CASTELLESI, Adriano (Adriano da Corneto)
Nacque a Corneto (od. Tarquinia) intorno al 1461 se, come pare, nel sett. 1503, al conclave che elesse Pio III aveva 42 anni (Sanuto, V, col. 103). Incerte le origini della famiglia che sembrerebbe aver avuto parte nella vita pubblica della cittadina; oscuro anche il curriculum studiorum dei Castellesi. L'iscrizione nel Liber Fraternitatis di Santo Spirito in Sassia sotto la data 2 marzo 1480 è la prima testimonianza nota della sua presenza a Roma, dove stringe legami di amicizia con i volterrani Raffaele Maffei e Iacopo Gherardi e dove trova una prima sistemazione come membro del Collegio dei sollecitatori delle lettere apostoliche.
Durante un soggiorno a Volterra il C. avrebbe conosciuto una certa Brigida di Bartolomeo, probabilmente della famiglia Inghirami, e nel 1485 il Gherardi intavolò trattative per la dote, che si conclusero con Il matrimonio, contratto in data imprecisabile. Poco tempo dopo, il desiderio di avanzamento nella gerarchia ecclesiastica, cui il matrimonio costituiva certamente un ostacolo, lo spinse a chiederne lo scioglimento al pontefice. Con breve del 4 apr. 1489 a Francesco Soderini, vescovo di Volterra, Innocenzo VIII, tenendo conto delle istanze di Enrico VII d'Inghilterra e di presunti impedimenti di salute del C., dichiarò sciolto, in quanto rato e non consumato, il matrimonio regolarmente contratto, affinché il C. potesse accedere agli ordini sacri ed ai benefici e dignità ecclesiastiche. Dal breve risulta che egli aveva contratto il matrimonio da chierico e che all'atto dello scioglimento era scudierre e familiare del papa, notaio della Camera apostolica e "commensale continuo".
Nel 1488, in seguito all'appello rivolto ad Innocenzo VIII da Giacomo III, che era stato spodestato e sostituito dal figlio minorenne, il C. venne inviato in Scozia nel tentativo di riportare la pace in quel Regno scosso dalla guerra civile. Giunto a Londra, Enrico VII lo persuase a non proseguire il viaggio in attesa degli sviluppi della crisi scozzese: l'uccisione, l'11 giugno 1488, di Giacomo costrinse il C. a fare ritorno a Roma. Il 25 maggio 1489 rinunciò all'ufficio di notaio della Camera apostolica ed entrò a fare parte della famiglia del cardinale Balue. Nel 1490 Innocenzo VIII lo nominò successore di Giovanni Gigli nella collettoria della S. Sede in Inghilterra, dove lo troviamo fin dal 5 dicembre e dove il suo talento letterario gli procurò la benevolenza del sovrano che, il 29 giugno 1492, gli concesse la naturalizzazione, grazie alla quale poté accedere ai benefici ecclesiastici inglesi. In una bolla del 4 ott. 1494 risulta canonico della Chiesa di Londra e officialis di Canterbury.
Alessandro VI, succeduto ad Innocenzo VIII, confermò il 5 giugno 1493 il C. nel suo ufficio di collettore e lo designò nunzio in Inghilterra con la facoltà di correggere e riformare il clero secolare e regolare. Nell'estate del 1494 è a Roma con funzione di procuratore di Enrico VII.
D'ora innanzi la corsa del C. al cardinalato, grazie anche al favore del Borgia, non sembra conoscere ostacoli: il 2 dic. 1494 il"clericus cometanus, cubicularius et scriptor litterarum apostolicarum" fu nominato chierico di Camera (H. Ferri, p. 8dei Monumenta); il 31 luglio 1496a S. Maria del Popolo, presente il Pontefice, pronunciò un'omelia in cui celebrò l'ingresso del re d'Inghilterra nella lega conclusa fra Alessandro VI, Massimiliano, i reali di Spagna, Venezia e Milano; il 1° genn. 1497 venne elencato fra i sette chierici di Camera; il 14 ottobre dello stesso anno il papa lo "recepit in secretarium suum secretum... et ei rochetum imposuit insigne prothonotariatus", ma, come osserva il Burchard (II, p. 410), "fuit enim id post tantam supplicationein". Nel marzo del 1498 offrì 20.000 ducati ad Alessandro VI per ottenere la porpora, ma inutilmente.
Il 4 giugno 1498 il C. fu inviato in Francia per presentare a Luigi XII le condoglianze per la morte del suo predecessore, congratularsi per la sua assunzione al trono ed esortarlo, inoltre, a impegnarsi nella guerra contro il Turco, a desistere dalle rivendicazioni sul ducato di Milano ", a restituire Pisa a Firenze e a non assoldare feudatari pontifici. L'abboccamento con il re avvenne il 21 luglio a Parigi e il 24 il C. era già sulla via del ritorno. Il 10 febbr. 1500 fu incaricato da Enrico VII di trattare insieme all'oratore inglese a Roma, Silvestro Gigli, l'aiuto per la guerra contro i Turchi. Il 27 sett. 1500 fu nominato tesoriere generale; il 14 febbraio del 1502 egli ricevette il vescovado di Hereford in Inghilterra, dove continuò a mantenere la carica di collettore, avendo nominato, però, nel 1501, sottocollettore Polidoro Vergilio, che fungerà anche da suo agente alla corte fino al 1512. Dal 17 febbr. all'11 marzo 1502 accompagnò Alessandro VI a Piombino. Nel 1502 favorì i tentativi del papa di staccare Venezia dall'alleanza con i Francesi, sicché l'oratore Marino Zorzi il 20 marzo scrisse alla Signoria: "Oggi messer Adriano, segretario pontificio, il quale, ancorché duro e sinistro uomo, pure dimostra esser molto favorito dal pontefice, mi è stato intorno ed hammi per spazio di forse due ore rotto il capo "sull'opportùnità di spezzare l'alleanza franco-veneta (Cessi, p. VIII). Il 3 genn. 1503 partecipò all'arresto del card. Battista Orsini nel palazzo apostolico in concomitanza con l'uccisione a Senigallia di Vitellozzo Vitelli, Paolo Orsini, Oliverotto da Fermo, rivelandosi addentro ai più segreti maneggi dei Borgia, sì da fare osservare a Raffaele Maffei che, più che segretario del papa, egli era rerum omnium vicarius (Commentariorum rerum urbanorum libri XXXVIII, Romae 1506, lib. XXII, p. CCCXVIII). Il 31 maggio 1503 fu creato cardinale con il titolo di S. Crisogono: è assai probabile che egli pagasse la porpora.
Poco tempo dopo, il 6 ag. 1503, ebbe luogo il famoso banchetto nella vigna del C. in seguito al quale lo stesso cardinale e Cesare Borgia si ammalarono e il pontefice morì, la sera del 18. Le leggenda parlò di veleno che i Borgia, avidi delle immense ricchezze del C., volevano propinargli e che per un fatale errore, o per l'astuzia dello stesso cardinale venuto a conoscenza del progetto dei papa, sarebbe stato servito anche a loro. Gli storici contemporanei accolsero la versione dell'avvelenamento, mentre oggi si è propensi a credere che la causa fosse probabilmente da ravvisare nella malaria allora diffusa a Roma.
Nel conclave che seguì la morte del Borgia, il C., oppositore della candidatura del d'Amboise, fu fautore dell'elezione del Todeschini-Piccolomini (Pio III). Anche nel conclave successivo, in cui fu incaricato con altri della revisione dei capitoli, si schierò dalla parte dei cardinali spagnoli e favorì l'elezione di Giulio II. Da una sua lettera di questo periodo (4 genn. 1504) a Enrico VII si desume che egli curava gli interessi del sovrano inglèse a Roma, sostituendosi al rappresentante ufficiale Gigli, nell'interessarsi, ad es., di ottenere la dispensa per il matrimonio del futuro Enrico VIII con Caterina d'Aragona. Il 2 ag. 1504 fu trasferito dal vescovado di Hereford a quello più pingue di Bath e Wells. Durante il pontificato del Della Rovere sembra relegato nell'ombra: lo troviamo soltanto nel seguito del pontefice quando questi, il 26 ag. 1506, iniziò la marcia contro Bologna per sottrarla alla signoria dei Bentivoglio.
Il C. ricorderà l'itinerario di questo viaggio e gli avvenimenti più notevoli in un poemetto latino, Iter Iulii Pontificis, e dalle discussioni con i dotti bolognesi nacquero il De vera philosophia, dato alle stampe in quella città nel 1507, e l'idea, se non la stessa stesura, del De sermone latino, che apparirà soltanto alcuni anni dopo.
Il 1° sett. del 1507 il C. fuggì improvvisamente da Roma: sarà questa la prima di una serie di fughe che faranno degli ultimi anni della sua vita una costante, talvolta inspiegabile, avventura.
Motivo della fuga pare fosse il timore delle reazioni di Giulio II, venuto a conoscenza di critiche rivolte a lui ed al Sacro Collegio nelle lettere del C. che Enrico VII, loro destinatario, aveva inviato in visione al pontefice. Rifugiatosi a Spoleto ed ottenutovi il perdono del papa, il 10 settembre ritornò a Roma, giudicato da tutti "simplicissimum, fatuissimum, levissimumque" (H. Ferri, p. 26 dei Monumenta). Ma il 7 ottobre si dette di nuovo alla fuga e, questa volta, "il papa li à mandato driedo, et tien sij impazito, e lo farà retenir per honor dil cardinalato" (Sanuto, VII, col. 161). Giunto a Trani, allora sotto la dominazione veneziana, dichiarò al governatore di aver abbandonato Roma "per fuzer l'ira di papa Julio" (ibid., col. 170), e chiese un salvacondotto per Venezia. Tuttavia, non è chiaro se per sua decisione o perché il salvacondotto gli venne rifiutato, a Trani rimase fino alla primavera del 1509, quando, non sentendosi più al sicuro per l'ingresso di Giulio Il nella lega di Cambrai, s'imbarcò per Lesina, da dove il 13 aprile scrisse alla Signoria chiedendo di poter vivere a Venezia. Nel mutato clima politico il salvacondotto gli venne prontamente concesso ed il 23 aprile il C. giunse a Venezia accolto con ogni onore dallo stesso doge.
Stabilitosi a Padova, con l'intenzione, però, di recarsi quanto prima alla corte dei sovrano inglese, con il quale aveva ripreso i suoi buoni rapporti, dopo la rotta di Agnadello, il C. tornò a Venezia dove visse nascosto, seppure con il consenso della Signoria, per un breve periodo. Negli anni che precedettero la morte di Giulio II si divise tra Riva di Trento e la corte di Massimiliano d'Austria, che prese a proteggerlo: il 18 ag. 1510 si avvertì, infatti, la Signoria da Roma che il "cardinal Adriano è a presso lo Imperatore et à autorità con lui, poria far bene assai per la Signoria" (Sanuto, XI, col. 199). Sembra in effetti che egli abbia avuto parte nelle trattative di pace fra Venezia e l'imperatore.
Frattanto la crescente opposizione del Sacro Collegio a Giulio II si concretò nella convocazione del "conciliabolo" di Pisa e fra i cardinali ribelli del documento affisso il 28 maggio 1511 nella chiesa di S. Francesco a Rimini apparve anche il nome del C., ma egli protestò contro l'abuso fatto del suo nome e dichiarò che non intendeva affatto partecipare al concilio antipapale. Quando, nel settembre del 1511, si diffuse la voce infondata della morte di Giulio II, Massimiliano sollecitò la partenza del C. per Roma, non è chiaro se con l'intesa che il cardinale appoggiasse il fantasioso progetto dell'imperatore di farsi eleggere pontefice o più semplicemente quale candidato imperiale alla tiara.
Il 21 febbr. 1513 morì Giulio II e qualche giorno dopo il C., sulla via di Roma inviò Valerio Valaresso alla Signoria per ringraziare delle accoglienze fattegli nel passaggio sui suoi territori.
Il messo dichiarò che il cardinale era stato due mesi in affitto in casa sua a Padova "dicendo essere un povero scolaro... et non si dava a cognoscer; perché caxon non si sa. Tamen, ditto cardinal dava fama esser in Alemagna e di questo suo star a Padoa la Signoria nostra non à saputo nulla" (Sanuto, XVI, col. 9).
Il C. entrò in conclave il 4 marzo: schieratosi dalla parte degli Spagnoli, candidato imperiale, egli dapprima ostacolò l'elezione del cardinale de' Medici, ma quando sembrò che il "roveresco" Riario avesse possibilità di essere eletto, appoggiò il fiorentino. Nei primi anni del pontificato di Leone X, il C., pur non occupandoposti di rilievo, ottenne qualche incarico: nell'aprile del 1513 insieme ad altri cinque cardinali venne incaricato di portare avanti le trattative con il duca di Ferrara, giunto a Roma, per la composizione delle vertenze con la Sede Apostolica; nel giuano dello stesso anno, nel quadro dei lavori dei concilio lateranense, venne designato a fare parte della deputazione "pro rebus pacis universalis componendae inter principes christianos et pro extirpatione scismatis"; nel gennaio del 1514 accompagnò Leone X a Corneto, dove venne estratto miracolosamente vivo dalla casa crollata in cui aveva preso alloggio. Riuscì, inoltre, a riottenere la collettoria d'Inghilterra, procurandosi le invidie del Wolsey, dell'arcivescovo di York, Bainbridge e del Gigli, che, in sua assenza, avevano curato gli interessi inglesi in Curia.
Istigato da Silvestro Gigli, vescovo di Winchester, Enrico VIII mirava a conferire l'ufficio di collettore ad Andrea Ammonio, suo segretario per le lettere latine, il quale per ottenere l'estromissione di Polidoro Vergilio, che era sottocollettore, e la rinuncia o la privazione del C., fece intercettare tutta la corrispondenza del Vergilio col C. ed avvertì il Wolsey dei maneggi orditi dal cardinale contro l'Inghilterra. Nonostante gli interventi in favore del cardinale di Leone X e del Sacro Collegio, la collettoria venne conferita il 31 ottobre del 1514 ad Andrea Ammonio e Polidoro Vergilio venne incarcerato. Dietro tutta questa vicenda - il Bainbridge morì in quei giorni a Roma in circostanze misteriose e Silvestro Gigli venne accusato di averlo ucciso; l'arcivescovado di York fu conferito al Wolsey il 14 sett. 1514 sembra si celasse il desiderio del Wolsey di mercanteggiare la liberazione del Vergilio con la porpora cardinalizia. Solo nel marzo del 1515 si giunse ad una composizione: in cambio della liberazione del Vergilio, che avverrà sul principio del 1516, il C. nominò, a suo beneplacito, l'Ammonio collettore con l'obbligo di rendere ragione a lui delle riscossioni.
Alla fine del 1515, pur opponendosi, in quanto imperiale - "par si aderissa a le voglie di l'Imperador, e fa le sue facende", dirà il 17 marzo 1517 Marin Zorzi nella sua relazione al Senato (Sanuto, XXIV, col. 94) -, al progetto di alleanza con i Francesi, il C. accompagnò a Bologna il pontefice che doveva incontrarsi con Francesco I. Nel concistoro del 20 apr. 1517 fu chiamato a fare parte della commissione cardinalizia che doveva occuparsi del problema turco e delle legazioni da inviare a tale scopo ai principi cristiani.
Nel maggio del 1517 il C. - si disse anche spinto dalla predizione di una fattucchiera che a Leone X morto giovane sarebbe succeduto sulla cattedra di Pietro un vecchio di nascita oscura chiamato Adriano - si lasciò irretire nella congiura capeggiata da Alfonso Petrucci contro il pontefice.
Scoperto il complotto, Alfonso Petrucci ed i suoi complici, i cardinali Raffaele Riario e Bendinello Sauli, furono processati ed il processo mise in luce la complicità del C. e del Soderini, i quali, informati dal Petrucci del progetto, "se la riseno, come è solito far Adriano" (ibid., col. 419). Dal processo emerse, inoltre, che il C. era nemico acerrimo del pontefice e si era messo d'accordo col Petrucci ed i suoi complici sulla scelta del successore. Nel concistoro dell'8 giugno 1517 Leone X ordinò la carcerazione del Riario e del Sauli, mentre chiese al Soderini e al C. di confessare pubblicamente le loro colpe, se volevano che nei loro confronti venisse usata clemenza. Sul principio essi negarono, ma di fronte alle prove addotte dai tre cardinali cui era affidata l'inchiesta riconobbero la loro colpevolezza ed implorarono la clemenza del pontefice. Venne loro permesso di rientrare nelle loro case, con l'ingiunzione di non uscire da Roma e di pagare un'ammenda di 12.500 scudi ciascuno.
Pur avendo pagato la somma impostagli, in parte vendendo i suoi argenti, ed avendo avuto i brevi di assoluzione, timoroso di rappresaglie da parte di Leone X, il quale avrebbe in un secondo tempo raddoppiato l'ammontare dell'ammenda, il C. il 20 giugno abbandonò, per la terza volta, Roma e si rifugiò a Tivoli, da dove, non sentendosi al sicuro, attraverso l'Abruzzo e toccando Zara, il 6 luglio raggiunse Venezia. Presentandosi al doge e al Consiglio dei dieci, il 7 luglio ottenne il salvacondotto e si stabilì nella città lagunare in casa del vescovo di Pafo, Giacomo Pesaro, sebbene anche questa volta esprimesse l'intenzione di passare in Inghilterra "dove è ben voluto et ha la sua intrada" (Sanuto, XXIV, col. 458). Intanto, prima ancora che venisse pronunciata una sentenza contro di lui, Enrico VIII lo privò del vescovado di Bath e Wells per darlo al Wolsey.
Non valsero a nulla gli interventi dell'imperatore e del re di Francia su Leone X a favore del C., né i colloqui avuti dall'oratore veneziano in Inghilterra con Enrico VIII, irremovibile, e con il Wolsey "il qual li à parlà con colora, alterandosi molto, dicendo la Signoria favoria rebelli di la Chiesia" (ibid., col. 644) e si rifiutò categoricamente di restituire il pingue vescovado. Non contento di aver sospeso la corresponsione delle rendite inglesi al C., Enrico VIII nell'agosto 1517 dava ordine al suo oratore a Roma di prendere possesso del palazzo che il cardinale faceva costruire in Borgo e che nel 1505 aveva donato al sovrano inglese. Il papa dal canto suo sisternava nella casa del C. in Agone il governatore di Roma (settembre 1517).
Leone X, irritato dalle lettere che il C., da Venezia, scriveva a Enrico VIII contro di lui, gli fece sapere che, se avesse ritrattato in nuove lettere al sovrano inglese le accuse formulate contro di lui, gli avrebbe usato clemenza. La promessa fatta dal C. di obbedire a quanto gli veniva chiesto dal pontefice non fu mantenuta e la sua posizione venne aggravandosi sempre più, anche per le pressioni del Wolsey sul pontefice. Fu quindi preparato un monitorio che lo citava entro quaranta giorni a Roma e, dopo non poche esitazioni da parte del pontefice, il 19 dicembre 1517 fu pubblicato "in valvis ecclesiae".
In esso lo si accusava di complicità nella congiura ordita dal Petrucci si ricordava la misericordia usatagli dal pontefice, si accennava alla sua fuga da Roma ed alle calunnie da lui diffuse contro il papa, e lo si citava a comparire a Roma a rendere conto dei delitti di eresia, scisma e lesa maestà, sotto pena di incorrere nella privazione del cardinalato e di ogni altra dignità, ufficio e beneficio. Gli veniva, inoltre, concesso ampio salvacondotto per recarsi a Roma, trattenervisi e ripartire dopo la sentenza, garantendogli ogni protezione. Uintervento dell'oratore cesareo, Alberto Pio da Carpi, in difesa del C. lasciava sperare, nel gennaio, che le cose "si acconceranno" (Sanuto, XXV, col. 224). ma il papa, sottoposto alle pressioni inglesi, voleva che il C. rinunciasse al vescovado di Bath e Wells per darlo al Wolsey. Allo scadere dei quaranta giorni il C. non comparve a Roma ed il 10 apr. 1518 il procuratore fiscale Mario de' Peruschi chiese al papa che fosse pubblicata una nuova citazione contro il C. resosi contumace. Il 10 maggio in concistoro fu deciso di mandargli un breve in cui gli si garantiva ogni protezione. Il cardinale Orsini, suo grande amico, gli offriva uno dei suoi castelli, a sua scelta, e gli mandava lo Spagna, fidatissimo maestro di casa del C., con il breve papale ed una sua lettera. Ricevuto il breve, il C. "fece pensier di partirsi e andar a Roma" (Sanuto, XXV, col. 400), ma quando fu sul punto di partire, avendo appreso da altre lettere venute da Roma che il papa voleva averlo nelle mani e privarlo del cardinalato, mutò parere e fece credere di aver abbandonato Venezia per un luogo segreto. Il papa si sarebbe giustificato dichiarando che intendeva con quella minaccia soltanto accelerarne la venuta, ed inviando nuovamente lo Spagna con un breve sottoscritto di suo pugno in cui gli garantiva "che non li farà despiacere" (Pastor, IV, parte 2, p. 653). Al breve vennero unite lettere del cardinal de' Medici e di tutti gli ambasciatori a Roma, che gli assicuravano sulla loro fede che non gli sarebbe stato fatto alcun male. In realtà, le cose stavano diversamente, come scrive Ercole de Corte al marchese di Mantova, da Roma il 27 maggio 1518: nonostante tutte le garanzie, il pontefice voleva a tutti i costi avere il cardinale nelle mani "per esser lui homo teribile, come hè, lo papa dubita, stando in Venetia non tramase qualche cosa in dano suo et non andase in le tere de Colonesi dal card.le Voltera grandissimo inimico del papa e faceseno qualche novo tratato" (ibid.).
Il timore di nuove congiure, la vendetta del Wolsey, che, di fronte al tergiversare del pontefice, vietò al cardinale Lorenzo Campeggi, legato papale a latere, l'accesso al Regno d'Inghilterra, il rifiuto del C. di presentarsi a Roma segnarono la sua condanna: il 5 luglio 1518 fu emessa la sentenza che lo privava del cardinalato, di tutti i suoi benefici'e di ogni grado e onore ecclesiastico.
Quello stesso giorno il cardinale Giulio de' Medici comunicava la notizia a Enrico VIII, giustificandosi del ritardo con cui era stata pronunciata la sentenza contro il C. col dichiarare che la cosa andava seriamente ponderata. Dopo tre mesi di sosta a Calais e dopo che anche il Wolsey fu nominato legato a latere ed ebbe ottenuto la conferma del possesso della diocesi di Bath e Wells, Lorenzo Campeggi riceveva l'autorizzazione ad entrare nel Regno d'Inghilterra. La causa del C. era stata sacrificata al progetto papale di un'alleanza dei principi cristiani contro il Turco, nella quale egli sperava di fare entrare il riluttante sovrano inglese, il quale considerava la minaccia turca alquanto remota. In esecuzione della sentenza Leone procedette alla confisca dei beni del C. e fece mettere all'asta dalla Camera apostolica la sua abitazione in Parione presso le case di Mario Millini e di Gian Battista ab Ecclesia. La comperò Lorenzo Cybo, figlio della sorella dello stesso pontefice, per 5.100 ducati d'oro. Leone X donò al conte Annibale Rangoni, capitano della guardia pontificia, la vigna che il cardinale possedeva presso il Belvedere e a Belisario Pini l'area della Meta. Sul C. corsero le voci più inverosimili: si disse persino che si era rifugiato presso il Turco. Leone X non perse la speranza di riaverlo e lo invitò a tornare nello Stato pontificio, promettendogli clemenza, ma egli, dubitando di potervi vivere sicuro, chiese al pontefice di poter continuare a soggiornare a Venezia, ciò che gli venne riflutato. Egli, quindi, continuò a vivere sulla laguna "secretissimo... si dicea in caxa dil vescovo di Baffo Pexaro... ma niun lo visitava, studiava et componeva" (Sanuto, XXXII, Coll. 205-06).
Il C. accolse con giubilo la notizia della morte di Leone X, il 1° dic. 1521, e si mise immediatamente in cammino verso Roma, "però più di lui non si seppe alcuna cosa; si giudica fosse ammazzato in strada" (ibid.). Secondo il Valeriano sarebbe stato ammazzato dal suo servo, che s'impadronì dell'oro che portava con sé e si sbarazzò del cadavere. Prima di morire, Leone X lo avrebbe perdonato.
La fama del C. non è legata soltanto alla vita inquieta ed avventurosa, di cui si impadronì la leggenda, ma anchealle sue qualità di letterato e di filosofo, ed al palazzo che, grazie alle sue immense ricchezze, poté farsi costruire sulla via Alessandrina, aperta dal papa Borgia nel quartiere di Borgo.
Il disegno del palazzo (oggi Giraud-Torlonia) fu attribuito dal Vasari al Bramante. La critica ha però dimostrato che il progetto bramantesco, concepito fra il 1499 e il 1503 C... non fu eseguito se non parzialmente, ed ha circoscritto l'intervento dell'architetto all'impianto iniziale ed alla realizzazione dello zoccolo modanato basamentale con le finestre dello scantinato; del bugnato della parte basamentale sinistra con scanalature orizzontali e verticali; del pianterreno del cortile, le cui facciate sono state costruite secondo un unitario progetto verosimilmente bramantesco. La costruzione del palazzo procedette a rilento, risentendo delle vicende del committente. Pur avendo donato il 7 marzo 1505 "aedes et aedificia nonduni perfecta" ad Enrico VII d'Inghilterra, come sede degli ambasciatori inglesi a Roma e per eventuali permanenze dei sovrani inglesi, il C. non riuscì a vedere il suo palazzo compiuto prima della sua ultima fuga da Roma, nel 1517.
Se la fama delle opere scritte dal C. fu inferiore a quella di cui godette il loro autore ai suoi tempi, le numerose edizioni cinquecentesche di alcune di esse testimoniano una certa diffusione dovuta soprattutto alla grazia ed alla semplicità del suo stile latino. Nel poemetto latino Venatio, in versi faleci, dedicato al cardinale Ascanio Sforza, cantò una battuta di caccia alle Acque Albule guidata dal cardinale. L'opera fu stampata a Venezia nel settembre del 1505 da Aldo Manuzio, ma risale molto probabilmente al 1503 quando il cardinale Sforza era rientrato in Italia, dopo la prigionia in Francia. In versi esametri, è il poemetto latino, Iter Iulii Pontificis, che descrive con molto estro l'itinerario percorso dal pontefice da Roma a Bologna nel 1506 ed il suo ingresso nella cattedrale l'11 novembre.
Al soggiorno bolognese risale anche quella che può essere considerata l'opera più interessante del C., pur se, ai suoi tempi, trovò scarsa eco: il De vera philosophia ex quattuor doctoribus ecclesiae, apparso per la prima volta nel 1507 a Bologna per i tipi di I. A. de Benedictis, dedicato a Enrico VII d'Inghilterra. L'opera è una raccolta di brani tratti dalle opere dei quattro dottori della chiesa, Girolamo, Ambrogio, Agostino e Gregorio e dalla Sacra Scrittura. Il pensiero originale dell'autore si rivela solo nei titoli che collegano gli ottanta capitoli dell'opera divisa in quattro libri. Essi riflettono "una mentalità chiaramente avversa alla filosofia umanistica, come siamo avvezzi a pensarla, ficiniana, o, se si vuole, richiamantesi a Platone, ad Aristotele ritradotto e restituito nell'originale, o anche a Cicerone e agli stoici; e avversa anche allo spirito critico di un Valla" ed "una esplicita tendenza al fideismo e insieme al ritorno alla Scrittura" (Cantimori, p. 8). Anche se l'importanza dell'operetta non va sopravvalutata - come ha fatto l'Imbart de la Tour (p. 567), che ha voluto ravvisarvi una forte carica polemica contro il Ficino - in quanto non lasciò che deboli tracce nel pensiero contemporaneo, i motivi di scetticismo sulle capacità umane di spiegare le verità cristiane e l'indifferenza per le discussioni dottrinali e per la teologia presenti nel De vera philosophia e successivamente in G. F. Pico della Mirandola, troveranno "la loro esplicazione manifesta e portata all'estremo nel pensiero degli eretici italiani" (Cantimori, p. 7). Il richiamo alla Scrittura acquista, inoltre, maggiore rilevanza nell'ambito della diffusione in Italia della nuova tendenza erasmiana alla luce di una lettera scritta agli inizi del 1516 dal C. a Raffaele Maffei, in cui gli comunicava di aver iniziato la traduzione dall'ebraico dei primi due libri della Bibbia precisando che fin dai tempi di Innocenzo VIII egli aveva atteso allo studio della lingua ebraica. Purtroppo di questa traduzione non è rimasta traccia, ma dalla sua amicizia per Egidio da Viterbo e dalla dedica a lui dell'opera di Reuchlin, De accentibus et ortographia linguae hebraicae, apparsa nel 1518, sembra potersi dedurre che egli aveva raggiunto un certo livello di conoscenza della lingua o che quanto meno i suoi interessi fossero noti ed apprezzati nel mondo degli ebraisti.
Il C. fu anche autore di scritti stilistici: e grammaticali. Il De sermone latino, dedicato al cardinale Domenico Grimani, nacque dalle discussioni avute con i dotti bolognesi durante il soggiorno in quella città al seguito di Giulio II (1506).
Composta con ogni probabilità nel 1507, l'opera non fu stampata prima della fine del 1514 o degli inizi del 1515, pei tipi di M. Silber di Roma. La seconda edizione, apparsa, sempre pei tipi del Silber, a Roma nell'ottobre del 1515, fu dedicata a Carlo V e seguita dal De modis latine loquendi. Nel De sermone latino il cardinale fa una rassegna della letteratura latina dividendola in quattro periodi: "antiquissimum", dalla fondazione di Roma a Livio Andronico; "antiquum" da Livio a Cicerone; "perfectum", l'età di Cicerone; ed infine "imperfectum ac corruptum potius ac vitiosum tempus", ossia l'età post-ciceroniana. Ciceroniano convinto, il C. ritiene che non si possa scrivere buon latino se non attenendosi ai modelli offerti dagli scrittori dell'età ciceroniana, considerata l'età aurea della letteratura latina, ed in particolare da Cicerone. Interessanti sotto il profilo letterario sono anche le lettere che il C. scrisse a Raffaele Maffei e che si conservano alla Biblioteca Vaticana, nel cod. Ottob. lat. 2377 parzialmente edite da P. Paschini (pp. 121 ss.). Il C. fu forse anche autore di un perduto commento ai sonetti del Burchiello.
Opere: Oratio super fóedere inter Alexandrum VI ac Romanorum, Hispaniae et Anglie reges, Romae, Andreas Freitag, 1496; De venatione ad Ascanium Sforzam e Iter Iulii II cum Bononiam contendit sono stampati in R. Ketelio, De elegantiori latinitate comparanda scriptores selecti, Amsterdam 1713; il De venatione è stato dapprima stampato a Venezia, pei tipi di Aldo Manuzio, nel settembre 1505, poi a Roma, da M. Silber, 1510 e da M. Schurer, agosto 1512; un'edizione dell'Iter insieme al De sermone latino e a Venatio fu stampata a Basilea, Io. Frobenium, giugno 1518 ed in seguitio a Colonia 1522 e 1524, Venezia 1527 e Parigi 1528; De vera philosophia ex quattuor doctoribus ecclesiae, Bononiae, per Iohannem Antonium de Benedectis, 1507; Romae, per I. Masochium, 1514, seconda edizione curata da Cipriano Benetti ad uso degli studenti romani; fu ristampato a Colonia, ex officina M. Novesiani, nel 1540 (Hadriani cardinalis De vera philosophia libri IIII ex quattuor Ecclesiae doctoribus conscripti, varia eruditione et multa pietate referti, suae integritati, qua fieri potuit solertia, nunc primum restituti);una quarta edizione dell'opera, con un accurato commento, apparve a Roma nel 1775 (Hadriani Cardinalis S. Chrysogoni De vera philosophia ex quattuor ecclesiae doctoribus libri quattuor ...), a cura del card. B. Passionei e sotto gli auspici di Pio VI; De sermone latino, Romae, M. Silber, 1514-15; De sermone latino et modis latine loquendi, Romae, M. Silber, 1515 e Basilea 1533.
Fonti e Bibl.:Numerosi documenti concernenti il C. sono stati pubbi. nella raccolta di Testimonia et Monumenta, in app. a H. Ferrii De rebus gestis et scriptis Hadriani Cast. Cardinalis, Faventiae 1771, pp. 1-177. Oltre alle lettere conservate alla Bibl. Apost. Vaticana, Ottob. lat. 2377, utilizz. da P. Paschini, Tre ill. prelati del Rinasc., Ermolao Barbaro, A. C., Giovanni Grimani, in Lateranum, n.s., XXIII (1957), 1-4, pp. 43-130; si vedano quelle indicate in P. O. Kristeller, Iter Italicum, I, pp. 41, 58, 72, 109; II, pp. 53, 177, 209; Lettres du Roi Louis XII et du cardinal George d'Amboise, IV, Bruxelles 1712, p. 75; Letters and Papers, Foreign and Domestic, a c. di J. S. Brewer, London 1862, I, ad Indicem; II, 1, ibid. 1864, ad Indicem; II, 2, ibid. 1864, ad Indicem;III, 1, ibid. 1867, ad Indicem;III, 2, ibid. 1867, ad Indicem;IV, 2, ibid. 1872, ad Indicem;IV, 3, ibid. 1876, ad Indicem;M. Sanuto, Diarii, I-XXXII, Venezia 1879-1892, ad Indicem;J. Burchardi Diarium sive rerum urbanarum commentarii, a cura di L. Thuasne, I-III, Paris 1883-1885, ad Indicem;P. de' Grassi, Il Diario di Leone X, a cura di M. Armellini, Roma 1884, pp. 48-50, 68, 125; J. Gairdner, Letters and Papers of Richard III and Henry VII, London 1891, II, 1, ad Indicem;A. Bernardi (Novacula), Cronache forlivesi, a cura di G. Mazzatinti, Bologna 1895, II, p. 233; L.-G. Pélissier, Catalogue des documents de la collection Podocataro d la Bibliothèque Marciana à Venise, in Zentralblatt für Bibliothekswesen, XVIII (1901), p. 522; Il Diario romano di Iacopo Gherardi... dal 7 sett. 1479 al 12 agosto 1484, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXIII, 3, a c. di E. Carusi, pp. LXXXVII, XCV; Diario Romano dal 1°maggio 1485 al 6 giugno 1524di Sebastiano di Branca Tedallini, ibid., a cura di P. Piccolomini, pp. 310, 324 s., 340, 343, 360 s., 371 s.; R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma, I,, Roma 1902, pp. 93, 188; J. Schlecht, Andrea Zamometic, Paderbom 1903, p. 125; P. 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