Adolescenza
Intendiamo per adolescenza quella fase dell'esistenza umana che segna la transizione dall'infanzia allo stato adulto, e cioè l'età compresa fra i 12 e i 18 anni.
Per essere più precisi, poniamo l'inizio dell'adolescenza in rapporto con le esperienze psicologico-emozionali connesse con la pubertà, e la conclusione della stessa nel momento in cui il soggetto (ragazzo o ragazza) è in grado di stabilire in modo autonomo rapporti significativi e stabili con il mondo circostante (persone, gruppi, oggetti fisici e sociali, istituzioni) e con se stesso entro tale mondo. Questo vuol dire che l'adolescenza è una fase in cui il soggetto incrementa in modo particolarmente intenso, dal punto di vista cognitivo ed emozionale, il rapporto fra sé e il mondo circostante e alla cui conclusione ha individuato alcuni punti di riferimento relativamente stabili per definire la relazione Sé-mondo sociale. Non vuol assolutamente dire, invece, che con l'adolescenza il soggetto assuma una modalità definitiva e immodificabile di stabilire rapporti fra sé e l'ambiente, né che la sua rappresentazione di sé divenga da quel momento non più suscettibile di evoluzione e cambiamento.
Questa definizione utilizza alcune nozioni su cui è indispensabile soffermarsi.
L'adolescenza inizia con la pubertà, ma non è il mutamento biologico connesso con la pubertà che, da solo, determina tale inizio. A quel mutamento si associano necessariamente esperienze emozionali molto intense, sia per la profondità dei cambiamenti corporei e dell'assetto pulsionale, che impongono la ricerca di nuovi equilibri nei rapporti con il mondo e con il proprio sé, sia per l'eventuale precocità del cambiamento rispetto a quello dei coetanei, che lo fa giungere inaspettato, o per il suo ritardo che suscita ansie e incertezze in rapporto a chi è già cresciuto. D'altra parte, lo stesso fenomeno biologico della pubertà sembra in qualche misura dipendente dalle condizioni sociali in cui si manifesta. Si è verificata infatti negli ultimi cento anni un'accelerazione del ritmo dello sviluppo fisico dei soggetti in età evolutiva. Il fenomeno, denominato 'tendenza secolare', consiste in una maturazione più rapida e precoce dell'individuo (v. Tanner, 1962) e riguarda il ritmo dello sviluppo corporeo dei bambini (in particolare fra i 2 e 5 anni) e degli adolescenti. Per questi, oltre che la taglia fisica, concerne il sistema riproduttivo: è dimostrato infatti che l'età media della comparsa del menarca ha continuato a scendere durante l'ultimo secolo nella maggior parte dei paesi: mentre nel 1860 il menarca compariva mediamente attorno ai 16 anni, nel 1950 si presentava in genere attorno ai 14,6-15 anni e nel 1970 attorno ai 13 anni e mezzo (v. Tanner, 1978). Si pensa che all'origine di questa precocità vi siano le condizioni di vita migliorate: in particolare l'alimentazione e l'assistenza sanitaria. In periodi di intense sofferenze sociali, per esempio durante la seconda guerra mondiale, sembra che la tendenza secolare si sia interrotta per poi riprendere quando le difficoltà materiali sono state superate. Il clima, che era stato chiamato in causa, non ha invece alcuna influenza (v. Conger, 1977²).
Non discuteremo in questa sede in qual modo le migliorate condizioni materiali di vita abbiano potuto anticipare la maturità biologica, ma è interessante sottolineare quanto dati di questo genere evidenzino la stretta interdipendenza di fattori sociali e biologici nello sviluppo dell'individuo. La tendenza secolare mette anche in risalto un problema tipico dei paesi ricchi: mentre gli individui diventano più precocemente maturi sul piano biologico, la loro integrazione sociale nel mondo adulto è sempre più ritardata per il prolungamento della preparazione alla vita professionale e per la particolare complessità del mercato del lavoro. Le possibilità di conflitti sociali sono così aumentate. L'adolescenza si conclude quando l'individuo è in grado di stabilire con l'ambiente rapporti stabili e significativi: questa nozione, fondata sul carattere attivo del rapporto Sé-altri-mondo (v. Mead, 1934), indica che nel corso dell'adolescenza accadono avvenimenti i quali obbligano l'individuo a confrontarsi, e a definirsi, sia con l'ambiente, sia con i gruppi di cui è membro, sia con le proprie trasformazioni. Su questo punto i risultati delle ricerche appaiono quanto mai contraddittori. Mentre molte di esse dimostrano il carattere tempestoso e pieno di crisi emotive dell'adolescenza, altre la descrivono come una fase quieta e rettilinea di sviluppo, priva di salti bruschi o di trasformazioni subitanee: una fase perciò in cui le difficoltà di trovare nuovi equilibri possono essere affrontate senza drammi.Riconoscere che il fenomeno adolescenziale è fortemente correlato con la dinamica sociale e culturale non permette di sostenere che l'adolescenza non esista. È un fenomeno sociale, non naturale, ed è certamente in rapporto, per la sua durata, con l'esigenza sociale di preparare l'individuo a un proprio posto nel differenziato universo del lavoro. Tutto questo è usato spesso da chi detiene il potere per pianificare in modo conveniente alla sua logica gli accessi al lavoro. Ma l'adolescenza esiste e le sue caratteristiche particolari - tali che qualche autore preferisce parlare di adolescenze (v. Zazzo, 1966) - esigono di essere analizzate e comprese, per evitare che una larga fascia di giovani si trovi emarginata dal fluire del sociale, governato dalla semplicistica prospettiva che gli adulti hanno della realtà.
Psicologi, sociologi e antropologi culturali hanno studiato a lungo l'adolescenza, pur senza elaborare, a tutt'oggi, un discorso netto e lineare, in grado di esprimere il punto di vista integrato delle varie discipline. L'impressione che si ha nell'accostarsi all'ampia letteratura specialistica è anzi che ogni disciplina abbia elaborato una propria particolare prospettiva sull'argomento e, pur modificando dettagli o aggiungendo informazioni aggiornate, continui a ribadirla, trascurando i suggerimenti che potrebbero venire dalle altre discipline: in un certo senso, anzi, lo studio dell'adolescenza è il luogo privilegiato per verificare la difficoltà delle scienze sociali a integrarsi fra loro. Questo non vuol dire, però, che non ci siano contributi rilevanti propri di ogni disciplina, né che non siano state prodotte alcune rettifiche importanti a impostazioni inizialmente considerate definitive grazie al contributo di ricerche attente alle esigenze interdisciplinari.Per dare concretezza a queste considerazioni generali, percorreremo le tappe essenziali attraverso cui il discorso sull'adolescenza è stato elaborato nei suoi punti principali.
1. Il concetto di adolescenza nella psicologia genetica di G. Stanley Hall. - La prima opera scientifica in cui l'adolescenza è descritta come una fase cruciale dell'esistenza, da indagare e interpretare con metodi empirici, è Adolescence, pubblicata da G. Stanley Hall nel 1904. In essa l'adolescenza è vista come una 'nuova nascita', in quanto nel suo corso si verifica un rinnovamento totale dell'individuo. Questa affermazione è sostenuta attraverso un'esposizione che confronta e contrappone continuamente il mondo del bambino al mondo dell'adolescente: il bambino è tutto interessato al mondo esterno e ai suoi fenomeni, mentre l'adolescente è orientato soprattutto a sviluppare una vita interiore che si realizza attraverso un'elaborata capacità di introspezione e di autoesplorazione; per il bambino i fenomeni del mondo fisico hanno un valore per se stessi o suscitano qualche interesse per le modalità del loro verificarsi, mentre per l'adolescente essi sono anche il simbolo degli stati d'animo e dei sentimenti ora entusiastici e ora tristi, ora tesi ad aprirsi sulla realtà, ora chiusi e depressi, vissuti nella vita di ogni giorno; per il bambino la realtà ha una delimitazione spaziale e temporale più o meno prossima, mentre per l'adolescente le delimitazioni spazio-temporali si allargano fino a essere, in alcuni momenti e in corrispondenza di certi sentimenti, aperte sull'infinito.
A questa tesi, della profonda diversità della vita mentale del bambino e dell'adolescente, ne è strettamente collegata una seconda: il passaggio dall'infanzia all'adolescenza avviene in modo drammatico (Hall usa i termini storm and stress) e la stessa epoca adolescenziale è piena di sentimenti contraddittori, di stati d'animo ora dolorosi, ora entusiastici, di tensioni estreme spesso contrastanti. L'adolescenza è l'età delle tempeste emozionali, degli innamoramenti irrazionali e degli odi ciechi, delle prese di posizione estremistiche, della fiducia smisurata nelle proprie forze e della disperazione per i propri limiti, della voracità intellettuale e sentimentale e della rinuncia romantica sino all'autodistruzione. Hall considera i fenomeni che descrive come caratteristiche costanti dell'adolescenza, determinate biologicamente e perciò indipendenti da variabili culturali e ambientali. Questo assunto viene fondato sulla teoria dell'evoluzione: Hall applica infatti ai processi mentali l'enunciato di Haeckel secondo cui lo sviluppo di ogni organismo riassume, ripercorrendoli in maniera sommaria, i momenti dello sviluppo della specie cui l'organismo stesso appartiene (l'ontogenesi ricapitola le tappe della filogenesi). Nello sviluppo psicologico dell'individuo, dunque, si ripetono, l'una dopo l'altra, le varie fasi successivamente percorse dalla razza umana nel corso della sua storia evolutiva. Sarebbe impresa disperata enumerare i molteplici contributi che sfumano o accentuano gli enunciati essenziali di Hall: è importante comunque ricordare che a essi si rifanno autori assai noti in Europa, come Mendousse e Debesse. Quest'ultimo, in particolare, ha approfondito il discorso mostrando la rilevanza della crisi di originalità che contrassegna le contraddizioni e le ambiguità dell'età adolescenziale.Il limite fondamentale del contributo di Hall e di quelli ispirati al suo pensiero, al di là della rigida posizione evoluzionistica, è di avere del tutto trascurato il rapporto esistente fra maturazione biologica dell'individuo, condizione sociale in cui vive e fenomenologia del suo comportamento.
2. Antropologi e sociologi di fronte all'adolescenza. - Una prospettiva del tutto opposta a quella di Hall è stata delineata da Margaret Mead (v., 1928), che ha condotto la sua ricerca sull'adolescenza in una società primitiva soggiornando a lungo, essa stessa in età assai giovane, nell'isola di Taw dell'arcipelago di Samoa (Pacifico meridionale). La ricerca è stata condotta con il metodo dell'osservazione partecipante, reso possibile dalla conoscenza della lingua locale da parte dell'autrice. La Mead ha dimostrato che le tempeste emotive dell'adolescenza non sono una concomitanza inevitabile della maturità fisiologica ma si sviluppano in stretta interdipendenza con le condizioni sociali e culturali. Infatti i bambini di Samoa, che hanno fin dalla prima età un'educazione completa sulla sessualità, sulla nascita, sulla morte, attraverso il rapporto quotidiano con tali grandi fenomeni naturali, al momento della pubertà non hanno problemi ad assumere quasi tutte le forme del comportamento adulto, sia sul piano della vita sociale complessiva (lavoro, impegni reciproci, ruoli), sia sul piano sessuale. L'adolescenza, per loro, è perciò solo un periodo di transizione fra infanzia ed età adulta, sia da un punto di vista culturale che fisiologico. L'adolescente ha maggiori responsabilità del bambino, anche se non ha ancora ottenuto lo status di adulto, ed è perfettamente consapevole che, se adempirà ai compiti che gli sono attribuiti, potrà accedere a pieno titolo nell'età successiva, definita istituzionalmente come inizio della maturità, al pieno status di adulto. La Mead indica le ragioni per cui nella civiltà occidentale, a differenza di Samoa, l'adolescenza è una stagione piena di conflitti e di tensioni: 1) l'ambiente familiare, nella società occidentale, è carico di conflitti emotivi e spesso, fra genitori e figli, esiste un legame esclusivo che genera dipendenza eccessiva e quindi incapacità di stabilire contatti e vincoli profondi con gli altri. La nascita di un fratello, per esempio, può costituire un trauma per il bambino occidentale che vede in pericolo l'affetto esclusivo dei genitori, mentre nella famiglia samoana tutti i figli ricevono lo stesso trattamento e tutti apprendono a obbedire e successivamente a esercitare l'autorità; 2) nella società occidentale un ragazzo può essere facilmente frustrato e succube dell'autorità paterna, mentre a Samoa si può sfuggire alla famiglia frustrante e autoritaria andando presso altri parenti; 3) nella società occidentale l'adolescente deve vivere molti conflitti e affrontare molte scelte concernenti in particolare il comportamento sessuale, con tutte le sue implicazioni di ordine morale e religioso. A Samoa, invece, il problema della sessualità è affrontato senza prescrizioni minuziose e se ne ha una immagine molto naturale e non problematica.
La ricerca della Mead può essere criticata da molti punti di vista: chiunque legga oggi il suo libro lo trova sommario nell'informazione e spericolato nell'interpretazione. Ma anche le critiche più approfondite non intaccano la rilevanza dell'intuizione della stretta interdipendenza fra cultura e adolescenza. Se pure l'autrice ha eccessivamente polarizzato la differenza fra i processi di crescita a Samoa e nel mondo occidentale, con un'interpretazione molto personale delle osservazioni fatte, ciò che resta importante del suo contributo è l'individuazione di un criterio epistemologico radicalmente diverso da quello di Hall. Grazie a tale impostazione l'adolescenza è diventata un rilevante oggetto di studio di tutte le scienze sociali. Allo studio della Mead, infatti, fecero seguito molteplici lavori sull'adolescenza, svolti da studiosi di antropologia culturale, che confermano la stretta dipendenza dei contenuti, della 'forma' e della durata dell'adolescenza dalla cultura entro la quale si situa. Tutto l'orientamento antropologico denominato 'cultura e società', anche se si sofferma principalmente a definire i processi di allevamento e di socializzazione del bambino che determinano la 'personalità di base' propria di ogni cultura, conferma la tesi della Mead, con precisazioni e aggiustamenti.Va ricordato, tuttavia, che la cultura descritta dalla Mead, o quella delle isole Trobriand descritta da B. Malinowsky, e altre studiate da altri antropologi sono caratterizzate da una divisione del lavoro assai limitata, da una gerarchizzazione 'per età' assai chiara, da norme comportamentali da tutti condivise, da un solo universo di conoscenze e simboli a tutti noto. Al contrario, in una società come quella occidentale, in cui la divisione del lavoro è assai elaborata (con sistemi normativi complessi), gli universi simbolici sono molteplici e connessi fra loro in modo soltanto parziale, e nessuna istituzione definisce con precisione le modalità del passaggio dall'età infantile a quella adulta, la fenomenologia dell'adolescenza deve necessariamente essere multiforme e differenziata. Proprio partendo dalla consapevolezza di questi fatti è apparsa evidente l'esigenza di studiare i fenomeni adolescenziali nella società urbana e industriale (con elevata divisione del lavoro, con universi di conoscenze e istituzioni molteplici e non sempre fra loro articolati, con una pluralità di sistemi di valore) facendo riferimento alle componenti oggettive della struttura sociale.
Una ricerca condotta nel 1941 da A. Hollingshead (nell'ambito di un vasto programma di studi sul campo, per conto del Committee on Human Development dell'Università di Chicago) e pubblicata, per lo scoppio della guerra, solamente nel 1949, introduce come variabile esplicativa principale del comportamento adolescenziale l'organizzazione in classi della società industriale.Il comportamento dell'adolescente costituisce, secondo Hollingshead, "un tipo di comportamento di transizione dipendente dalla società, e più particolarmente dalla posizione che gli individui occupano nella struttura sociale, piuttosto che da fenomeni biopsicologici connessi con quest'età, come la pubertà, o le condizioni cosiddette psico-organiche indicate come 'tendenze', 'impulsi', 'tensioni' ". Sociologicamente l'adolescenza è il periodo della vita di una persona in cui la società "cessa di considerare il singolo (maschio o femmina che sia) come bambino e non gli accorda ancora status, ruoli e funzioni completamente adulti" (v. Hollingshead, 1949, pp. 6-7).In particolare, questa ricerca ha messo in luce che Elmtown, la piccola città del Midwest oggetto di studio, era stratificata in cinque classi sociali, ciascuna con una propria cultura. Ogni adolescente era consapevole della cultura e, in modo meno esplicito, della classe cui apparteneva la propria famiglia. La posizione di classe dei genitori degli adolescenti, poi, ne influenzava direttamente ed estesamente il comportamento in relazione alla scuola, alla chiesa, al lavoro, al divertimento, alla composizione dei gruppi di coetanei e alla famiglia.
3. Il contributo della psicanalisi. - Il contributo della psicanalisi allo studio dell'adolescenza è stato tanto rilevante che molti concetti psicanalitici sono diventati essenziali per qualsiasi discorso, anche non specialistico, sull'argomento.Fin da Sigmund Freud, gli psicanalisti hanno postulato che ci sia, all'inizio dell'adolescenza, un marcato incremento delle pulsioni, in particolare di quelle sessuali, e che da tale incremento pulsionale derivi la spinta più importante allo sviluppo. Anna Freud (v., 1936 e 1958) ha confermato questo punto di vista e lo ha integrato con l'affermazione che il grande cambiamento adolescenziale deriva universalmente dallo sviluppo pulsionale nella pubertà. Per questo l'adolescenza implica, di norma, un disturbo legato allo sviluppo. Lo sviluppo pulsionale è considerato come produttore di un Es relativamente forte che si confronta con un Io relativamente debole; ciò dà luogo a un aumento del conflitto nell'espressione degli impulsi contro cui si intensificano le difese, a una maggiore labilità affettiva e a un comportamento psicologicamente regressivo. Tali conflitti psicologici e stress esistono in tutti gli adolescenti come un aspetto necessario e invariante dello sviluppo psichico.Il cambiamento adolescenziale è stato anche messo in rapporto con le forme di attaccamento verso i genitori. Con la crescita delle pulsioni sessuali i legami affettivi con i genitori diventano intensamente sessualizzati, riattivando fantasie edipiche non risolte (v. Blos, 1962). Questo processo produce ansia nell'adolescente, lo conduce a cercare nuove difese contro i legami emozionali con i genitori, e richiede il reinvestimento dei bisogni affettivi e sessuali in persone al di fuori della famiglia, in modo particolare nei coetanei.I classici della psicanalisi, dunque, considerano inevitabile e necessaria, per l'adolescenza, una profonda tempesta emotiva. Anche autori recenti, come J. Kestenberg (v., 1967 e 1968), ripropongono questa posizione ipotizzando esplicitamente una relazione diretta fra i cambiamenti ormonali e le fasi del cambiamento psicologico, mentre considerano irrilevanti i fattori sociali. È nell'opera di Erik H. Erikson (v., 1950, 1958 e 1968) che lo schema di Anna Freud viene elaborato tenendo conto di tutti i problemi posti, al soggetto in età adolescenziale, dal fatto di appartenere a una società e a una cultura. L'adolescente si preoccupa per il proprio sviluppo fisico e sessuale non solo perché non conosce il proprio corpo e le sue reazioni, ma anche perché non sa come gli altri lo vedono e lo considerano; ancor più difficile è per lui sapere se riuscirà, sulla base delle capacità già fatte proprie, ad acquisire quelle indispensabili per raggiungere la considerazione sociale.
L'integrazione che egli cerca, dunque, riguarda le capacità dell'Io di collegare le identificazioni infantili con le nuove esigenze, con le attitudini sviluppate sulla base dei talenti innati, con le possibilità offerte dai ruoli sociali.Raggiungere una propria identità significa, per il soggetto, sentirsi lo stesso pur nella tempesta di mutamenti che attraversa, accettare trasformazioni fisiche ed esigenze sessuali nuove, connesse con la maturazione dei genitali (quelle che Erikson chiama le vicissitudini della libido), avvertire l'esigenza di essere apprezzato e considerato non solo sul piano dell'aspetto fisico, ma anche su quello dell'inserimento sociale. Erikson parla specificamente di un'' 'aumentata fiducia che la propria continuità interiore trovi conferma nel giudizio degli altri, quale si esprime tangibilmente nella promessa di una carriera '. Per raggiungere questa unità in se stessi gli adolescenti possono identificarsi temporaneamente in modo esasperato con gli eroi e gli idoli del momento, sino al punto da sembrar perdere la propria identità. L'esito negativo, la confusione a proposito della sua posizione sociale e delle attese che si hanno nei suoi confronti, si ha quando l'adolescente non sa trovare la propria unità altro che nell'identificazione con modelli socialmente apprezzati, passando dall'uno all'altro a seconda delle richieste sociali che avverte più impellenti. Erikson precisa che il processo attraverso il quale si giunge all'identità si svolge in modo differenziato nei diversi contesti culturali: in Infanzia e società analizza storie esemplari nella cultura americana, tedesca e russa, con ampi riferimenti agli studi della Mead e della Benedict; in Il giovane Lutero approfondisce lo studio delle diverse fasi della socializzazione di Lutero, per dar conto della personalità complessa e della forza creatrice che egli seppe esprimere nel suo impegno di riformatore.Non si deve considerare la fase conflittuale che prelude al raggiungimento dell'identità o alla confusione dell'Io come un momento assolutamente privo di tregua: Erikson ha definito con il termine 'moratoria' la stabilizzazione provvisoria e apparentemente conformista di molti giovani in attesa che il processo riprenda in modo definitivo e risoluto. Una fase tipica di moratoria, secondo Erikson, è quella della giovinezza di Lutero.
Le impostazioni che le diverse scienze sociali hanno dato allo studio dell'adolescenza sono tanto divergenti da sembrare inconciliabili.Già Kurt Lewin (v., 1939) aveva affermato che occorre cercare un unico approccio - tanto sotto il profilo linguistico, quanto sotto quello concettuale - per studiare, all'interno di ogni singolo campo scientifico, i mutamenti che si verificano nell'adolescenza a livello fisico, ideologico e di appartenenza di gruppo.Lo stesso Lewin ha elaborato alcune proposizioni che delineano un metodo per lo studio del periodo adolescenziale. Non serve, egli sostiene, discutere se l'adolescenza sia prodotta da fattori biologici o sociologici, mentre è utile studiare prima di tutto situazioni e casi che mostrino le difficoltà cosiddette tipiche del comportamento adolescenziale, e individuare le condizioni in cui tali fenomeni appaiono più rilevanti o meno avvertiti. Quello che è successo nelle scienze sociali dopo Lewin è del tutto in contrasto con tale impostazione. Ci sono stati studi sociologici assai rilevanti sulla funzione sociale dell'adolescenza: si è chiarito che i gruppi di coetanei sono uno strumento di socializzazione della stessa importanza della famiglia e che essi compaiono all'interno di una società (come quella occidentale, industriale e urbana) in cui la famiglia non è in grado di insegnare i ruoli sociali più complessi (v. Eisenstadt, 1956); che i gruppi 'devianti' di adolescenti elaborano uno stile di comportamento che segue codici ben definiti, affinati e complessi e non sono privi di regole di condotta (v. White, 1943); che la gran quantità di tempo trascorso in comune dagli adolescenti dà luogo a comunicazioni particolarmente agevoli e originali all'interno dei gruppi, tanto che qualcuno, senza peraltro riuscire convincente, ha sostenuto l'esistenza di una sub-cultura giovanile (v. Coleman, 1961) espressa dagli studenti dei colleges americani.Negli anni settanta gli studi sociologici si sono centrati prevalentemente sul fenomeno della scolarizzazione di massa degli adolescenti, mettendo in risalto la funzione di 'riproduzione' dell'ordine sociale esistente, assunta dalla scuola nelle società capitalistiche avanzate (v. Bourdieu e Passeron, 1970), e avanzando seri dubbi circa la capacità effettiva della scuola di assicurare una funzione di mobilità sociale ascendente.
Tuttavia i contributi sociologici (Hollingshead, Eisenstadt, Coleman, ecc.), pur focalizzando alcuni fenomeni presenti nell'epoca adolescenziale, non riescono a dar conto dei processi attraverso cui quei fenomeni si producono; in genere i dati empirici di cui dispongono non sono sufficienti per sostenere le interpretazioni fornite.
Oltre a ciò, essi svolgono un discorso che pretendono valido per tutti gli adolescenti nella società industriale, portando soltanto dati concernenti soggetti maschi, bianchi e studenti. I fenomeni che riguardano i giovani lavoratori, le ragazze, gli adolescenti di minoranze etniche meno privilegiate non sono considerati rilevanti se non per gli aspetti di 'devianza' che esprimono. Ma soprattutto è trascurata l'articolazione fra il fenomeno preso in considerazione e i processi di interazione sociale in cui si esplicita il funzionamento psicologico degli individui e dei gruppi. In tal modo non si tiene conto della partecipazione attiva e della creatività sociale degli individui (singoli e in gruppi), e si rischia una presentazione meccanicistica e reificata dei fenomeni in esame.I contributi psicologici, d'altra parte, non hanno saputo coordinare i processi intrapsichici - individuati partendo dall'esperienza clinica - con il contesto sociale in cui si verificano. In conseguenza di ciò, tali processi sono stati assunti spesso come fenomeni 'universali' e non come processi che si attivano in presenza di certe condizioni sociali e in certi momenti storici. Resta intatta quindi la validità della proposta metodologica di Lewin, nonostante risalga a cinquant'anni fa. Tenteremo perciò di sviluppare il discorso ispirandoci alle sue indicazioni: illustreremo i fenomeni che, in base ai dati disponibili, possono essere considerati 'universali', in quanto caratterizzano ogni adolescenza, ed esamineremo poi i modi in cui il soggetto in età adolescenziale, in rapporto alla propria appartenenza familiare, sociale e culturale, affronta i compiti postigli dal processo di sviluppo in cui è coinvolto per costruire la propria identità di adulto.
Gli studiosi dell'adolescenza hanno centrato la loro attenzione su tre fenomeni: uno di origine biologica (la pubertà), dalla rilevanza sociale e psicologica elevata; uno di tipo cognitivo (l'acquisizione del pensiero formale), che incide sul modo in cui il soggetto si pone di fronte alla realtà sempre più vasta che costituisce il suo mondo; uno caratterizzato in senso sociopsicologico (l'evoluzione del sistema del Sé), che compendia gli effetti di tutti i cambiamenti connessi con la vicenda adolescenziale.
La pubertà è un'esperienza universale della specie umana. Soltanto gravissimi disordini fisici o sociali che incidano gravemente sulla psiche del soggetto in corso di sviluppo, oppure malattie fisiche o psichiche, possono impedirne la comparsa o il regolare svolgimento.La pubertà è un processo, non un evento, che implica un cambiamento per cui l'organismo diventa da immaturo maturo, dotato di una completa potenzialità riproduttiva (v. Grumbach e altri, 1974). Tale cambiamento è provocato dal sistema ormonale, attivo già prima della nascita, quando si verifica un fenomeno di sexing of neural tissues (v. Faiman e Winter, 1974, p. 52). Mentre per le femmine il processo di maturazione puberale è accertato dalla comparsa del menarca, per i maschi debbono essere chiamate in causa molteplici altre modificazioni fisiche. Il momento della prima eiaculazione di liquido seminale è spesso considerato l'equivalente maschile del menarca: si verifica in genere un anno prima dell'inizio della crescita del pene e degli altri organi dell'apparato riproduttivo maschile, ma i dati sull'argomento appaiono ancora poco attendibili. I cambiamenti dei caratteri sessuali secondari che avvengono nel corso della pubertà sono stati descritti da J. H. Tanner (v., 1962) facendo riferimento a una serie successiva di stadi puberali.
Sul rapporto pubertà-cambiamenti psicologici è stata fatta molta ricerca sia adottando l'impostazione psicanalitica di Anna Freud, sia adottando criteri socioantropologici. Si è molto sottolineata l'importanza del cambiamento pubertario per lo status sociale (v. Opler, 1971): in molte società, per esempio, gli indicatori della pubertà sono impiegati per indicare il raggiungimento dello status adulto. Nelle società occidentali non vi è una corrispondenza così diretta fra cambiamento puberale e status adulto (anzi, vi è una divaricazione crescente), ma è chiaro che la crescita fisica e l'aspetto adulto inducono anche qui l'attesa di un comportamento più maturo (v. Conger e Petersen, 1984³.L'osservazione della generalità del rapporto fra pubertà e cambiamento psicologico, peraltro, non dimostra in alcun modo la presenza di una relazione causale fra questi fenomeni nel singolo soggetto. Una ricerca di Tobin-Richards e altri (v., 1983) ha dimostrato, anzi, che ragazzi e ragazze in ritardo rispetto ai coetanei per lo sviluppo fisico e sessuale si sentono a disagio e appaiono agli altri particolarmente irrequieti.
Un altro problema di ampio respiro riguarda la specificità dello sviluppo cognitivo che si verifica nell'adolescenza, considerata da molti autori non tanto una fase di passaggio, quanto il momento in cui l'individuo acquisisce le capacità intellettuali più elevate, cioè il momento del compimento dello sviluppo cognitivo (v. Speltini, 1986). Pagnin (v., 1983) sostiene che lo sviluppo mentale sembra determinato, a partire dall'adolescenza, più da fattori d'ordine sociale (prolungamento della scolarizzazione) o motivazionale che da un aumento della capacità intellettuale propriamente detta. Per questo, mentre ha senso confrontare lo specifico dell'intelligenza dell'adolescente con quello del bambino, non ha senso confrontarlo con quello dell'adulto, poiché la struttura e il funzionamento sono gli stessi. Sono stati Piaget e la sua scuola (v. Inhelder e Piaget, 1955) a vedere nell'adolescenza il momento culminante dello sviluppo cognitivo, un processo che inizia sin dalla nascita e i cui stadi possono essere osservati nel corso dello sviluppo infantile. Secondo la scuola di Ginevra, nell'età della scuola elementare il bambino impara a usare la logica delle operazioni concrete riferita a oggetti presenti o facilmente rappresentabili, ed essa gli permette di comprendere le classificazioni più semplici, le nozioni di numero, di misura, le relazioni geometriche di base. In seguito, nel corso dell'adolescenza si verifica un importante cambiamento delle strutture logiche: l'individuo sviluppa la capacità di ragionare in termini proposizionali, diviene cioè capace di trattare problemi del tutto astratti, di basarsi su ipotesi, su possibilità puramente teoriche, su relazioni logiche, senza preoccuparsi dei rapporti con la realtà. In altre parole, diviene capace di impiegare la logica formale, indipendente da ogni contenuto. L'adolescente si rende conto che una conclusione può essere valida sul piano logico indipendentemente dalla realtà del punto di partenza. Il possibile prevale sul reale e il pensiero è in grado di combinare fra loro delle operazioni: una capacità che permette di integrare il reale nell'insieme dei possibili. In altri termini, l'adolescente è capace di manipolare le idee ed è in grado di capire e costruire delle teorie e dei concetti astratti come l'adulto. In particolare egli riesce a: 1) ragionare su situazioni ipotetiche; 2) elaborare sistematicamente delle ipotesi; 3) impiegare le strutture logico-combinatorie; 4) scoprire l'incoerenza delle proposizioni.
Connesso strettamente alla capacità cognitiva di elaborare le operazioni formali è lo sviluppo della coscienza morale nell'adolescente. Ancora Piaget (v., 1932) è stato uno dei primi psicologi a studiare gli aspetti cognitivi dello sviluppo morale: per far questo egli pose domande concernenti problemi morali o valori etici a soggetti di diversa età. Osservò così delle differenze rilevanti fra le risposte dei bambini e quelle degli adolescenti. I bambini sembrano impiegare un criterio di 'realismo morale', dal momento che per loro la regola è una realtà che non può essere messa in discussione; i giudizi di valore sono espressi su una base obiettiva, considerando, per esempio, l'importanza del danno causato (chi rompe otto bicchieri è più colpevole di chi ne rompe uno, indipendentemente dalle circostanze dell'incidente). A partire dai 7-8 anni il bambino elabora un pensiero morale fondato, invece che sulla rigidità delle regole, sulla cooperazione, la reciprocità e il rispetto per gli altri: per lui il sentimento di giustizia si basa su un criterio fondamentale di uguaglianza (per questo giunge talvolta a criticare con durezza i genitori). Dagli 11 anni in avanti, infine, la giustizia puramente egualitaria è progressivamente sostituita da una considerazione più attenta non solo ai risultati dell'azione, ma anche alle intenzioni dell'attore e alle circostanze in cui opera.
Piaget ritiene che nel passaggio da uno stadio all'altro abbiano un ruolo importante sia lo sviluppo cognitivo, sia l'interazione con i coetanei e con il mondo sociale più vasto. Lo sviluppo morale richiede che il bambino superi l'egocentrismo e il realismo ingenuo ed elabori un concetto di sé del tutto autonomo dagli altri. Questa evoluzione è resa possibile nell'infanzia, e soprattutto nell'adolescenza, dall'interazione con i coetanei, che mette in risalto in modo sempre crescente come le regole siano prodotti di cooperazione, finalizzate a scopi raggiungibili, e siano perciò modificabili per mutuo consenso. L'interazione con i pari, inoltre, rende evidente l'interdipendenza reciproca, per cui uno può sperimentare certe difficoltà se l'altro fa qualcosa che egli non vuole, e i punti di vista degli altri, pur diversi dai propri, possono a volte dare origine ad azioni dal risultato positivo. Tutto ciò aiuta il soggetto a cogliere gli stati d'animo che sono all'origine delle azioni degli altri e a prenderne in considerazione le intenzioni.Partendo da queste riflessioni di Piaget sull'evoluzione della coscienza morale, Doise e Mugny (v., 1981) hanno iniziato il filone di studi che evidenzia, con ampie verifiche sperimentali, l'importanza dei fattori sociali per lo sviluppo cognitivo. L. Kohlberg (v., 1969) ha cercato di inserire l'analisi di Piaget in uno schema più elaborato, dettagliato e logicamente coerente. Le ricerche necessarie sono state realizzate presentando, tramite brevi storie, delle situazioni riguardanti dilemmi morali a ragazzi di diversa età, e classificando le risposte ottenute a vari livelli di evoluzione.
Kohlberg è così giunto a proporre sei stadi dello sviluppo morale, raggruppati in tre livelli principali: 1) morale pre-convenzionale, antecedente alla consapevolezza che esistono regole e norme a carattere generale e basata sulla paura della punizione o sulla ricerca di un vantaggio immediato o, al massimo, su uno scambio concreto; 2) morale convenzionale, centrata sull'importanza della norma sociale o della legge come principio al di sopra dell'individuo; 3) morale post-convenzionale, che matura non prima dell'adolescenza e si riferisce a principî astratti più generali, sulla base dei quali è possibile modificare, adattare o mettere in discussione anche le norme e le leggi, dal momento che si tratta di coordinare principî spesso contrapposti (per esempio le esigenze della società e quelle dell'individuo) o di riferirsi a criteri etici universali. Quest'ultimo livello non è raggiunto da tutti, anzi, secondo le ricerche di Kohlberg la maggior parte degli individui non vanno oltre il livello della morale convenzionale.
Kohlberg ha anche studiato la struttura del pensiero morale in diverse culture: in tre culture profondamente diverse (sono stati studiati ragazzi di classe media e ambiente urbano negli Stati Uniti, in Taiwan e in Messico) ha potuto dimostrare una sequenza quasi identica dello sviluppo morale, con alcune differenze per il ritmo di sviluppo e, soprattutto, per il fatto che nella società centramericana e in quella asiatica gli stadi post-convenzionali appaiono estremamente rari.Tutte queste osservazioni pongono il problema di capire se il livello di pensiero morale che ogni individuo raggiunge a un momento dato costituisca una sua caratteristica stabile.E. Turiel (v., 1969) ha esaminato questo problema tentando di modificare le opinioni morali di gruppi sperimentali di ragazzi: dopo aver stabilito lo stadio di sviluppo morale raggiunto dal soggetto, gli presentava argomenti a favore di opinioni corrispondenti a livelli più alti o più bassi. Ha così potuto vedere che i soggetti possono accettare un modo di pensare più avanzato di uno stadio rispetto al proprio (si è riferito per questo ai sei stadi di Kohlberg), mentre raramente possono concordare con un modo di pensare più primitivo e non riescono quasi mai ad avanzare di due stadi.Sia la teoria di Piaget sullo sviluppo cognitivo, sia quella di Kohlberg sullo sviluppo morale sono state oggetto di critiche spesso ben documentate.Diversi autori hanno dimostrato, per esempio, che non è vero che la maggioranza degli adolescenti giunga allo stadio delle operazioni formali verso i 15 anni e impieghi perciò il pensiero ipotetico-deduttivo a partire da quel momento. Shayer e altri (v., 1976) e Shayer e Wylam (v., 1978), con uno studio su 1.000 studenti inglesi, mostrano che soltanto il 30% dei soggetti considerati giunge, a 16 anni, allo stadio iniziale del pensiero formale, e soltanto il 10% a quello più avanzato. Palmonari e altri (v., 1979) mostrano che nell'elaborazione di progetti personali per il futuro nessuno degli adolescenti apprendisti esaminati è in grado di ragionare in termini ipotetico-deduttivi; sono in grado di farlo invece gli studenti di liceo o di istituto tecnico, indipendentemente dalla classe sociale di provenienza.
Critiche ancor più severe di quelle a cui è stata sottoposta la teoria di Inhelder-Piaget sono toccate alla teoria di Kohlberg, nonostante le ricerche interculturali effettuate dallo stesso Kohlberg sullo sviluppo morale: soprattutto, sostengono molti autori, la sua teoria è troppo penetrata dall'ideologia liberale, tant'è vero che fa riferimento esplicito, per illustrare lo stadio più avanzato, all'imperativo categorico di Kant e alle teorie di Rawls.Critiche di questo tipo evidenziano che l'ambito logico-matematico scelto da Inhelder e Piaget per i loro esperimenti non è il solo che permette di applicare il pensiero formale, così come le questioni astratte di Kohlberg non costituiscono le condizioni ideali per studiare lo sviluppo della coscienza morale. Gli studi per superare tali impasses sono però assai pochi e privi del respiro necessario per delineare una teoria più completa dello sviluppo cognitivo in età postinfantile e i suoi rapporti con lo sviluppo morale.
Le trasformazioni che si verificano nel corso dell'adolescenza incidono fortemente sull'organizzazione del sistema del Sé dell'individuo. I cambiamenti fisici e pulsionali, l'allargamento dell'orizzonte cognitivo, le responsabilità che vengono imposte all'adolescente per il fatto stesso di considerarlo 'un individuo che è cresciuto', le preoccupazioni che egli avverte per la paura di non riuscire a soddisfare le aspettative degli altri, simultanee spesso all'orgoglio di 'dovercela fare', sono tutti elementi che impongono una nuova organizzazione del Sé. La letteratura specialistica su questo argomento è assai vasta, ma nel suo ambito si rilevano contraddizioni importanti connesse alla non chiara definizione teorica del problema.Alcuni autori, per esempio, hanno dimostrato come vi sia una notevole stabilità dell'immagine di sé nei ragazzi tra i tredici, quindici e diciassette anni sottoponendo loro, in fasi successive, un test di autodescrizione (v. Engel, 1959), o con studi sincronici su gruppi di soggetti di età diversa (v. Tomé, 1972; v. Monge, 1973). Altri autori (v., per esempio, Katz e Zigler, 1967) trovano risultati opposti: l'immagine di sé con il progredire dell'età si modifica.Ci sono però differenze metodologiche rilevanti fra le due correnti di ricerca: mentre nella prima si chiede al soggetto di definire il proprio Sé in momenti successivi senza chiedergli di confrontarlo con quello di altri coetanei, o con quello che era precedentemente, o con quello che egli vorrebbe essere, nella seconda serie di ricerche almeno uno di tali confronti è sempre richiesto. L'apparente continuità della rappresentazione di sé sembrerebbe in rapporto con la continuità del modo in cui il soggetto sente di doversi presentare agli altri: se però allo stesso soggetto si chiede di confrontarsi con quello che era o con quello che vorrebbe essere, o di precisare l'eventuale sua somiglianza con gli altri, i cambiamenti emergono con chiarezza. Per questo è più opportuno, come fa C. W. Sherif (v., 1984), mettere a fuoco i cambiamenti dell'organizzazione del sistema del Sé, assumendo una rappresentazione complessa dello stesso sistema e dando per scontato che questo 'oggetto sociale' sia indagabile soltanto tramite la raccolta di riflessioni articolate (i confronti fra sé e gli altri) e l'osservazione di indizi comportamentali accuratamente studiati nel quadro dell'ambiente sociale in cui si verificano. Damon e Hart (v., 1982) in una impegnativa rassegna prendono in considerazione gli studi sui cambiamenti delle dimensioni cognitive del sistema del Sé nel corso dell'adolescenza. I contributi sui quali si soffermano in particolare sono quelli di Selman (v., 1980), Broughton (v., 1978 e 1980) e Bernstein (v., 1980).
Dagli studi esaminati appaiono rilevanti alcuni patterns ontogenetici della comprensione di sé dall'infanzia all'adolescenza: a) il passaggio da una concezione di sé in termini fisici a una concezione di sé in termini psicologici; b) l'emergenza di caratterizzazioni di sé in termini di qualità sociali stabili; c) la comprensione di sé in termini sempre più precisi di tipo intenzionale, volitivo e riflessivo; d) la tendenza a sistemare concettualmente i diversi aspetti del Sé in un sistema unificato. Questi elementi appaiono coerenti con la tesi di Inhelder e Piaget circa la formalizzazione del ragionamento nel corso dell'adolescenza.
Si pone però, anche per gli studi di questi autori, l'esigenza di una verifica più attenta dei fattori dello sviluppo adolescenziale connessi all'interazione individuo-altri-ambiente: mancano infatti i confronti sistematici fra la comprensione di sé in adolescenti di diverse culture, o di diverse categorie sociali entro una stessa cultura. Gli autori che nello studio dell'adolescenza hanno considerato più a fondo l'intrecciarsi di fattori sociali, personali e culturali sono senza dubbio (dopo Lewin, che però scrisse soltanto il già citato saggio teorico-metodologico) Muzafer e Carolyn W. Sherif (v., 1953, 1964 e 1965). Mettendo a fuoco nello stesso tempo tutti i fattori in gioco nelle situazioni concrete in cui gli adolescenti vivono le loro esperienze e progettano il loro futuro, questi autori hanno potuto dimostrare che alcuni fenomeni universali dell'età adolescenziale, come la rapidità dello sviluppo fisico e la modificazione del senso di responsabilità che allontana dalle dipendenze infantili, si ripercuotono sul sistema del Sé di ogni individuo. Queste modificazioni del Sé, a loro volta, influenzano gli atteggiamenti e il comportamento sociale, innescando così un ulteriore processo di cambiamento riguardante la persona e i suoi rapporti sociali. Gli Sherif considerano i gruppi di coetanei (peer groups) come il laboratorio sociale più rilevante dei cambiamenti adolescenziali. Le relazioni stabilite nell'infanzia sono infatti messe in discussione dai 'fatti nuovi' che caratterizzano l'adolescenza; ciò motiva l'individuo a cercare attivamente relazioni precise con gli altri e una via d'uscita dalle incertezze in cui è calato. L'organizzazione per età, tipica della scuola e di molte forme di vita comunitaria nella società di oggi, si rivela, in rapporto a questi punti, decisiva. L'adolescente non scrive più diari sulla propria solitudine se vede che i suoi coetanei vivono la sua stessa esperienza; tende piuttosto a incrementare e approfondire le relazioni con essi.
La spinta verso i coetanei indica chiaramente uno spostamento dell'equilibrio nel sistema del Sé: da un riferimento preciso agli adulti a uno accentuato verso i pari, almeno nelle attività e nelle esperienze di vita non più dominate dagli adulti.Pur condividendo l'impostazione teorica di fondo dell'opera degli Sherif, chi scrive ritiene che il loro modello di articolazione fra fattori psicologici e sociologici risenta ancora di una rigida separazione fra i primi (i mutamenti nel sistema del Sé) e i secondi (l'ambiente sociale in cui il gruppo di adolescenti si costituisce). In un nostro lavoro (v. Palmonari e altri, 1979 e 1984) siamo riusciti a dimostrare la presenza dell'influenza congiunta di fattori sociali e psicologici sul processo di riorganizzazione del sistema del Sé dell'adolescente. Nel corso del processo attraverso cui l'adolescente (sia che appartenga alla categoria studenti che alla categoria apprendisti) giunge ad elaborare le somiglianze-differenze fra il proprio Sé e altri soggetti sociali significativi presenti nel suo spazio di vita (gli studenti, gli apprendisti, i ragazzi, le ragazze, gli adulti uomini e donne), egli giunge anche a definire i criteri in base a cui categorizza i gruppi di coetanei con cui ritiene di potersi, o no, identificare. È attraverso un tale processo in cui è implicato in quanto attore sociale che l'adolescente, nelle diverse situazioni concrete in cui vive, giunge a sentire una maggiore affinità con alcuni coetanei ed entra perciò a far parte di un determinato gruppo di pari.
Da quanto detto sinora emerge la complessità del fenomeno adolescenziale dovuta alla stretta interdipendenza, in ogni sua espressione, fra i fattori biologici, psicologici e sociali che vi sono implicati.Per esplorare tale complessità ci sembra opportuno impiegare, come schema organizzatore del discorso, la nozione di 'compiti di sviluppo' (developmental tasks). La nozione è stata elaborata da R. Havighurst (v., 1948, p. 2): "I compiti che un individuo deve affrontare, i compiti di sviluppo della vita, sono il presupposto di una crescita sana e soddisfacente nella nostra società [...]. Un compito di sviluppo è un compito che si presenta in un determinato periodo della vita di un individuo e la cui buona risoluzione conduce alla felicità e al successo nell'affrontare i problemi successivi, mentre il fallimento di fronte a esso conduce all'infelicità, alla disapprovazione da parte della società e a difficoltà di fronte ai compiti che si presentano in seguito".Secondo Havighurst la vita dell'individuo è costituita da una successione di compiti che devono essere affrontati e risolti in momenti opportuni e prestabiliti. Se questo non avviene, lo sviluppo dell'individuo viene compromesso e tutto il complesso meccanismo di evoluzione della sua personalità ne risulta sconvolto. Così nell'infanzia esistono dei compiti, quali imparare a camminare e a parlare, i cui tempi sono biologicamente determinati, ma oltre alle determinanti biofisiche esistono altre 'sorgenti' dei compiti di sviluppo: le pressioni culturali della società pretendono dall'individuo, con esattezza temporale, competenze comunicative specifiche, quali lettura e scrittura, oltre che specifiche competenze sociali, quali, ad esempio, diventare uno scolaro, poi uno studente, ecc.
Alcuni compiti di sviluppo sono praticamente universali e costanti in ogni cultura, altri, invece, sono presenti solo in alcune società, o sono peculiarmente definiti dalla cultura di una società. Anche i compiti fondati in gran parte sulla maturazione biologica dell'individuo (come l'imparare a camminare) mostrano differenze culturali a volte assai lievi, a volte più rilevanti: in una certa cultura è considerato normale imparare a camminare entro il primo anno di vita, in altre si attende sino a un'età più avanzata. Altri compiti, specialmente quelli che derivano dalle richieste sociali, mostrano una grande variabilità da una cultura all'altra. Il compito di prepararsi per una futura carriera, per esempio, è molto semplice in una ipotetica società omogenea, con una divisione del lavoro assai ridotta, in cui tutti gli adulti (salvo le differenze di genere) hanno la stessa occupazione; al contrario, nelle società industrializzate e pluraliste tale compito è uno dei più complessi e difficili.Ogni classe sociale e ogni gruppo influenzano con le proprie specificità anche i compiti di sviluppo: riprendendo l'esempio precedente, un individuo appartenente a una classe più agiata può sentire come meno impellente e preoccupante il problema dell'occupazione.
Noi useremo la nozione di compiti di sviluppo in modo meno ambizioso di Havighurst, il quale ne ha fornito un quadro assai dettagliato, ma troppo statico e privo di sfumature. A noi sembra infatti che la nozione si possa impiegare, sul piano metodologico, per analizzare i diversi e molteplici problemi che ogni adolescente (maschio o femmina) deve affrontare e superare per costruire la propria identità e la propria autonomia di adulto. I compiti di sviluppo si definiscono in rapporto con l'ambiente storico e sociale in cui ogni individuo è posto: in certe condizioni possono essere affrontati senza drammi, in altre appaiono tutti insieme e sono particolarmente difficili, creando frustrazioni e angosce che portano irrequietezza, aggressività o, al limite, apatia. Tutti gli adolescenti, comunque, devono affrontarne per divenire adulti, con un impegno che richiede energie assai elevate. È impossibile enumerare tutti i compiti di sviluppo. La posizione metodologica che noi assumiamo presuppone che, se si vuol capire quello che accade a un certo adolescente, si devono analizzare le forze sociali presenti nel contesto in cui vive, la rete relazionale in cui è posto, le rappresentazioni sociali che condivide (v. Moscovici, 1984), le azioni che compie. Su tale base si potrà anche delineare la mappa dei compiti di sviluppo che egli (o ella) dovrà affrontare per costruire la propria identità.
Proponiamo, ai fini del presente lavoro, una classificazione dei compiti di sviluppo: 1) compiti di sviluppo in rapporto con l'esperienza della pubertà; 2) compiti di sviluppo in rapporto con l'acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo; 3) compiti di sviluppo in rapporto con l'esigenza di autonomia e di inserimento sociale. Non possiamo fornire in questa sede un'illustrazione puntuale della tipologia delineata. Ci limiteremo a portare alcuni esempi di compiti di sviluppo in rapporto con il cambiamento del sistema del Sé. Ogni adolescente deve trovare la propria unità personale pur vivendo l'esperienza di un Sé diviso e, spesso, contraddittorio. Infatti, attraverso la molteplicità di rapporti che sperimenta, l'adolescente si rende conto di presentarsi agli altri in modi diversi da situazione a situazione: un modo in casa, un modo nel contesto scolastico, uno con i compagni di sesso diverso, un altro in un ambiente sportivo o in un circolo culturale.
Questo doversi presentare in modo appropriato a ogni situazione è vissuto a un tempo come un'esigenza e come una minaccia: come un'esigenza perché il soggetto avverte che presentandosi sempre allo stesso modo in tutti gli ambienti apparirebbe goffo e ridicolo; come una minaccia perché teme, a causa di questi diversi modi di presentarsi, di perdere la continuità di se stesso e, al limite, la propria coerenza. L'essere sempre se stessi è, infatti, uno degli imperativi morali più rigidi della nostra cultura. Potremmo parlare di questo compito di sviluppo riferendolo all'esigenza di trovare un'identità sincronica del Sé; ciò permette di differenziarlo dall'altro compito, riferito all'esigenza di un'identità diacronica del Sé, che è posto all'adolescente dalla scoperta di essere diverso sul piano fisico e psicologico da quello che era in passato e da quello che potrà essere in futuro.Il soggetto deve, in altre parole, accettare i suoi diversi modi di presentarsi nei vari contesti e incontri interpersonali come l'espressione di un proprio modo più profondo e sentito di essere se stesso. Nell'impegno teso a trovare l'unità del Sé, che appare e immediatamente si sperimenta diviso, il soggetto avverte continua l'esigenza di avere interlocutori ben identificati, stabili e comprensivi. Si evidenzia così l'importanza del gruppo dei coetanei, nel quale ognuno può esprimere, senza preoccupazione di mostrarsi troppo debole, le angosce che gli dà la propria vacillante unicità e può essere rassicurato nel vedere negli altri gli stessi suoi problemi. Ma altrettanto importanti restano i rapporti con certi adulti che danno un senso, tramite la loro stabilità e la loro capacità di ascoltare, all'impegno per ritrovare l'unità del Sé. Tutto questo porta a riconoscere differenze significative nei compiti di sviluppo concernenti il sistema del Sé che si propongono agli e alle adolescenti appartenenti a diverse classi sociali e - all'interno di queste - a diversi gruppi. Mentre per molti il processo di cambiamento si verifica nel contesto famiglia-scuola e i problemi che si pongono sono strettamente connessi al tipo di scuola, alle richieste che avanza, al significato che assume, per altri adolescenti il processo di cambiamento si verifica nel contesto di un difficile (e spesso precario) inserimento nel lavoro. I problemi specifici di tali esperienze sono stati più volte studiati (v. Sarchielli, 1972; v. Willis, 1977; v. Palmonari e altri, 1979; v. Lutte, 1981), ma persiste una sorta di incapacità di rilevarli da parte della cultura ufficiale.
Nell'ultimo decennio ha suscitato molto interesse anche il problema del diverso modo in cui il sistema del Sé si riorganizza, in fase adolescenziale, nei ragazzi e nelle ragazze alle prese con lo sforzo di elaborare un proprio modo autonomo di confrontarsi con i modelli proposti dalla società e dalla cultura. La posizione più largamente condivisa considera inevitabile una maggiore difficoltà per le ragazze: ai maschi in fase adolescenziale è fornito un supporto sociale ben definito (magari diverso da classe a classe, ma rilevante) perché si preparino a inserirsi in modo adeguato nel mondo del lavoro. Alle ragazze è invece fornito un supporto più generico, soprattutto nelle classi meno elevate, in quanto si dà per scontato che sarà il matrimonio a definire in termini precisi il loro ruolo sociale. Nello stesso tempo, però, l'ambiente in cui le ragazze vivono le sollecita a realizzarsi in ruoli sociali e professionali di prestigio. In questo modo l'esperienza conflittuale della adolescente è assai più rilevante e impegnativa di quella del coetaneo maschio (v. Douvan, 1979). Altri autori, e soprattutto Conger (v., 1977²), ritengono invece più problematico l'inserimento sociale del maschio: nella nostra società, infatti, resta molto rigido lo stereotipo maschile del successo, per cui chi non ha risultati professionali significativi è considerato fallito, mentre le aspettative sociali nei confronti delle adolescenti sono molteplici e, in un certo senso, sostitutive l'una dell'altra. Ogni ragazza potrà perciò, pur fra le pressioni sociali contraddittorie cui è sottoposta, definire il progetto di sviluppo che ritiene per sé più gratificante, con una possibilità di scelta che non è permessa all'adolescente maschio.In realtà, nessuna delle due posizioni esclude l'altra: sarebbe importante, perciò, ricostruire con maggior precisione i principali percorsi femminili e maschili per l'inserimento nella vita adulta. Quanto ai compiti di sviluppo, è facile riconoscere che essi si configurano in modo diverso per ragazze e ragazzi, a parità di tutte le altre condizioni che concorrono a definirli. Al di là di alcune intuizioni essenziali, tuttavia, i processi attraverso cui tale differenza si concretizza devono ancora essere ricostruiti.
Che rapporto esiste fra soluzione dei compiti di sviluppo e costruzione dell'identità intesa, seguendo Erikson (v., 1950 e 1968), come culmine del processo adolescenziale?Il modello di Erikson è stato assunto, in un'epoca di successo accademico della sociologia strutturalfunzionalista, come esplicativo della socializzazione riuscita o meno dell'adolescente, essendo l'integrazione sociale considerata l'indice dell'acquisita identità. Anche se alcuni scritti di Erikson sembrano confermare una tale interpretazione, dalla lettura dei suoi lavori fondamentali emerge che l'acquisizione dell'identità è intesa come individuazione di sé e autoriconoscimento in rapporto a una rappresentazione ampia ed elaborata del mondo fisico e sociale. L'attenta considerazione dell'opera di Erikson, però, mostra anche che egli non chiarisce mai a fondo come si inneschi e si svolga il processo di costruzione dell'identità tramite l'impegno attivo del soggetto nel contesto sociale in cui si trova inserito (v. Palmonari e altri, 1984, pp. 114-116).Indicazioni importanti e utili per affrontare in modo articolato questo problema concettuale si trovano nelle già citate opere di M. e C.W. Sherif sull'evoluzione del sistema del Sé nella fase adolescenziale (v. anche Sherif, 1984).Nell'impostazione di questo articolo noi abbiamo applicato la lezione degli Sherif: ci sono alcuni fenomeni universali che caratterizzano l'età adolescenziale; questi fenomeni pongono al soggetto che li vive problemi diversi a seconda della sua posizione sociale, delle norme culturali sulla cui base deve affrontarli, dei supporti e degli ostacoli che gli sono forniti dagli adulti (familiari e non familiari) e dai coetanei, delle sue esperienze precedenti. Un problema che il soggetto deve comunque affrontare è quello di ridefinire una propria identità di fronte ai cambiamenti fisici, affettivi e psicologici che sperimenta in sé. Quest'ultimo è esattamente il punto messo a fuoco da Erikson.
Assumendo questa prospettiva si può parlare di 'costruzione dell'identità' sia per sottolineare l'impegno globale, e non solo cognitivo, del soggetto nei confronti di tale problema, sia per ricordare che la soluzione di ogni compito di sviluppo costituisce un tassello di un'operazione complessa e prolungata qual è la ri-definizione della propria identità da parte del soggetto. L'adolescente compie il cammino verso la ridefinizione della propria identità attraverso un progressivo inserimento nel contesto sociale. Potrà sembrare paradossale, ma questo progressivo inserimento nella società avviene mediante un accentuato processo di differenziazione. Attraverso il proprio rapporto con i gruppi di appartenenza e con i gruppi di riferimento l'adolescente chiarisce, oltre a quello che è e che vuole essere, anche quello che non è e che non vuole diventare, nonché i motivi dell'accettazione di certi modelli e del rifiuto di altri. La costruzione dell'identità, cioè, passa anche attraverso un processo attivo di differenziazione da modelli di sé che si percepiscono realizzabili ma non si accettano, e di ricerca di una posizione appropriata del Sé rispetto agli oggetti sociali significativi (persone, gruppi, istituzioni, elementi naturali e moduli cognitivi) che compongono il proprio campo cognitivo. È importante aver chiaro che alla base di questi processi cognitivi ci sono esperienze sociali precise, rese possibili da complessi giochi di appartenenza e di adesione ai vari gruppi (v. Palmonari e Carugati, 1988).
Si può anzi affermare, anche se in modo provvisorio per la mancanza di una precisa linea di ricerca in merito, che la socializzazione dell'adolescente si differenzia dalla socializzazione del bambino perché, mentre il bambino aderisce ai vari gruppi naturali a cui appartiene senza porsi il problema di gruppi di riferimento 'altri' da quelli in cui si trova di fatto (e ciò vale per la famiglia come per i gruppi di coetanei), l'adolescente mette in discussione la propria appartenenza a una certa famiglia, aderisce a gruppi di coetanei di propria iniziativa, ed è sempre pronto ad assumere punti di riferimento esterni a tali gruppi. Non succede soltanto, come diceva Lewin (v., 1939), che l'adolescente si trova in un campo cognitivo poco chiaro perché è passato dall'appartenenza al gruppo dei bambini all'appartenenza al gruppo degli adulti: sembra piuttosto che l'adolescente abbia l'esigenza di mettere in discussione la propria appartenenza ai gruppi in cui è inserito per trovare nuovi punti di riferimento in base ai quali organizzare il proprio comportamento sociale. La scarsa chiarezza del suo campo cognitivo dipende da diversi fattori: egli ragiona non solo sulla base di quanto è reale, ma anche di quanto spera o desidera; accanto al gruppo cui appartiene compaiono nuovi e non previsti gruppi di riferimento che lo spingono a mettere in discussione scelte che riteneva definitive. La complessità della realtà sociale si dimostra sempre molto più grande di quanto egli abbia preventivato.
È appunto la complessità di questa esperienza che stimola sempre di nuovo l'adolescente a costruirsi un quadro chiaro e relativamente semplice della realtà: per far questo egli ordina in categorie quanto è complesso, enfatizza la presenza di gruppi diversi e il fatto che appartenere a un gruppo significa escludere di appartenere a un altro, e definisce se stesso in base a questa appartenenza a un gruppo e differenziazione da un altro. In questo modo egli assume un criterio in base a cui definisce una propria identità provvisoria e confronta ogni realtà con le proprie provvisorie certezze. I fatti, la dialettica fra gruppi di appartenenza e gruppi di riferimento, possono fornire nuovi criteri per ordinare in categorie la realtà: in tal modo l'adolescente precisa la propria identità e verifica ancora una volta quanto la sua consistenza personale sia in rapporto con gli eventi esterni.A tutto ciò si deve aggiungere che l'adolescente 'sogna' un mondo diverso e trae da questi sogni delle forze per agire, in un modo o in un altro, nel presente. Dipenderà dalla concreta esperienza di gruppo e dall'immagine di sé che ne trae, se egli penserà che tali mondi si realizzino soltanto 'per caso' o 'per fortuna', oppure attraverso il proprio impegno sociale coordinato con l'impegno degli altri.Nel corso di questo processo di ricerca dell'identità l'adolescente è particolarmente vulnerabile dal punto di vista psicologico. Di fronte a pressioni provenienti dal mondo sociale più o meno vasto (dalla famiglia, dalla scuola, dal lavoro), che lo vorrebbero spingere verso obiettivi che, almeno in quel momento, egli non capisce o non condivide, egli può assumere un atteggiamento difensivo di chiusura e comportamenti negativisti e contraddittori a oltranza, sino a giungere, come dice Canestrari (v., 1984), a idealizzare ciò che i genitori e la società disapprovano. Di fronte a definizioni sociali che pretendono di descrivere un suo comportamento l'adolescente può rispondere con l'assunzione rigida dell'identità che tale definizione sottende. È anche questo un meccanismo di difesa che, soprattutto in momenti di forti tensioni ideologiche, può provocare delle fissazioni definitive su posizioni assunte, in un primo momento, in modo puramente reattivo e comunque senza alcun reale contenuto ideologico. In questo senso può essere pericoloso inserire un adolescente che ha compiuto alcuni atti dissociali in un procedimento che lo etichetti come deviante o, peggio, delinquente: questa etichetta potrebbe essere assunta dal soggetto come base per ridefinire la propria identità.
Di fronte a insuccessi ripetuti dei suoi sforzi per raggiungere gli obiettivi perseguiti, l'adolescente può perdere ogni fiducia in sé e nelle possibilità di realizzare qualsiasi ideale. A una tale frustrazione può reagire, al limite, perdendo la speranza di poter incidere sulla realtà, con la conformistica adesione all'esistente e con la ripulsa di ogni progetto di rinnovamento della realtà.Il rapporto tra la soluzione dei compiti di sviluppo e la costruzione dell'identità non deve far pensare che dopo la fase adolescenziale il soggetto resti sempre simile a se stesso, privo di incertezze e di mutamenti. Superata l'adolescenza, l'individuo non fluttua in un vuoto sociale in cui non accade più nulla, ma si trova inserito, anche se in modo diverso da prima, in un sistema sociale al cui funzionamento - secondo modalità poste su un continuum logico che ha a un estremo la creatività e all'estremo opposto la pura esecutività - deve collaborare. Questa situazione, contrassegnata da molteplici ruoli, da frequenti conflitti, da cicli istituzionali a volte rigidi a volte vaghi, pone di fronte a ogni individuo compiti nuovi e compiti già sperimentati, in rapporto ai quali, inserito nel proprio contesto culturale e sociale, egli continua a impegnarsi per dare un significato alle proprie azioni e per ritrovare il senso del proprio esistere.(V. anche Cicli e percorsi di vita; Giovani; Infanzia).
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