefonica a doppio circuito collegata alla rete telefonica dell'ente autonomo per l'acquedotto pugliese che ha raggiunto nel 1927 uno sviluppo totale di km. 1415.
È poi da notare che, tanto nel canale principale, quanto nelle diramazioni, sono stati creati dei salti, dai quali si ottiene una complessiva potenza nominale di 8700 HP., da utilizzarsi nella maggior parte per sollevare l'acqua del Sele per alimentare gli abitati che non possono riceverla sotto carico naturale.
La provincia di Foggia non è attraversata dal canale principale. Per servirla si distacca dal canale stesso, presso Venosa, in provincia di Potenza, una diramazione primaria lunga 114 km. di cui 46 a pelo libero (con intercalati 16 sifoni in acciaio o cemento armato) e 68 in condotta forzata. Sono serviti così 46 abitati.
La provincia di Bari è invece attraversata dal canale principale per tutta la sua lunghezza, in una direzione all'incirca parallela alla costa. I centri abitati (in numero di 55) sono così serviti da una fitta rete di diramazioni, distaccantisi dal canale principale ed aventi una lunghezza complessiva di km. 320. Come è stato accennato, l'approvvigionamento idrico dei paesi situati superiormente al canale principale è assicurato da impianti di sollevamento azionati generalmente da energia idraulica, ricavata dai salti esistenti lungo lo stesso acquedotto, ed eccezionalmente da energia termica.
La provincia di Brindisi è attraversata dall'ultimo tratto del canale principale ed in parte dal grande sifone leccese ed è quindi servita da parecchie diramazioni che si dipartono sia dal primo che dal secondo: la più importante fra queste diramazioni è quella per Brindisi, che alimenta ben otto abitati.
La provincia di Taranto è alimentata da tre gruppi di diramazioni. La parte confinante con la provincia di Bari è servita dalle due diramazioni per Laterza, Ginosa e per Castellaneta. La parte centrale è servita dalle tre diramazioni per Taranto, Roccaforzata e Grottaglie. La parte confinante con la provincia di Lecce è alimentata dalle diramazioni del ramo principale del grande sifone leccese.
La provincia di Lecce, infine, è completamente servita dai due rami, adriatico e ionico, del sifone leccese e dalle diramazioni che da essi si dipartono.
Le quantità di acqua assegnate agli abitanti per giorno, sono di 150 litri per Foggia, Bari, Lecce, Barletta e Taranto, 110 litri per i comuni con popolazione superiore a 20.000 abitanti, 90 litri per comuni con popolazione compresa fra i 10 mila e 20 mila abitanti e litri 70 per i comuni di minore importanza.
La distribuzione ai privati viene effettuata a contatore.
Le concessioni d'acqua alla fine dell'anno 1927 si riferivano ad oltre 16000 edifici; la quantità di acqua venduta nel 1926 ha superato i 16 milioni di metri cubi.
Bibl.: A. Debauve e E. Imbeaux, Assainissement des villes. Distribution d'eau, 3ª ed., Parigi 1906; J. Gilbert et E. Mondon, Traité d'adduction et de distributions d'eau, Parigi 1928; O. Sureker, Die Wasserversorgung der Städte, Lipsia e Berlino 1914; G. Veronese, Tubazioni per acquedotti, in Rivista delle Industrie elettroferroviarie e dei Lavori Pubblici, 1921-922; id., Le tubazioni e le opere d'arte per l'acquedotto del Veneto Centrale, Padova 1924; id., Tubazioni cementizie e tubazioni metalliche, in Energia elettrica, 1925; id., Visioni tecniche dell'acquedotto Pugliese, in Ingegneria, 1926; id. e G. Postiglione, L'acquedotto Pugliese, in Il Politecnico, LXXIV (1926), pp. 293-313. G. Veronese, Lo stato attuale dell'approvvigionamento idrico nella provincia di Venezia, Quaderno LI dell'Istituto Federale di Credito, Venezia 1926; id., Lo stato attuale dell'approvvigionamento idrico nella provincia di Rovigo, Quaderno LX dell'Istituto Federale di Credito, Venezia 1928.
IV. Acquedotto coattivo.
Il diritto di acquedotto (ius aquae ducendae) è il diritto di condurre l'acqua a proprio vantaggio attraverso il fondo altrui. Se la concessione di questa servitù non dipende dalla volontà del proprietario del fondo, attraverso il quale si chiede che venga praticato il passaggio delle acque, ma è stabilita dalla legge, si ha la servitù legale di acquedotto, quell'istituto, cioè, dell'acquedotto coattivo, la cui disciplina giuridica costituisce una delle più cospicue benemerenze dell'antica legislazione statutaria italiana. L'istituto, già noto alla più arcaica legislazione ellenica (leggi soloniche: cfr. A. Segrè, Elementi elleno-orientali del dir. privato dell'alto Medioevo in Occidente, Torino 1924, p. 9 e nota 33), è ignoto al diritto romano. Il carattere liberistico della proprietà romana, come non ammise di regola l'istituto del passo necessario, così non ammise quello dell'acquedotto coattivo: si consideri che neppure per gli acquedotti pubblici si deflette da un tal rigido rispetto della proprietà privata, come ci è confermato da un insigne titolo epigrafico, l'editto di Augusto relativo alla costruzione dell'acquedotto per la città di Venafro (Corpus Inscr. Lat., X, 48431, P. Bonfante, Diritto romano, Roma 1927, II,1, p. 249). Tuttavia il rigore era temperato dal sistema della servitù convenzionale e dalla regolarità con la quale il cittadino romano cedeva alle giuste esigenze dei vicini nel costituire una servitù (P. Bonfante, Scritti giuridici, Roma 1927, IV, p. 252): del che abbiamo qualche cospicuo esempio epigrafico in tema di servitù di acquedotto (Corp. Inscr. Lat., XI, 3003; cfr. P.F. Girard, Textes, 5ª ed., Parigi 1925, p. 835 n. 7).
La più antica testimonianza circa l'acquedotto coattivo si trova nei nostri statuti municipali del sec. XIII e specialmente nella raccolta di costituzioni milanesi pubblicata nel 1216: è da osservarsi che in essa si accenna all'acquedotto forzoso come ad un istituto che risale a vecchie consuetudini, le cui origini peraltro non ci sono indicate. Ben presto quasi tutti gli statuti dei comuni, i quali, conseguita appieno la regalìa sulle acque, attendono all'interesse dell'agricoltura come a funzione sociale (Solmi), adottano disposizioni con le quali si fa obbligo ai proprietarî di consentire attraverso i proprî terreni il passaggio delle acque a favore di coloro che, o a scopo d'irrigazione dei campi o per gli usi dei molini o edifici, hanno il diritto di derivare l'acqua dalle sorgenti o dai fiumi, pubblici o privati; o, a scopo di prosciugamento di terreni, hanno il diritto d'immettere le acque di scarico in canali o colatori. Il diritto di domandare il passaggio delle acque è riconosciuto, secondo qualche statuto, anche al semplice conduttore: l'acquedotto deve condursi per quella parte del fondo per cui si rechi il minor danno e incomodo; inoltre chi usa di un tal diritto è tenuto a pagare al proprietario il prezzo del terreno occupato dall'acquedotto (che in molti statuti vien fissato al doppio del valore), a corrispondergli un conveniente compenso per i danni, a premunire con opere adatte le proprietà altrui contro il pericolo d'inondazioni, a provvedere a proprie spese alla manutenzione dell'acquedotto. E disciplinato, infine, il caso di condutture di acque sopra e sotto i canali altrui.
Non è da ritenersi, peraltro, che fin dalle sue origini l'istituto sorga col carattere di una servitù; in un primo tempo esso assume la forma di espropriazione privata, in quanto non solo il passaggio coatto delle acque è riconosciuto ad un privato a favore di un altro privato, ma la proprietà del terreno occupato dall'acquedotto passa a chi lo costruisce; solo in certi statuti si disciplina diversamente la figura dell'acquedotto coattivo, consentendosi a colui sul cui suolo si costruisce l'acquedotto di conservarne la proprietà, facendone una locazione o un livello: così si viene ad ovviare all'inconveniente di attribuire al costruttore dell'acquedotto una propried inutile venendo a cessare l'uso dell'acqua (Pertile, Storia del dir. it., 2ª ed., Torino 1898, IV, p. 367). Probabilmente si ripete lo stesso sviluppo dell'aquaeductus convenzionale romano, che, almeno secondo l'opinione di alcuni storici del diritto, sembra abbia originariamente costituito una forma di proprietà, più che un diritto su cosa altrui. Comunque, se si consideri che lo scopo a cui il legislatore s'ispira è quello di promuovere la migliore produttività dei fondi, è chiaro che l'istituto costituisce fin dall'epoca comunale uno dei più tipici esempî, come l'espropriazione per pubblica utilità, l'ingrossazione e il passo necessario, del nuovo orientarsi dell'ordinamento della proprietà verso quel concetto di interesse sociale e di vantaggio economico, che già vagamente è affermato nelle fonti romane in celebri motivazioni.
Per concorde opinione degli storici, si debbono alla introduzione dell'acquedotto coattivo i primi mirabili progressi dell'agricoltura in Italia nell'età del Rinascimento. Le grandi imprese d'irrigazione in Lombardia sono - e non fortuitamente - coeve alle norme statutarie relative al passaggio forzato degli acquedotti; la prosperità agricola del Novarese coincide con l'introduzione delle disposizioni circa l'acquedotto coatto in tale regione (Giovannetti, Du régime des eaux, Parigi 1844, § 5). Le restrizioni legislative, alle quali si volle talvolta subordinare il diritto di domandare il passaggio dell'acquedotto, non furono senza effetto pernicioso. La legge veneta del 1556, con la quale si stabiliva che l'utile, ripromessosi dal richiedente, fosse quattro volte maggiore del danno che l'acquedotto apportava all'altrui fondo, non fu certo - scrive il Pertile (op. cit., IV, p. 366) - l'ultima delle cause per cui i lavori d'irrigazione non raggiunsero nelle terre della repubblica quello sviluppo ch'ebbero altrove.
La disciplina statutaria dell'acquedotto coattivo si riproduce nelle costituzioni del ducato milanese, nelle leggi promulgate dai duchi di Savoia nel 1584, nelle costituzioni reali piemontesi di Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III, nella giurisprudenza del senato di Torino, che consente anche al non proprietario del fondo, al colono, all'affittuario, la facoltà di stabilire coattivamente l'acquedotto sulle terre altrui, per la durata del proprio possesso. La legge italica del 20 aprile 1804 mantiene in vigore l'istituto e ne estende l'applicazione, oltre che a scopi di agricoltura, all'attivazione di macchine e opifici idraulici. Cessato di esistere il Regno italico e promulgatosi in Lombardia nel 1816 il codice civile generale austriaco, disparve anche dalla legislazione il diritto di acquedotto; ma l'istituto era così radicato nei costumi e nelle esigenze della cultura e delle industrie, che, nonostante il silenzio della legge, continuò a mantenersi in vigore per forza di cose durante l'intervallo che corse dalla promulgazione di quel codice alla notificazione del governo austriaco del 1825, con la quale si decideva che non dovessero ritenersi abrogate le leggi italiche concernenti la servitù legale di acquedotto, considerandola condizione essenziale alla prosperità di quella regione.
Non diversa e ininterrotta applicazione ebbe fortunatamente la legislazione relativa al passaggio forzoso delle acque in Piemonte, e quantunque, riunita questa regione alla Francia nel 1802, cessasse di partecipare ai benefizî di una legislazione che le abitudini agricole avevano resa indispensabile, tuttavia il Novarese e la Lomellina, le provincie più irrigue della monarchia sarda, riunite al regno italico, poterono profittare della conservazione del diritto di acquedotto dovuta alla promulgazione della citata legge del 1804; finché, ricostituita la monarchia sarda, furono richiamate in vigore le costituzioni reali del 1770.
L'istituto veniva accolto e disciplinato in molti codici degli ex-stati italiani: nel codice parmense del 1820 (art. 536 segg.); nel codice albertino del 1837 (art. 622 segg.); nel codice estense del 1850 (art. 588), dai quali traeva ispirazione il legislatore francese con le leggi del 29 aprile 1845 e dell'11 luglio 1847 sulle irrigazioni, e con la successiva del 10 giugno 1854 sul libero scolo delle acque derivate dal prosciugamento dei terreni, per colmare quella lacuna che nel codice francese giustamente era lamentata, quantunque sembri che l'istituto fosse affidato anche in Francia ad antiche consuetudini.
Il legislatore italiano del 1865, riproducendo in questa materia, quasi integralmente, le disposizioni del codice albertino, rendeva il miglior omaggio alla competenza del Giovannetti, pregiato giureconsulto novarese, i cui scritti avevano servito di norma ai redattori di quel codice, nonché al legislatore francese del 1845, e servono tuttora di commento alla disposizione del codice patrio in tutta la materia delle acque.
La disciplina della servitù legale di acquedotto è contenuta nello art. 598 e segg. del codice civile. Se essa debba poi considerarsi, più che un obbligo legale alla costituzione di una servitù prediale, una servitù irregolare o una limitazione legale, è questione che non può esser qui neppur accennata (cfr. Segrè in Giunspr.it., 1902, I, 2, p. 434, n. a; Coviello, Trascriz., 2ª ed., Torino 1915, II, p. 324 seg.). Tale servitù consiste nell'obbligo a cui è tenuto ogni proprietario di dare passaggio per il suo fondo (escluse le case, i giardini, i cortili, le aie: cfr. però l'articolo 16 della legge 15 gennaio 1885 sul risanamento di Napoli) alle acque di ogni specie (quindi anche termali minerali) che vogliano condursi da chi abbia permanentemente o anche solo temporaneamente il diritto di servirsene per le necessità della vita o per gli usi agrarî o industriali (art. 598 codice civile).
I presupposti dell'acquedotto coattivo sono:
1. che esso sia giustificato dalla necessità del fondo pel quale il passaggio è chiesto o dalle necessità della vita del richiedente: nell'un caso e nell'altro non si richiede che la necessità sia assoluta o materiale, ma basta che sia relativa ed economica, e sorga dal bisogno di evitare ogni sperpero di acqua, o dal dispendio sproporzionato che occorrerebbe per condurlo per altra via;
2. che il diritto di chiedere il passaggio dell'acqua sia giustificato dal diritto di servirsene permanentemente o anche temporaneamente. Non occorre quindi esser proprietario delle acque da condursi dalla sorgente donde esse scaturiscono, per ottenere dalla legge il diritto di passaggio, né occorre esser proprietario del fondo cui esse sono destinate; possono chiedere la servitù anche l'enfiteuta, il conduttore, l'usufruttuario, o colui che, senza avere un proprio fondo da avvantaggiare, voglia condurre l'acqua per poi rivenderla ai proprietarî che ne abbisognano;
3. che, ad evitare casi di emulazione e di capricciose intraprese, il richiedente giustifichi di poter attualmente disporre dell'acqua (purché in modo sufficiente all'uso al quale è destinata: la sufficienza va intesa solo in rapporto alla quantità, non alla qualità, durante il tempo in cui si chiede il passaggio);
4. che il passaggio richiesto avvenga col minor danno possibile pel fondo servente: ad minus damnum et incommodum partium, come stabilivano gli Statuti (art. 602).
Verificandosi queste condizioni, si esclude che il giudice possa per altri motivi rifiutare la concessione della servitù: egli non è investito (come secondo la legge francese del 1845) di alcun potere discrezionale: non ha potere, quindi, di negarla per il fatto che il pregiudizio che sarebbe per risentirne il fondo servente, sia grave e maggiore dell'utile che potrebbe averne il fondo dominante: l'entità del danno (che può anche eventualmente raggiungere l'annientamento economico del fondo servente) potrà prendersi in considerazione unicamente per la determinazione dell'indennità (Segrè, in Foro it., 1906, p. 1497 segg.). Questa, essendo il corrispettivo del vantaggio concesso, è dovuta proporzionalmente all'onere del fondo servente, ed è fissata nel valore di stima dei terreni da occuparsi (che restano pertanto in proprietà di colui sul cui suolo si costruisce l'acquedotto) aumentato del quinto, oltre il risarcimento dei danni immediati (art. 603), l'uno e l'altro da corrispondersi prima dei lavori; l'indennità è ridotta della metà quando la domanda del passaggio è fatta per un tempo inferiore ai nove anni (art. 604). Particolari norme provvedono al caso in cui il diritto di passaggio temporaneo si volesse rendere definitivo.
È prevista l'ipotesi che già esistano canali sul f0ndo servente, destinati al corso di altre acque: non è sembrato opportuno costringere il proprietario a permettere il passaggio delle acque altrui nel suo canale: la legge non ha voluto imporre per evidenti motivi tale forma di comunione coatta in materia di acque. Può però il proprietario del canale offrire che l'esercizio della servitù avvenga nel suo acquedotto, purché il richiedente non abbia a risentirne danno notevole per la mescolanza delle acque (art. 599).
Quantunque il concessionario sia proprietario del canale da lui costruito, non può procedere alla immissione di maggiore quantità di acqua, senza aver ottenuto preventivamente il consenso del proprietario del fondo servente, o l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria, che la concederà sempre quando il canale ne sia capace e non ne possa venir danno al fondo servente (art. 605). Anche sotto l'impero della nostra nuova legislazione sulle acque pubbliche, con. servano piena applicazione le norme sull'acquedotto coattivo, avendo facold di richiederlo anche chi ha diritto di derivare acque pubbliche.
Occorre accennare, infine, alle due sottospecie dell'acquedotto coattivo che sono: la servitù di scarico di acque sovrabbondanti, che il vicino non voglia ricevere sul suo fondo, alla quale si applicano le norme sopra accennate di acquedotto coattivo (art. 606) e quella di scolo a scopo di prosciugamento o bonifica mediante fognature, colmate o altri mezzi (art. 609 segg.). Entrambe non possono esser richieste che dal proprietario del fondo che intende scaricare le acque o bonificare. Quanto alla disciplina della servitù di acquedotto per bonifica, più che alle norme del codice civile bisogna ricorrere a quelle dettate nel regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3256 (testo unico sulle bonificazioni delle paludi e dei terreni paludosi).
Merita, da ultimo, sommaria menzione la costituzione dell'acquedotto coattivo a mezzo di consorzî. La pratica è coeva al sorgere dell'istituto, specialmente in Lombardia: regolamenti di essi sono frequenti dopo il sec. XV; Venezia nel 1500 ordina l'acquedotto coattivo per consorzî a scopo di miglioramento dei terreni: già si accenna anzi, in molte leggi dell'epoca, al carattere della loro obbligatorietà (Pertile, op. cit., IV, p. 367 segg.; Salvioli, Storia del dir. it., 8ª ed., Torino 1921, § 539). La vigente nostra legislazione consente la costituzione sia volontaria sia coattiva di consorzî fra i varî proprietarî aventi comune interesse alla derivazione ed all'uso dell'acqua a scopo agricolo o industriale o a scopo di bonifiche (art. 657 segg. cod. civ.; testo unico 25 luglio 1904, n. 523, sulle opere idrauliche; testo unico 22 luglio 1920, n. 1154: r. decr. 1920, n. 1154: decr. 2 ottobre 1922, n. 1747: decr. 13 agosto 1926 n. 1907; Vitale, Il reame delle acque per il dir. pubbl. e priv. it., Milano 1921, p. 280 segg.).
Bibl.: G. D. Romagnosi, Della condotta e ragione civ. delle acque, in Opere, Milano 1842; Giovannetti, Régime des eaux, Parigi 1844; G. Foschini, La teorica delle acque, Torino 1872, p. 82 segg.; T. Traina, Le servitù legali sulle acque, Palermo 1873, p. 196 segg.; C. Dionisotti, Della servitù delle acque, 2ª ed., Torino 1873; G. Turazza, Della condotta forzata delle acque, Padova 1884; Belgrano, Del dir. di acqued. secondo il cod. civ. it., in Filangieri, 1889, p. 289 segg.; F. Varcasia, La servitù di acqued. nella leg. it., in Princ. di dir. civ. di Laurent, VII, p. 581 segg.; S. Gianzana, Acque, private in Dig. it., 2ª ed., 1, § 1607 segg.; id., La teorica delle acque private, Torino 1900, p. 3 segg.; Marchi, Acquedotto, in Diz. di dir. priv. di Scialoia, I, p. 78 segg.; F. Germano, Tratt. delle servitù, Napoli 1886-96, VI, § 500 segg.; Segrè, Dell'acqued. coattivo, in Giur. it., I (1903), 2, p. 419 segg.; I presupposti legali dell'acqued. coattivo, in Foro italiano, I (1906), 6), p. 1497; E. Codovilla, Del dir. delle acque, Torino 1910, II, p. 95 segg.; Pulvirenti, Delle servitù prediali, Torino 1916, II, p. 375 segg.; Vitale, Il regime delle acque nel dir. pubblico e privato it., Milano 1921, p. 105 segg.; M. Roberti, Svolgimento storico del diritto privato in Italia, Milano 1928, p. 326. Per la giurisprudenza: C. Fadda, Prima raccolta di giur. sul cod. civ., Milano 1911, II, p. 1209 segg.