Abstract
Cominciando dalla storia degli accordi economici collettivi, che caratterizzano la nascita della disciplina degli agenti prima delle norme del codice civile, vengono esaminate le norme che disciplinano il rapporto di agenzia nel caso in cui l’agente svolga una prestazione prevalentemente personale nonché la distinzione con il rapporto di lavoro subordinato.
È opportuno innanzitutto ricordare che la disciplina del contratto di agenzia ha origine con l'accordo economico collettivo del 1935.
Al momento della caduta dell'ordinamento corporativo nel 1943, esistevano tre accordi economici collettivi riguardanti gli agenti: quello del 30.6.1938, per le aziende industriali; quello del 15.7.1939, per le imprese assicuratrici; quello del 10.10.1941, per gli armatori e le aziende di deposito e di spedizione. È da aggiungere che, mentre il secondo è da tempo abrogato, il primo ed il terzo sono tutt'oggi in vigore.
Il d.l.lgt. 23.11.1944, n. 369, disponeva, all'art. 43: «Restano in vigore (...) le norme contenute nei contratti collettivi, negli accordi economici, nelle sentenze della magistratura del lavoro, salvo le successive modifiche». Inciso, quest’ultimo, da intendere come possibilità di apportare deroghe migliorative (per gli agenti) a tali norme anche mediante contratti collettivi di diritto comune.
La prima di tali modifiche fu l'a.e.c. 10.11.1951, tra l'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (A.N.I.A.) ed il Sindacato nazionale degli agenti di assicurazione, che conteneva numerosi miglioramenti. La seconda e la terza modifica furono costituite dagli aa.ee.cc. 20.6.1956 e 17.7.1957: l'uno contenente diversi vantaggi rispetto all'accordo del 1938, l'altro costituito da disposizioni regolamentari in materia previdenziale. La quarta ed ultima modifica fu introdotta con l'a.e.c. 13.10.1958, fra la Confcommercio e la Federazione nazionale delle associazioni degli agenti e rappresentanti di commercio, che si limitò ad aumentare la misura dell'indennità di scioglimento del contratto, richiamando espressamente, per ogni altro istituto, l'accordo del 1938.
Arriviamo così alla l. 14.7.1959, n. 741, con la quale il Governo veniva delegato «ad emanare norme giuridiche aventi forza di legge al fine di assicurare minimi di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria», con obbligo fatto al Governo stesso di «uniformarsi a tutte le clausole dei singoli accordi economici e contratti collettivi» (art. 1), obbligo che concerneva «tutte le categorie per le quali risultino stipulati accordi economici e contratti collettivi riguardanti una o più categorie per la disciplina dei rapporti di lavoro, dei rapporti di associazione agraria, di affitto a coltivatore diretto e dei rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni d'opera continuativa e coordinata». In virtù di tale legge furono emanati il d.P.R. 16.1.1961, n. 145, relativo agli aa.ee.cc. del 1956 e del 1957, il d.P.R. 18.3.1961, n. 387, concernente l'a.e.c. del 1951, e il d.P.R. 26.12.1960, n. 1842, riguardante l'a.e.c. del 1958. In tal modo le clausole contrattuali di tali aa.ee.cc. acquistano il rango di «norme delegate». A partire da questo momento si susseguono diversi accordi collettivi di diritto comune (cioè, accordi di diritto privato ex art. 1322 c.c.) fino a quelli del 30.7.2014 per gli agenti del settore industriale e del 16.2.2009 per gli agenti del settore commerciale. Per gli agenti assicurativi l’ultimo accordo sottoscritto è del 23.12.2003, poi disdetto il 31.12.2006 e pertanto non più esistente.
Sul piano giuridico e sul piano pratico, non esiste alcuna differenza, per quanto attiene ai loro rapporti con le pattuizioni individuali, fra le superstiti norme corporative e le norme delegate ex l. n. 741/1959: sono tutte norme inderogabili in pejus per l'agente, sicché la loro violazione comporta la nullità della clausola contrattuale contrastante e la sua sostituzione con la clausola violata.
L’inderogabilità, invece, degli aa.ee.cc. di diritto comune pone molti dubbi, in quanto non trova fonte in nessuna norma di legge. La sola norma che tratta l'inderogabilità degli accordi collettivi è l’art. 2113 (e segnatamente il suo co. 1: «Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'art. 409 c.p.c., non sono valide»). Norma che è da ritenersi applicabile non a tutti gli agenti, ma soltanto a quelli di cui all’art. 409 c.p.c., cioè quelli che svolgono una «prestazione [...] prevalentemente personale» e che, comunque, non prevede la nullità di una clausola se contraria al contenuto di una norma collettiva e la conseguente sostituzione automatica della stessa, ma un'annullabilità. Trascorsi infatti sei mesi (dalla cessazione del rapporto o dalla stipulazione della rinuncia o transazione se successiva) senza che sia intervenuta la dovuta impugnazione, il contratto resta valido.
Profonda anche la differenza dal punto di vista del loro ambito soggettivo di efficacia: le norme corporative e le norme delegate ex l. n. 741/1959 sono sicuramente efficaci erga omnes, in quanto norme di legge; ma non sono tali le clausole degli odierni accordi economici collettivi di diritto comune, stante la mancata attuazione dell’art. 39 Cost. e la loro natura privatistica. È frequente che nel contratto individuale si scriva, ad es.: «Per quanto qui non previsto, si applica l'accordo collettivo (...)». In tal caso il problema non si pone: la regolamentazione collettiva si applica perché le parti lo hanno voluto. Oppure, l’a.e.c. troverà applicazione se il preponente è iscritto ad una delle associazioni che hanno stipulato l’a.e.c. Ma può anche essere che il contratto non richiami affatto alcuna regolamentazione collettiva ed il preponente non sia iscritto ad alcuna associazione datoriale: nel qual caso il rapporto di agenzia resta regolato soltanto dalle norme di legge.
L'agente è un lavoratore autonomo ove debba adempiere alla sua obbligazione «con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione (...)», come dice l'art. 2222 c.c.: se ed in quanto (ferma restando l'assenza di tale «vincolo») il lavoro dovuto dall'agente sia o esclusivamente proprio o, almeno, lo sia «prevalentemente». Sono necessarie però alcune precisazioni.
Secondo un’opinione che si ritiene di seguire (Saracini, E., Il contratto di agenzia, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni-Schlesinger, 1987, 97), l’agente è sempre un imprenditore (Cass., 28.7.2005, n. 15790, in Mass. giur. it, 2005, c. 1252), «normale» o «piccolo». Sul punto è bene ricordare quanto, con chiarezza esemplare scriveva il Bigiavi (Bigiavi, W., La piccola impresa, Milano, 1947, 94-6): «(...) non esiste un concetto autonomo di lavoratore autonomo distinto da quello di piccolo imprenditore: esiste un concetto di lavoratore autonomo (contratto d'opera) distinto (oltre che dal lavoratore subordinato) dal contratto di appalto; e la differenza tra i due contratti (quando l'assuntore sia un professionista e l'attività svolta non sia intellettuale od artistica) risiede soltanto in questo: che nel contratto d'appalto l'assuntore è un imprenditore normale, nel contratto d'opera (lavoro autonomo) è un piccolo imprenditore»; e la distinzione è «addirittura imposta dalla relazione al codice civile (n. 914), dove è detto che il contratto d'opera riguarda il tipo di locatio operis più elementare, in cui il conductor operis presti un lavoro esclusivamente o prevalentemente proprio e, come tale, non rivesta la figura d'imprenditore (prestatore d'opera intellettuale o artistica) oppure rivesta la figura di piccolo imprenditore (artigiano). Dove si vede che il lavoratore autonomo (cioè colui che assume professionalmente contratti d'opera) è sempre un imprenditore (piccolo), quando la natura della sua attività non gli precluda l'acquisto di tale qualità. In altre parole si deve ripetere che, se autonomo è il contratto di lavoro autonomo, non autonomo è il concetto di lavoratore autonomo [...] perché il concetto di lavoratore autonomo implica la reiterazione, la professionalità e, quindi, si copre con quello di imprenditore».
L'obbligazione dell'agente consiste nel promuovere la conclusione di contratti, ovvero nell'invitare i possibili clienti a formulare proposte di contratti all'indirizzo del preponente: tale, per la precisione, è l'obbligazione dell'agente non rappresentante, giacché il facere dell'agente rappresentante consiste nel proporre la stipulazione di contratti, ovvero, se il cliente aderisce alla proposta, nello stipularli a nome e per conto del preponente (art. 1752 c.c.). In entrambi i casi è da escludere che l’agente possa considerarsi obbligato a realizzare «un'opera», ma «un servizio»; un’obbligazione di mezzi, di attività, non di risultato. L'agente sarebbe, se non fosse appunto un agente, un appaltatore continuativo o periodico di servizi ex art. 1677. L'agente, infine, in quanto imprenditore, è un «produttore di servizi» ex art. 2195, co. 1, n. 1).
Poiché l’art. 2222 e gli articoli successivi non si applicano ove «il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV» (art. 2222 c.c.), all'agente non si applica comunque nessuna di tali norme: se è un imprenditore normale, proprio perché allora non si tratta di un lavoratore autonomo; se è un piccolo imprenditore, perché in tal caso vale l'art. cit.: non si applicano le norme successive, dovendosi invece applicare gli artt. 1742-1753. Né si applicano, vale la pena di ricordare, le norme contenute nel capo successivo, concernenti le professioni intellettuali: pur non essendo inappropriato definirlo «professionista», l'agente non è un professionista intellettuale.
Fra le norme regolanti il lavoro autonomo ed estranee all'agente, mette ancora conto di soffermarsi per un istante sull'art. 2225. L'essere tale norma inapplicabile al contratto di agenzia non significa che, in difetto di determinazione convenzionale della provvigione, si applicherebbero gli artt. 1346 e 1418 ed il contratto di agenzia sarebbe quindi nullo: l'art. 2225 non è che l'espressione, con riferimento specifico al lavoro autonomo, di un generale principio che si trova pure affermato in numerose altre norme (ad es., negli artt. 1657, 1709, 1755 e 2099), non ripetuto nell'art. 1748, ma ugualmente valido, appunto come generale principio, anche nei confronti dell'agente: questi ha dunque facoltà, in mancanza di determinazione contrattuale del suo compenso, di ottenerne la determinazione giudiziale, secondo equità.
«L’elemento distintivo tra il rapporto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato va individuato nella circostanza che il primo ha per oggetto lo svolgimento a favore del preponente di un'attività economica esercitata con organizzazione di mezzi e assunzione del rischio da parte dell'agente, che è legato da un semplice rapporto di collaborazione con il preponente, al quale deve fornire le informazioni utili al fine di valutare la convenienza degli affari, mentre oggetto del secondo è la prestazione, in regime di subordinazione, di energie lavorative, il cui risultato rientra esclusivamente nella sfera economico-giuridica dell'imprenditore, che sopporta il rischio dell’attività svolta» (Cass., 7.2.2013, n. 2937, in Agenti e rappresentanti di commercio, 2013, n. 3, 39). In questa sentenza sono ripetuti i concetti fondamentali che la Suprema Corte ha da tempo elaborato (Cass., 23.4.2009, n. 9696, in Foro it., Rep., 2009, voce Agenzia-rapporto di, n. 13; Cass., 12.5.2004, n. 9060, in Mass. giur. it., 2004, c. 684), non senza alcune varianti, a volte di notevole peso: ma nel complesso l'iter è rimasto, e pare destinato a rimanere, immutato. Con un unico elemento, importante, da mettere in evidenza: la rivalutazione, nel generale dibattito sulla distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, dell’elemento della volontà espressa nel documento, sottolineato in alcune sentenze successive alla metà degli anni ‘80 (Cass., 30.11.2009, n. 25213, in Foro it., Rep., 2009, voce Prescrizione e decadenza, n. 65; Cass., 21.1.1987, 547, in Mass. giur. it., 1987, c. 96).
Secondo il consolidato orientamento della Cassazione sopra riportato, tali criteri sarebbero principalmente due: mentre l'agente sarebbe obbligato a conseguire un risultato, il lavoratore subordinato sarebbe tenuto a svolgere un'attività; e mentre il rischio inerente al conseguimento del risultato graverebbe sull'agente, nessun rischio sarebbe invece a carico del lavoratore subordinato. Consideriamoli partitamente.
I) È difficile comprendere che cosa dovrebbe intendersi per «risultato», nel caso specifico dell’agente, poiché la sua attività conduce ad una serie illimitata di risultati: l'«ordine» del cliente, l'accettazione del preponente, la regolare esecuzione dell'affare. Ragion per cui, quando la Suprema Corte dice «risultato», o intende un solo risultato, ed allora certamente sbaglia; oppure intende una serie indefinita di risultati, come appunto si sta constatando, ed allora è lo stesso concetto di «risultato», come elemento discriminante rispetto al lavoro subordinato, che svanisce. E non può essere che così, giacché l'obbligazione dell'agente consiste nel «promuovere la conclusione di contratti»: per l'appunto un'attività, non un risultato, anche se alla prima conseguono, come sempre accade, dei risultati.
II) Indubbiamente, sull'agente incombe un notevole rischio: quello di concludere pochi affari, addirittura nessuno, a dispetto dell'attività dispiegata e delle spese sopportate; e quindi di realizzare un reddito molto modesto, addirittura di subire delle perdite. Altrettanto indubbio è che il lavoratore subordinato non corre rischio avendo egli in ogni caso diritto alla retribuzione in conformità all'art. 36 Cost. Se questo è vero, bisogna però prendere atto che con ciò non si dice ancora nulla.
O si vuol dire che, per il fatto di essere remunerato con provvigione e di dover sopportare le spese, chi viene denominato «agente» dal contratto dovrebbe, almeno in linea massima, considerarsi tale, ed allora si incorre in un errore. Sempre, nello stipulare un contratto che si definisce «di agenzia», si pattuisce una certa provvigione sugli affari andati a buon fine, come (unico o prevalente) compenso dell'attività a carico dell'agente e si pattuisce altresì che le spese saranno (almeno in parte) a carico del medesimo. Tuttavia è essenziale considerare fattispecie ed effetti legali della fattispecie: alla «fattispecie agenzia» conseguono gli effetti legali previsti dagli artt. 1742 ss., fra cui principalmente il rischio dell'agente, così come alla «fattispecie lavoro subordinato» conseguono gli effetti legali ex artt. 2094 ss., fra cui emerge il non-rischio. Quindi, si tratta di distinguere non fra gli uni e gli altri effetti, ma fra l'una e l'altra fattispecie: quand'è che la prestazione lavorativa è tale, di sua natura, da potersi legittimamente chiamare «agente» chi la svolge; e quand'è, invece, che essa rientra, di sua natura, nella definizione legislativa del lavoro subordinato?
Non bisogna dimenticare, d'altra parte, che nemmeno nella locatio operis per eccellenza, ovvero nell'appalto, l'elemento «rischio», per quanto espressamente previsto dalla legge (art. 1655), è essenziale (Rubino, D., L'appalto, in Tratt. Vassalli, Torino, 1958, 248). Lo stesso sembra possa ripetersi, a maggior ragione, a proposito dell'agenzia, nella cui definizione legislativa nemmeno compare la parola «rischio» e che, evidentemente, può pattiziamente essere dalle parti del tutto escluso senza con ciò far venir meno la genuinità di un contratto di agenzia. Si pensi al caso, non così improbabile, di un agente persona giuridica assai strutturato ed importante che pretenda dal preponente (magari di dimensione inferiore alla sua) un contratto a termine di cinque anni e una provvigione annua fissa predeterminata, proprio per «non correre rischi».
La seconda osservazione da fare è che il co. 7 dell'art. 1748, dove si dice che le spese sono a carico all'agente, è norma certamente derogabile; e non ci pare buon criterio interpretativo il considerare quella che ben può costituire una clausola derogatoria come un elemento tale da indurre ad escludere che si sarebbe in presenza di un contratto di agenzia.
È importante, si afferma talora, che vi sia un «minimo di organizzazione»: locali, macchine d'ufficio, subagenti, altri collaboratori, ecc.: se tale «minimo» esiste, si dovrebbe supporre un rapporto di agenzia; se non esiste, vi sarebbe un «indice» di segno contrario. Ci troviamo, evidentemente, alle prese con un equivoco, soprattutto con una imprecisione di linguaggio che occorre eliminare. Infatti, ovviamente, se l'attività personale dell'agente (e dei suoi familiari) non prevale sul capitale da lui impiegato e sul lavoro altrui, si tratta di un imprenditore normale, cioè non siamo in presenza di un lavoratore autonomo; ed il problema in esame nemmeno si pone. Invece, se il lavoro personale dell'agente (e dei suoi familiari) prevale sul capitale e sul lavoro altrui, allora sì che si pone il problema di sapere se si tratti di un agente-piccolo imprenditore, cioè di un agente-lavoratore autonomo, o non, invece, di un lavoratore subordinato. Ma, qualunque sia la soluzione, va sottolineato che non sta scritto da nessuna parte che l'agente, come tale, dovrebbe disporre dell'anzidetto «minimo», essendo vero precisamente il contrario: si può essere agenti in piena regola senza alcuna organizzazione, sol che si consideri che l'art. 1748, co. 7, come si è detto, è una norma derogabile.
Un'altra circostanza da tenere presente è se le visite dei clienti abbiano luogo sulla base di un elenco fornito dal preponente e da lui prestabilito, oppure no: nel primo caso si dovrebbe propendere per l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato: nel secondo, quando cioè all'agente sia riservato un «apprezzabile margine di scelta», per l'esistenza di un rapporto di agenzia.
Sul punto è rilevante considerare che nella stragrande maggioranza dei rapporti di agenzia, anche ai fini della determinazione dell’indennità ex art. 1751 viene attribuito un elenco clienti: nel momento in cui ottiene l'incarico ex art. 1742, l'agente riceve dal preponente l'elenco dei clienti della zona assegnatagli, elenco che costituisce il frutto dell'attività degli agenti che lo hanno preceduto ed è naturalmente suscettibile di riduzioni o di integrazioni, in conformità allo scomparire di vecchi clienti od al comparire di nuovi, che potranno essere individuati dall'agente medesimo, o saranno a lui segnalati dal preponente. L'elenco-clienti non esiste, ed è pertanto proprio l'agente a dover «creare» la clientela, nell'unica ipotesi in cui in quella zona il preponente fosse in precedenza assente. Anche quest’argomento, appare, pertanto, privo di reale valore qualificatorio della fattispecie.
Anche l'itinerario – altro elemento al quale viene data talora una certa importanza – non può non essere «stabilito», non essendo altro, se così possiamo esprimerci, che la rappresentazione topografica dell'elenco-clienti, secondo il criterio del minor costo, determinato dall’agente. Diverso è – di molto – se il preponente invece impone, ad es., che i clienti delle località A e B dovranno essere visitati nella giornata di lunedì; quelli della C nella giornata di martedì ecc. In questo caso, in realtà, non si stabilisce solo l'itinerario – che è quello che è – ma anche la collocazione temporale delle visite e quindi dell'attività, ovvero l'orario di lavoro. Se è così, se è questo che vuol dire la giurisprudenza, quando considera «indice rivelatore» la «predeterminazione dell'itinerario» da parte del preponente, essa è nel vero. L'agente non può avere orario di lavoro: non è agenzia, ma lavoro subordinato, il contratto che preveda l'obbligo di visitare quotidianamente e secondo un certo ordine la clientela.
Scarsa importanza, giustamente, si da generalmente all'obbligo dell'agente di relazionare periodicamente il preponente, di istruire e controllare altri agenti, di partecipare a riunioni periodiche presso la direzione, ecc.: attività che in alcune decisioni sono state considerate manifestazioni del potere gerarchico dell'imprenditore, dell'«inserimento» del lavoratore, ma che in realtà non hanno alcun rilievo qualificatorio, potendo esse rientrare in quel potere del preponente di impartire istruzioni che l'art. 1746 espressamente gli attribuisce e che è comune alla disciplina di altri numerosi contratti tipici. Altrettanto trascurata è l'esistenza, o meno, del potere disciplinare. E giustamente, l'essere il preponente titolare di tale potere è una conseguenza legale dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato: quindi un effetto della fattispecie e non un elemento della definizione.
A quanto pare, nessuno degli anzidetti «indici rivelatori» rivela davvero qualcosa. Il problema consiste, in realtà, nel riuscire a distinguere l’agente dal viaggiatore od il piazzista di commercio, dal momento che gli agenti derivano, sul piano storico, proprio da tali collaboratori dell’imprenditore.
Dal punto di vista della regolamentazione collettiva, i viaggiatori e piazzisti di commercio nascono qualche anno prima degli agenti di commercio con il CCNL15.5.1928: probabilmente il più vecchio contratto collettivo corporativo. Un «contratto di mestiere», destinato ad operare senza distinguere tra settore e settore. Verso il finire degli anni '70 questa contrattazione collettiva «di mestiere» sparisce, e viene inclusa nella regolamentazione collettiva di ogni settore, seppure con norme particolari.
L'art. 2 del contratto collettivo del 1928 prevedeva: «Agli effetti di presente contratto si ritiene viaggiatore di commercio chi è stabilmente incaricato, con vincolo di dipendenza da una ditta, di viaggiare in determinate zone per il collocamento di articoli trattati dalla ditta stessa, sia che viaggi a proprie spese come a spese della ditta, sia che abbia retribuzione fissa, oppure totalmente o parzialmente a provvigione, abbia o meno le spese a proprio carico»; ed il successivo art. 43: «Agli effetti del presente contratto si ritiene piazzista di commercio chi è stabilmente incaricato, con vincolo di dipendenza da una ditta, di collocare nella città, sede della ditta, ed immediati dintorni, gli articoli trattati dalla ditta stessa, comunque sia retribuito».
In sostanza, si dice la stessa cosa che si legge nell'art. 1742: anche l'obbligazione fondamentale del viaggiatore e del piazzista, consiste nell'invitare i clienti a fare offerte contrattuali, ovvero a firmare «ordini».
Sin qui, dunque, le due obbligazioni risultano identiche. L'art. 2 cit., co. 3, contiene un’importante precisazione: «Sono esclusi dal presente contratto coloro che nell'esercizio delle loro funzioni, pur avendo una limitazione di zona, hanno una piena autonomia di azione nello svolgimento del loro lavoro, non avendo alcun vincolo di itinerario o di impiego del loro tempo»: quindi, sono soggetti alla regolamentazione collettiva soltanto coloro che siano siffattamente «vincolati». L’itinerario non è previsto in se stesso, ma in quanto la sua fissazione comporta l’esistenza di un orario, allo stesso modo in cui la pattuizione dell'orario è prevista al fine di stabilire un certo itinerario nelle singole frazioni temporali.
Per diversi decenni, nella regolamentazione collettiva degli agenti non si è detto nulla che riguardasse il loro tempo lavorativo. Compare infine, nell'a.e.c. 18.12.1979, all'art. 1, co. 3, e nell'a.e.c. 24.6.1981, sempre all'art. 1, co. 4, il primo per gli «industriali» il secondo per i «commerciali», una clausola così concepita: «L'agente o rappresentante esercita la sua attività in forma autonoma e indipendente, nell'osservanza delle istruzioni impartite dal preponente ai sensi dell'art. 1746 c.c., senza obblighi di orario di lavoro e di itinerari predeterminati» (il testo è rimasto invariato anche negli aa.ee.cc. del 2014 e del 2009). Quest'ultimo inciso è da intendere: «senza obblighi di orario di lavoro e di itinerari predeterminati nell'ambito dell'orario stesso».
Ci troviamo dunque in presenza di clausole collettive di contenuto uguale e contrario, un'autentica immagine speculare. Tanto basta a sostenere, probabilmente, che proprio qui risiede la distinzione che si sta cercando di individuare. Quindi, in conclusione, l’agente può disporre del suo tempo come vuole; il prestatore di lavoro subordinato, no.
Una distinzione importante a questo punto si impone. Una cosa è l'orario, un'altra l'obbligo di orario. Tutti, abbiamo un orario, che di solito rispettiamo, ma che non sempre siamo obbligati a rispettare. Tale è il caso dell'agente, del vero e proprio agente, che ha bensì un suo orario di lavoro e solitamente lo rispetta, ma che non è obbligato, verso il preponente, a rispettare. E si badi che in tanto può parlarsi di obbligo di orario, in quanto questo derivi appunto dal rapporto contrattuale.
Vanno infine succintamente ricordate alcune delle norme processuali, di cui sopra si è fatto cenno. La controversia che dovesse insorgere tra agente e preponente (o viceversa) è riservata alla competenza funzionale del Tribunale del lavoro in quanto, dice appunto il n. 3 dell'art. 409, il rapporto di agenzia si concreti «(...) in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale». La formulazione (che ricorda quella contenuta nell'art. 2 della l. n. 741/1959: «rapporti di collaborazione che si concretino in prestazione d'opera continuativa e coordinata»), dà luogo a qualche difficoltà interpretativa. Non possono sussistere dubbi, in verità, sui primi due requisiti, tipici dell'agenzia anzi ad essa intrinseci: le prestazioni dell'agente non possono non essere «continuative» e, al tempo stesso, «coordinate» (cfr. art. 1746). Meno agevole da intendere è l’essenziale precisazione che la prestazione d'opera debba essere altresì di carattere «prevalentemente personale». Qui, evidentemente, la legge distingue fra l'agente «lavoratore autonomo ovvero piccolo imprenditore» e l'agente «non lavoratore autonomo ovvero imprenditore normale», assoggettando al rito del lavoro soltanto il primo.
Ora, se l'agente è un imprenditore individuale, spetta al giudice accertare se vi sia tale «prevalenza», mettendo a confronto il valore delle prestazioni personali dell'agente con quelle dei suoi eventuali collaboratori e con il capitale, senza trascurare altri elementi ancora, come gli utili conseguiti o conseguibili ed il fatturato. Quando invece l'agenzia sia costituita in società, anche di persone, anche di fatto, dovrebbe escludersi, secondo una giurisprudenza ormai consolidata, l'applicazione del rito del lavoro: in tal caso la collaborazione dell'agente, ancorché «continuativa e coordinata», non sarebbe mai «prevalentemente personale» (Cass., 14.7.2011, n. 15535, in Foro it., Rep., 2011, voce Lavoro e previdenza-controversie, n. 73; Cass., 19.04.2011, n. 8940, in Foro it., Rep., 2011, voce Lavoro e previdenza-controversie, n. 75).
L'art. 413 c.p.c., prevede che competente per territorio sia il giudice nella cui circoscrizione si trova il domicilio dell'agente o del rappresentante di commercio. Si tratta di un foro esclusivo e inderogabile.
Infine, l’art. 429, co. 3, c.p.c., che stabilisce che il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro, determini, oltre gli interessi nella misura legale, «il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito (...)», si applica all'agente di cui all'art. 409 c.p.c.
Pure applicabile all'agente-lavoratore autonomo è l'art. 2948, co. 1, n. 5), che prevede la prescrizione in cinque anni (anziché in dieci, ex art. 2946), delle «indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro »: appunto perché qui si dice «rapporto di lavoro», e non «rapporto di lavoro subordinato».
Si deve invece negare, per giurisprudenza costante, l'applicazione della regola introdotta dalla pure notissima sent. 10.6.1966, n. 63, della C. cost., secondo cui la prescrizione dei crediti di lavoro subordinato comincia a decorrere a partire dalla cessazione del rapporto: proprio perché le provvigioni sono un credito di lavoro autonomo, non di lavoro subordinato. Per la stessa ragione dovrebbe escludersi l'applicazione dell'art. 545, co. 3, c.p.c., che limita la pignorabilità di quanto dovuto per «stipendio o salario»; e, conseguentemente, dell'art. 1246, co. 1, n. 3), c.c.
Deve infine negarsi, per concludere, l'applicabilità dell'art. 36 Cost., per una consolidata giurisprudenza (Cass., 16.6.2003, n. 9636, in Lav. prev. oggi, 2003, 1474), che ritiene correttamente che questa norma riguardi il solo rapporto di lavoro subordinato. Per le stesse ragioni nel rapporto di agenzia saranno sempre valide modifiche in pejus del trattamento retributivo concordate tra le parti.
Art. 1742-1753 c.c.; art. 2113 c.c.; l. 14.7.1959, n. 741; art. 409 c.p.c.; art. 413 c.p.c.
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