affezione
Ogni fenomeno passivo della coscienza.
Aristotele identifica l’a. con il patire, e quindi con una delle dieci categorie della sostanza vivente. Oggetto del patire sono i sensi, che trasmettono all’anima le sensazioni provocate dagli oggetti esterni, dando così inizio al processo conoscitivo. Tuttavia, poiché le a. provenienti dagli agenti esterni suscitano anche quelle che più propriamente vengono definite «passioni», il termine acquista una valenza più ampia che non si limita solo alla sfera conoscitiva, ma investe anche quella etica. Lo stesso Aristotele, in particolare nel trattato Sull’anima (➔), assegna un valore più ampio al termine passione, che designa qualsiasi modificazione essa subisca. A. dell’anima diventano così non solo le impronte degli agenti esterni, ma anche i sentimenti provocati dagli stessi, come piacere, dolore, desiderio, ecc. In questo senso il termine a. viene inteso da Cicerone nelle Tusculanae (cfr. IV, 6, 11-14) come sinonimo di perturbatio animi o concitatio animi. Anche Agostino nel De civitate Dei (IX, 4; trad. it. La città di Dio) (➔) considera i termini perturbationes, affectus, affectiones come sinonimi di passiones. Nella storia della filosofia sono riscontrabili tre diversi orientamenti sul ruolo delle affezioni. Per il primo aspetto, le a. sono considerate dannose sia sotto il profilo conoscitivo che sotto quello etico, anzi tra le due discipline esiste uno stretto rapporto, perché possiamo agire bene solo se abbiamo acquisito la conoscenza del vero. Questa posizione si identifica con Platone, e caratterizza l’intera tradizione platonica con tutte le sue ramificazioni rinascimentali e moderne.
A tale posizione può essere avvicinato il razionalismo di Cartesio, Spinoza e Leibniz (secondo i quali le a., sia sotto il profilo conoscitivo che sotto quello passionale, sono solo idee o percezioni ‘confuse’), e naturalmente l’idealismo classico tedesco, Hegel in particolare. Il secondo caso è costituito dalla filosofia peripatetica e da quella epicurea, che considerano le a. indispensabili dal punto di vista conoscitivo, e positive dal punto di vista etico. Sotto il primo profilo, i sensi restano passivi nella registrazione degli oggetti esterni, e non possono commettere errori di alcun tipo, risiedendo l’errore non già nel senso, ma nel giudizio su ciò che i sensi hanno registrato. Per quanto riguarda l’aspetto etico, un uomo senza passioni non esiste: si tratta solo di moderarle (μετριοπάϑεια). Nel terzo caso le a. sono considerate indispensabili sotto il profilo conoscitivo, ma dannose sotto quello etico. Nel mondo antico tale posizione è sostenuta dallo stoicismo. Per un verso, infatti, le a. – in modo non diverso dalla scuola peripatetica e da quella epicurea – si imprimono su di noi come il sigillo sulla cera, e senza di loro non sarebbe possibile il processo conoscitivo. Sotto l’aspetto etico, tuttavia, esse sono considerate un forte elemento di disturbo nell’acquisizione della virtù. Gli stoici, conseguentemente, richiedono dal sapiente una totale apatia o assenza di passioni. In età moderna questa posizione caratterizza anche la filosofia di Kant. Dal punto di vista conoscitivo il concetto di a. riveste grande importanza nella Critica della ragion pura (➔) di Kant, ed è alla base della fondamentale distinzione fra intuizioni e concetti: diversamente dai concetti, che riposano su funzioni, tutte le intuizioni, in quanto sensibili, riposano su affezioni. La capacità di essere affetti è il tratto distintivo dei sensi, che in Kant, ormai lontano dalla concezione leibniziano-wolffiana, sono indispensabili arricchimenti dell’intelletto, in assenza dei quali esso non potrebbe svolgere le sue funzioni conoscitive. Il concetto ricorre continuamente nella Critica, a cominciare dall’apertura dell’Estetica trascendentale (B 33), dove leggiamo che possiamo avere intuizioni solo se l’oggetto «affetta» (affiziere) in qualche modo il nostro animo. Questa rivalutazione, contro il razionalismo, del ruolo della sensibilità permea di sé l’intera Critica, e culmina nella tesi, espressa nella terza parte dell’opera, la Dialettica trascendentale, secondo la quale la ragione, quando pretenda di fare a meno delle a., genera solo una conoscenza illusoria. Intese come passioni, peraltro, le a. sono giudicate da Kant, non diversamente che dal razionalismo, «cancri della ragion pura pratica, per lo più inguaribili» (Antropologia pragmatica, § 81).