Abstract
L’indagine ha ad oggetto l’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 c.p. (ex art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152), nella duplice versione dell’uso del ‘metodo mafioso’, da intendersi come effettivo modus operandi in relazione allo specifico fatto commesso; nonché della finalità di agevolare le attività del sodalizio mafioso, la cui inafferrabile dimensione finalistica, produce notevoli problemi di accertamento ed impone una interpretazione in termini di concreta portata agevolatrice della condotta che, non può non riflettersi, sulle ‘attività del sodalizio’. Si evidenziano poi i difficili rapporti e confini, tra l’aggravante agevolatrice e l’ipotesi del concorso esterno in associazione di tipo mafioso.
Il d.l. n. 152/1991, recante «Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa», convertito in l. 12.7.1991, n. 203, deve la sua emanazione alla «straordinaria necessità ed urgenza» di rivedere alcune norme in materia penale «per far fronte a gravissimi fenomeni di criminalità organizzata con interventi finalizzati a rendere più incisivi ed efficaci istituti già operanti ed a creare nuove previsioni in settori che l’esperienza ha dimostrato essere permeabili a pericolose interferenze» (Relazione della 2a Commissione permanente Giustizia del Senato della Repubblica sul disegno di legge per la «Conversione in legge del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152», n. 2808-A, 2). L’intento del legislatore è stato quello di rafforzare il presidio penale contro la criminalità organizzata. Soprattutto, di sanzionare ogni possibile contiguità con dette organizzazioni criminose per quei soggetti, non organicamente inseriti in esse, nei cui confronti si evince una forte pericolosità a fronte della loro capacità di contatti ed infiltrazioni nelle pubbliche istituzioni. Il rischio di collegamenti nonché di penetrazioni nel tessuto sociale ed economico – relazioni queste che costituiscono la base vitale del sodalizio mafioso –, ha fatto sì che il legislatore sviluppasse un vero e proprio sottosistema di fattispecie criminose, per intervenire in quella zona grigia di complicità/connivenza che non riguarda gli affiliati, ma costituisce un supporto fondamentale per le varie attività del sodalizio. Accanto alla fattispecie associativa di tipo mafioso, troviamo una costellazione di sottofattispecie estremamente generiche ed inafferrabili, tendenti a ricomprendere al loro interno tutte quelle ipotesi di collateralismo che, non rientrando nella condotta di partecipazione, «assicurano una copertura repressiva totale del fenomeno criminoso considerato» (De Vero, G., La circostanza aggravante del metodo e del fine di agevolazione mafiosi: profili sostanziali e processuali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 43). Ciò avviene attraverso una tecnica di tipizzazione che anticipa la tutela, arretrando la soglia di punibilità al solo adoperarsi per avvantaggiare il sodalizio, ovvero prescinde dalla verifica causale, dal momento che il risultato di un effettivo vantaggio per l’associazione configurerebbe un’ipotesi di concorso esterno. Nell’ottica della repressione del collateralismo mafioso si inseriva l’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 7, co. 1, d.l. n. 152/1991, che, con d.lgs. 1.3.2018, n. 21, recante «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice in materia penale», è stata trasfusa senza modifiche nell’art. 416 bis.1 c.p., nell’ambito dei delitti contro l’ordine pubblico. Il primo comma di quest’ultimo articolo prevede «Per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo» l’aumento di pena da un terzo alla metà. Per non neutralizzare tale effetto aggravante, il legislatore, al secondo comma, ha ribadito quanto già previsto all’art. 7, co. 2, d.l. cit., ossia che le circostanze attenuanti, nell’eventuale giudizio di bilanciamento ai sensi dell’art. 69 c.p., non possano essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto all’aggravante in questione. Nei commi 3 e 4, si recepisce per intero l’art. 8 d.l. cit., e si prevede, in un’ottica premiale, l’attenuante ad effetto speciale della dissociazione/collaborazione, disponendo la non applicabilità della circostanza aggravante in oggetto all’imputato del delitto aggravato, che tenga comportamenti di aiuto concreto nei confronti dell’autorità investigativa. L’aggravante si articola in due differenti forme: l’una a carattere oggettivo, costituita dall’impiego del metodo mafioso nella commissione di singoli delitti, l’altra di tipo soggettivo, che si sostanzia nel dolo specifico di favorire, attraverso il delitto posto in essere, le attività del sodalizio criminale.
È evidente che il senso della norma sia garantire un forte rigore nei confronti di qualsiasi concreta manifestazione di mafiosità attraverso forme di semplificazione probatoria. Questo espone però a costi importanti in punto di legalità, in particolare di tassatività. Il tutto è acuito dalla difficile demarcazione/distinzione in termini di tipicità, da un lato dalla fattispecie madre (art. 416 bis c.p.), intrisa di elementi socio-culturali, dall’altro dall’ancor più indefinita e ‘liquida’ ipotesi del concorso esterno.
I delitti a cui l’aggravante può applicarsi sono quelli puniti con pena diversa dall’ergastolo (cfr. Della Ragione, L., L’aggravante della “ambientazione mafiosa” (art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152), in Maiello, V., a cura di, La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi, Torino, 2015, 83 ss.). Occorre intendersi se la pena dell’ergastolo, che non consente l’impiego dell’aggravante, vada intesa in senso astratto e cioè come pena edittale, ovvero debba farsi riferimento alla pena inflitta in concreto come espressione della comminatoria del giudice al singolo individuo (Cass. pen., sez. I, 10.1.2002, n. 20499, in CED rv. n. 221443, Ferrajoli). L’orientamento giurisprudenziale è nel senso che tale aggravante operi in concreto, dando luogo agli aumenti di pena previsti, quando la pena detentiva inflitta sia diversa dall’ergastolo; ciò però non esclude la contestazione della stessa anche nel caso di delitti punibili con pena dell’ergastolo, salvo poi essere esclusa, all’esito del giudizio di cognizione, ferma restando la sua efficacia a fini diversi da quelli di determinazione della pena (Cass. pen., S.U., 18.12.2008, n. 337). Suscita perplessità il costante orientamento giurisprudenziale che applica l’aggravante anche nel caso di delitto rimasto allo stadio di tentativo (Cass. pen., sez. I, 18.10.2007, n. 43663). Il riconoscimento dell’autonomia giuridica del delitto tentato vuol significare che ove la legge faccia riferimento alla ipotesi tipica, stabilendo effetti giuridici sfavorevoli, questi, per rispetto della riserva di legge, si estendono al solo reato consumato (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte generale, VI ed., Bologna, 2010, 419). La conseguenza di quanto affermato è nel senso che «gli effetti giuridici riconnessi dalla norma penale alla consumazione non possono essere automaticamente estesi alla figura del delitto tentato» (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, cit., 419). La giurisprudenza in una recentissima pronuncia, facendo proprio questo orientamento, si è espressa in tema di confisca allargata ex art. 12 sexies, co. 2, l. 7.8.1992, n. 356 (attuale art. 240 bis c.p.), affermando che può essere disposta per i delitti consumati non previsti al co. 1, aggravati dall’art. 7 d.l. n. 152/1991 (ora art. 416 bis.1, co. 1, c.p.), con esclusione della ipotesi tentata non essendo questa richiamata espressamente dal legislatore (Cass. pen., sez. II, 13.10.2017, n. 47062). La questione circa l’applicabilità della confisca allargata i caso di delitto tentato aggravato ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152/1991, attualmente art. 416 bis.1 c.p., è stata rimessa alle Sezioni Unite con ordinanza del 5.2.2018 n. 5378, dalla seconda sezione della Cassazione. Si tenga altresì presente che il delitto aggravato dal metodo mafioso ovvero dalla finalità di agevolazione, produce l’instaurazione di un regime processuale differenziato anche in tema di esecuzione penale. Ciò comporta preclusioni, per esempio in materia di concessione dei benefici penitenziari (art. 4 bis l. 26.7.1975, n. 354) che, nel rispetto della legge, non possono estendersi anche alla condanna per delitto tentato, non essendo l’ipotesi tentata esplicitamente prevista nella deroga di cui all’art. 4 bis l. n. 354/1975. La diversa opinione costituirebbe violazione del principio di tassatività, da intendersi quale vincolo per il giudice di punire solo per ciò che è ‘espressamente’ preveduto dalla lettera della legge.
Come anticipato in premessa, l’aggravante in esame contiene due varianti: la prima, di carattere oggettivo, prevede un aggravio di pena per chi commette un delitto non punito con la pena dell’ergastolo avvalendosi delle condizioni di cui al co. 3 dell’art. 416 bis c.p.; e cioè attraverso l’utilizzo della forza di intimidazione del vincolo associativo da cui derivano le condizioni di assoggettamento e di omertà. La norma opera un generico richiamo al cd. ‘metodo mafioso’, afferente alla fattispecie associativa, senza precisarne, in termini di tipicità, i contenuti. Il punto della questione è se vi sia una coincidenza, oltreché letterale, anche sostanziale tra il metodo mafioso, come dato fattuale della fattispecie associativa, e il metodo mafioso quale circostanza aggravante di cui all’attuale art. 416 bis.1 c.p. Ci si chiede se sia possibile trasferire nell’ambito dell’aggravante l’articolata interpretazione maturata intorno alla complessa formula di cui al co. 3 dell’art. 416 bis c.p., ovvero sia necessaria una ricostruzione, che tenga conto dei diversi contesti normativi di riferimento, così da determinare una elaborazione diversificata, non divergente, ma in termini di autonomia reciproca (De Vero, G., La circostanza aggravante, cit., 47). È evidente che, al di là di una identità letterale, il metodo mafioso vada interpretato in termini diversi a seconda che sia elemento della fattispecie associativa, ovvero costituisca la circostanza aggravante di uno specifico delitto. Il terzo comma dell’art. 416 bis c.p. qualifica il modus operandi del sodalizio che consiste in una sistematica capacità di intimidazione, da cui consegue un diffuso e consapevole timore/assoggettamento nei consociati, «di essere esposti ad un concreto e ineludibile pericolo di fronte alla forza dell’associazione» (Cass. pen., 6.6.1991, n. 77, in Giust. pen., 1992, II, Grassonelli; in tal senso pure Cass. pen., Sez. II, 30.4.2014, n. 22989). Proprio il «clima di intimidazione diffusa scaturente dall’associazione, quale risultante di una consolidata consuetudine di violenza …» (Cass. pen., sez. II, 24.4.2012, n. 31512), fa si che lo sfruttamento della carica intimidativa, possa essere anche solo potenziale, «ricollegabile a pubblica memoria della sua pregressa attività sopraffattrice» (Turone, G., Il delitto di associazione mafiosa, II ed., Milano, 2008, 141). Medesimo discorso non può valere per la fattispecie circostanziata dove l’avvalersi della forza di intimidazione «rappresenta invece per definizione, modalità concreta di realizzazione di un circoscritto fatto delittuoso» (De Vero, G., op. cit., 47), così da conferire al comportamento l’idoneità ad evocare, con efficacia causale, l’esistenza di un sodalizio ed incutere un timore aggiuntivo di una ritorsione mafiosa (così da ultimo Cass. pen., sez. VI, 23.3.2017, n. 14249).
Nella fattispecie circostanziata, quindi, è necessario un riscontro oggettivo di tale modus operandi, in relazione allo specifico fatto delittuoso commesso. La giurisprudenza sul punto concorda nell’affermare che «per contestare l’aggravante in oggetto occorre che il fatto sia realizzato tramite l’effettivo utilizzo del metodo mafioso e cioè tramite l’impiego della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo» (Cass. pen., sez. V, 13.10.2014, n. 42818). Occorre cioè, per configurare l’aggravante, «un comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare sulla vittima del reato la particolare coartazione psicologica evocata dalla norma menzionata» (Cass. pen., sez. II, 13.11.2015, n. 45321), di modo che anche «quando il delitto si consumi dove è notoria la presenza di associazioni criminali di cui all’art. 416-bis c.p. essa non può essere desunta dalle mere caratteristiche soggettive di chi agisce» (Cass. pen., sez. V, 13.10.2014, n. 42818). Una recente pronuncia della Cassazione, in relazione all’accertamento dell’aggravante de qua, ne accentua la direzione oggettivistica/garantista insistendo su parametri riscontrabili nella realtà fenomenica (Cass. pen., sez. VI, 23.03.2017, n. 14249). Tale orientamento giurisprudenziale, teso a valorizzare concreti indicatori fattuali della condotta intimidativa, aiuta ad evitare il rischio di risolvere l’aggravante in una mera responsabilità ambientale e a preservarla da pericolosi automatismi collegati a certi contesti territoriali (Siracusano, F., I paradigmi normativi della contiguità mafiosa, in Arch. pen., 2017, n. 3, 33-34). In conclusione, per la sussistenza della circostanza de qua, non è necessario che sia dimostrata in concreto l’esistenza di un’associazione di tipo mafioso; si ritiene sufficiente che la condotta posta in essere richiami l’esistenza di organizzazioni criminali di caratura mafiosa (Cass. pen., sez. I, 13.4.2010, n. 16883).
È ormai pacifico che i soggetti attivi dei delitti aggravati dal metodo mafioso, possano essere sia gli estranei quanto gli intranei al sodalizio, in relazione alla commissione dei reati fine (Cass. pen., sez. I, 16.4.2014, n. 16711; Cass. pen., sez. II, 13.11.2015, n. 45321). In passato si è verificato un contrasto giurisprudenziale che ha visto parte della giurisprudenza escludere l’applicabilità dell’aggravante al sodale, in quanto la circostanza concerne una condotta già ricompresa all’interno della fattispecie associativa, determinando una duplicazione di sanzione in antitesi con il concorso apparente di norme. Tale conflitto è stato composto dalle Sezioni Unite; si è stabilita la compatibilità dell’aggravante, nella sua duplice articolazione, con l’appartenenza all’associazione di stampo mafioso (Cass. pen., S.U., 28.3.2001, n. 10, Cinalli, in Foro it., vol. 125, 5, 2002, c. 287 ss., e in Cass. pen., 2001, 2667). Il massimo organo nomofilattico, facendo propria l’interpretazione che afferma l’autonomia strutturale dei due metodi e, quindi, la diversità operativa delle due norme, ha ritenuto che il metodo descritto nell’art. 416 bis c.p., venga a costituire, in relazione all’aggravante, una distinta e differente entità. Nel reato associativo esso rappresenta «patrimonio sociale e caratteristica dell’azione del gruppo», indipendentemente dalla commissione dei reati scopo; l’aggravante invece realizza una «eventuale caratteristica di un concreto episodio delittuoso». Ciò non rende incompatibile l’addebito al partecipe del metodo mafioso quale patrimonio sociale ai sensi della norma codicistica, ma non preclude la possibilità di contestare il suddetto metodo quale effettivamente utilizzato dal partecipe in determinate occasioni delittuose (Cass. pen., S.U., n. 10/2001, Cinalli). La soluzione raggiunta dalle Sezioni Unite, seppur si apprezza per rigore argomentativo, non tiene nel dovuto conto le difficoltà probatorie, sul piano logico nonché cronologico, di accertamento concreto delle due situazioni; situazioni queste, occorre ribadirlo, che afferiscono a condotte «tendenzialmente inafferrabili e imprecise» (Reccia, E., L’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152 del 13 maggio 1991: una sintesi di “inafferrabilità del penalmente rilevante”, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, fasc. 2, 252). Le difficoltà poi si acuiscono quando i delitti scopo posti in essere dai sodali, si ricollegano direttamente alla forza intimidatrice del vincolo associativo. Si tratta cioè di quei reati congeniali/funzionali «alla complessa organizzazione che essi presuppongono e richiedono» (Turone, G., Il delitto, cit., 186). Si pensi alle estorsioni sistematizzate sul territorio, ovvero al danneggiamento o incendio da intendersi «come avvertimento mafioso rivolto anche agli estranei» (Cass. pen., sez. VI, 11.2.1994, n. 1793, De Tommasi). Situazioni queste dove ‘la carica intimidatoria autonoma’ si concretizza, assistendo l’associazione, nell’esplicarsi del singolo delitto, garantendone così l’impunità. Con riferimento a tali specifici delitti, l’aggravante in esame ci sembra inapplicabile, in quanto in contrasto col principio del ne bis in idem sostanziale. Infatti la sanzione prevista per il reato associativo ingloberebbe in sé anche il disvalore penale espresso dalla circostanza del metodo estrinsecato nello specifico delitto, comportando una moltiplicazione sanzionatoria a fronte di una identica realtà fattuale.
Il co. 1 dell’art. 416 bis.1 c.p. prevede, come seconda ipotesi, l’aggravante soggettiva della finalità di agevolare le attività dell’associazione di stampo mafioso. Il legislatore ha configurato la circostanza in termini di dolo specifico, utilizzando concetti vaghi – il favorire il sodalizio – che sfuggono ad una precisa tipizzazione normativa, ed autorizzano quella interpretazione giurisprudenziale soggettivizzante, fondata su schemi presuntivi (Squillaci, E., La circostanza aggravante della c.d. agevolazione mafiosa nel prisma del principio costituzionale di offensività, in Arch. pen., 2011, n. 1, 587); in tal senso si è affermato che per integrare la circostanza de qua è sufficiente la consapevolezza del reo di operare a vantaggio di un esponente apicale del sodalizio criminale (Cass. pen., sez. V, 24.9.2007, n. 41587, in Cass. pen., 2008, 4182; contra Cass. pen., sez. II, 27.1.2015, n. 4386). Un tale orientamento fondato su presunzioni di idoneità causale, viola valori basilari del diritto penale del fatto soprattutto in termini di materialità/offensività. La circostanza aggravante, seppur definita attraverso una inafferrabile dimensione finalistica, per accedere ed aggravare il delitto commesso, deve necessariamente contenere una condotta aggiuntiva in termini di disvalore. Occorre cioè recuperare la dimensione di garanzia, selettiva della punibilità, che il dolo specifico non può non contenere. È vero che, per l’accertamento del dolo specifico, non è necessaria la verifica della effettiva avvenuta agevolazione del sodalizio; tuttavia, anche a fronte del forte inasprimento sanzionatorio che la norma prevede, non può rinunciarsi a quel riscontro oggettivo della direzionalità agevolatrice. Nella circostanza de qua, la finalità agevolativa, costituisce requisito espresso di fattispecie, e come tale non può risolversi in mera intenzionalità, dovendosi tradurre in concreta portata agevolatrice della condotta che deve necessariamente riflettersi sull’obiettivo finale: l’attività del sodalizio. Occorre cioè, attraverso un giudizio di prognosi postuma, raggiungere la prova della oggettiva idoneità della condotta al raggiungimento del risultato (Cass. pen., sez. VI, 12.07.2012, n. 31437; Cass. pen., sez. V, 4.02.2015, n. 11101). In altre parole, occorre che il dolo specifico di agevolazione «si innesti su di un sostrato fattuale già di per sé offensivo […] operando in aggiunta e non in sostituzione del dolo generico» (Squillaci, E., La circostanza aggravante, cit. 592). Solo attraverso un recupero del dolo specifico come «illecito di pericolo concreto con dolo di danno» (Marinucci, G.-Dolcini, E., Corso di diritto penale, Milano, 2001, 576), sarà possibile, seppur con difficoltà, distinguere la ipotesi circostanziale degna di aumento di pena, dall’indefinito ambito della contiguità ambientale. La Cassazione, in una recente sentenza, sconfessando l’orientamento precedente che qualificava oggettiva la circostanza in oggetto come espressione della modalità d’azione, ne ha esattamente affermato la natura soggettiva, in quanto circostanza «incentrata su una particolare motivazione a delinquere desumibile dalla direzione finalistica della condotta»; conseguenzialmente ciò comporta l’incomunicabilità dell’aggravante nei confronti dei concorrenti (Cass. pen., sez. III, 13.1.2016, n. 9142). A fronte delle difficoltà probatorie in termini di accertamento del dolo specifico integrante la circostanza de qua, la giurisprudenza è orientata a richiedere l’esistenza effettiva, nonché l’operatività della organizzazione criminale mafiosa, su cui si orienta la finalità agevolativa (Cass. pen., sez. II, 20.9.2013, n. 41003). Un ulteriore aspetto da analizzare consiste nella non semplice individuazione delle – attività dell’associazione – oggetto della finalità agevolativa. Parte della giurisprudenza ritiene che l’aggravante debba incidere esclusivamente sul programma criminoso dell’associazione; si debba cioè indirizzare verso gli scopi precipui del sodalizio (Cass. pen., sez. VI, 31.11.2008, n. 2696). Ciò però comporterebbe una difficile distinzione tra il dolo specifico del partecipe ai sensi dell’art. 416 bis c.p., e quello della diversa figura circostanziata. Altro orientamento sostiene che, per la sussistenza dell’aggravante, sia sufficiente qualsiasi condizione di fatto sganciata dagli scopi tipici del sodalizio, volta a favorirlo anche indirettamente (Cass. pen., sez. II, 9.3.2015, n. 24753).
L’aggravante agevolativa è stata anch’essa oggetto di un controverso contrasto giurisprudenziale e dottrinale, in ordine alla compatibilità con lo status di associato che abbia commesso i delitti-fine oggetto del programma criminoso comune. Le Sezioni Unite, con riferimento ai reati fine commessi dagli appartenenti al sodalizio, hanno stabilito la piena compatibilità dell’allora art. 7 d.l. cit. nelle due differenti forme del metodo mafioso (cfr. par. 3.2) e della finalità di agevolare, con il delitto posto in essere, l’attività dell’associazione (Cass. pen., S.U., n. 10/2001). Il massimo consesso, utilizzando le medesime considerazioni esposte in tema di uso del metodo mafioso, che si fondano sull’autonomia del reato associativo rispetto al reato fine (cfr. par. 3.2), distingue la finalità che muove il partecipe nel reato associativo rispetto a quella presente nella commissione di uno specifico reato fine. Si legge: «l’associato risponde di un contributo permanente allo scopo sociale che prescinde dalla commissione dei delitti singoli: qualora egli a questi concorra e la sua condotta sia sorretta dal dolo specifico di agevolare l’attività dell’associazione, tale fattore psicologico si prospetta siccome ulteriore e pertanto potrà essergli ascritto ex art. 7, d.l. n. 152/91» (Cass. pen., S.U., n. 10/2001). Ci sia consentita una breve riflessione. Nel programma criminale vi sono reati ontologicamente agevolativi, tipici dell’art. 416 bis c.p., che non consentono l’applicazione dell’aggravante in oggetto, rientrando questi in «quella limitata area di interferenza destinata a risolversi nell’applicazione del ne bis in idem sostanziale» (De Vero, G., op. cit., 55). Vi sono poi i delitti che, seppur non agevolino il sodalizio, ne costituiscono l’attività o parte dell’attività tipica, contribuendo a mantenerne la stabilità, nonché a facilitarne il raggiungimento dei relativi scopi (Cass. pen., sez. I, 8.2.2011, n. 13099). Alla luce di quanto detto, differenziare la finalità del partecipe da quella dell’associato/autore aggravato, risulta operazione quanto mai ardua e destinata, ancora una volta, a risolversi sul terreno del processo in assenza di una compiuta descrizione del fatto tipico.
Problematici appaiono i confini tra l’aggravante agevolativa di cui all’attuale art. 416-bis.1 c.p. e l’ipotesi del concorso esterno in associazione di tipo mafioso, frutto questo della combinazione tra la funzione incriminatrice ex art. 110 c.p. in combinato disposto con l’art. 416 bis c.p. Come è noto l’ultimo arresto delle Sezioni Unite in tema di concorso esterno (Cass. pen., S.U., 12.5.2005, n. 33748, Mannino), ha riconosciuto la centralità della verifica causale, nella selezione delle condotte rilevanti, ammonendo sulla necessità che «l’efficacia eziologica del contributo del concorrente esterno sia accertata ex post e in concreto rispetto al fatto reato … e sia provato oltre ogni ragionevole dubbio, in termini di elevata probabilità logica confinante con la certezza, che la condotta dell’extraneus abbia effettivamente giovato in modo apprezzabile alla conservazione o rafforzamento della consorteria malavitosa» (Cass. pen., S.U., n. 33748/2005). È evidente quindi, che la finalità agevolatrice non possa riferirsi al ‘consolidamento o rafforzamento del sodalizio criminoso’, ambito questo di operatività del concorso esterno; detta finalità riguarda quei contributi astrattamente connotati da grande capacità di consolidamento dell’associazione, nondimeno, risultati, una volta posti in essere, del tutto ininfluenti per la realizzazione dell’evento lesivo. In altri termini, attraverso la identificazione del secondo termine della relazione causale «realizzazione del fatto criminoso collettivo», la Suprema istanza di nomofilachia, ha inteso tracciare una netta demarcazione tra il concorso eventuale nel reato associativo e qualsiasi altra fattispecie agevolativa fondata sul terreno della idoneità causale (Dinacci, E., Ancora sul “concorso esterno” tra legalità e giustizia, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2016, 383). Efficacemente è stato detto che l’aggravante agevolativa costituisce una ipotesi di concorso eventuale nel reato associativo ‘a consumazione anticipata’ (De Vero, G., op. cit., 43), senza doversi necessariamente risolvere nella realizzazione di quel contributo funzionale alla realizzazione degli obiettivi del sodalizio criminoso. L’assunto delle Sezioni Unite nel caso Mannino, seppur pregevole nella tensione garantista, sembra però legittimare uno scadimento nell’accertamento processuale, dovuto al contenuto normativamente eclettico, oltre che naturalisticamente vago, dell’evento richiesto ed individuato nella conservazione o rafforzamento del sodalizio. Non a caso, la capacità di tenuta dell’insegnamento “Mannino”, ha dovuto fare presto i conti con una cultura giudiziaria refrattaria in sede applicativa al rigore dell’anzidetto paradigma causale, da cui ha preso origine quella tendenza a confondere causalità ed idoneità causale (Maiello, V., Concorso esterno in associazione mafiosa: la parola passi alla legge, in Cass. pen., 2009, 1352). A questo punto, il fragile discrimen tra il fenomeno concorsuale nel reato associativo mafioso e l’aggravante de qua, sarebbe da rinvenirsi nella prova dell’effettivo rafforzamento del sodalizio, non indispensabile ai fini della contestazione dell’aggravante della mafiosità. Ciò comporta il rischio di risolvere la suddetta aggravante in un dato essenzialmente soggettivo che, confrontato con la fluida frammentazione legislativa in tema di contiguità mafiosa, espone al pericolo di punire anche ciò che è penalmente irrilevante.
L’applicazione della circostanza aggravante nelle forme e nei modi previsti, oltre al considerevole aumento di pena da un terzo alla metà, comporta notevoli conseguenze sul piano processuale nonché della esecuzione penale, producendo l’instaurarsi di quel regime differenziato il cui ambito pertiene alla criminalità organizzata. L’argomento, per economia di indagine, sarà limitato ad una breve elencazione dei fondamentali istituti processuali che interessano la suddetta aggravante (cfr. Della Ragione, L., L’aggravante, cit., 87 ss.). Il ricorrere della circostanza citata determina, innanzitutto, nella fase delle indagini preliminari, l’attribuzione delle funzioni di pubblico ministero al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo (artt. 51, co. 3-bis, e 371 bis, c.p.p.) e di quelle di giudice per le indagini preliminari ad un magistrato del tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente (art. 328, co. 1-bis, c.p.p.); apporta deroghe in riferimento alla durata delle indagini (art. 407, co. 2, lett. a), n. 3, c.p.p.) e alla proroga delle stesse (art. 406, co. 5-bis, c.p.p.), nonché sulla disciplina delle intercettazioni (si veda Intercettazione telefonica 1. Presupposti e procedure) (art. 13 d.l. n. 152/1991; art. 295, co. 3-bis, c.p.p.); incide sulla scelta e sui termini di durata massima della custodia cautelare in carcere (art. 275, co. 3, c.p.p.; art. 303, co. 1, lett. a), n. 3 e lett. b), n. 3-bis; art. 304, co. 2, c.p.p.). Il trattamento differenziato riguarda anche la disciplina dei benefici penitenziari alla cui complessa materia si rimanda (artt. 4 bis, co. 1, 41 bis, 58 ter, 58 quater, l. n. 354/1975). Va in conclusione precisato che la concessione dei benefici per i condannati per delitti aggravati dall’art. 416 bis.1 c.p., è sottoposta alla doppia condizione della effettiva collaborazione con la giustizia (art. 58 ter l. n. 354/1975) nonché alla difficile dimostrazione, che provi, ove non risulti sufficiente la suddetta collaborazione, anche l’assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata (art. 4 bis, co. 1-bis, l. n. 354/1975).
L’art. 275, co. 3, c.p.p., attraverso un rinvio all’art. 51, co. 3-bis, c.p.p., estende a tutti i reati maturati in un contesto mafioso, la presunzione assoluta di idoneità della custodia cautelare in carcere, ove ne sussistano le esigenze cautelari. Occorre precisare come la Corte costituzionale (ordinanza 24.10.1995, n. 450) abbia chiarito che la sussistenza delle esigenze cautelari non può prescindere dalla valutazione del giudice, mentre la individuazione della misura idonea a soddisfarle può essere effettuata in astratto dal legislatore, nel rispetto della ragionevolezza e di un corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti. Con ciò si è legittimata, seppur subordinandola al rispetto dei principi costituzionali, la presunzione assoluta in tema di scelta del tipo di misura cautelare da applicare in determinati contesti criminosi. La Corte costituzionale, con sentenza 29.3.2013, n. 57 ha dichiarato la illegittimità dell’art. 275, co. 3, c.p.p. per contrasto con gli artt. 3, 13, co. 1, 27, co. 2, Cost., nella parte in cui stabiliva una presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere per quei soggetti estranei al sodalizio, che avessero commesso delitti aggravati dal metodo mafioso o dall’agevolazione mafiosa. Ciò comporta, per il delitto aggravato dall’attuale art. 416 bis.1 c.p. il passaggio dalla presunzione assoluta a quella relativa, nel senso che il giudice, ove sussistano le esigenze cautelari, dovrà valutare se, nel concreto, quelle stesse esigenze potranno essere soddisfatte da altra misura meno afflittiva del carcere, come peraltro esige l’art. 13, co. 1, Cost. Con coerenza argomentativa, rileva la Corte, che colui che commette il delitto aggravato dall’allora art. 7 d.l. cit., seppur espressione di una ipotesi di contiguità alla metodologia mafiosa, è comunque estraneo al sodalizio criminale. In tal caso mancherebbe quell’elemento, su cui si impernia la regola di esperienza codificata, del regime custodiale speciale previsto per l’intraneo al sodalizio e che individua il fondamento giustificativo costituzionalmente valido. E valga il vero: «nel delitto aggravato dall’art. 7 d.l. cit. non si è, infatti, al cospetto di un reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente al sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità per radicamento nel territorio, intensità dei collegamenti personali e forza intimidatrice; vincolo che solo la misura più severa risulterebbe, nella generalità dei casi, in grado di interrompere» (C. cost. 26.3.2015, n. 48, con riferimento in questo caso al concorrente esterno). In definitiva, a determinare il rilevato “vulnus” costituzionale è l’ontologica impossibilità di avvalersi dei dati di esperienza generalizzati valevoli per l’associato, nell’indagine cautelare di un soggetto che, per definizione, associato non è. Tale ordine di considerazioni, alla luce del principio di uguaglianza consacrato nell’art. 3 Cost., dovrebbe funzionare da monito per il legislatore e per l’interprete, al fine di evitare quelle diffuse operazioni di trasposizione di soluzioni escogitate per la partecipazione, alle contigue ma diverse fenomenologie criminose gravitanti intorno al contesto mafioso.
Fonti normative
Artt. 416 bis.1 e 416 bis c.p.; artt. 7, 8 e 13 d.l. 13.5.1991, n. 152, convertito con l. 12.7.1991, n. 201; artt. 4 bis, co. 1 e 1-bis, 41 bis, 58 ter, 58 quater, l. 26.7.1975, n. 354; artt. 51, co. 3-bis, 275, co. 3, 295, co. 3-bis, 303, co. 1, lett. a), n. 3 e lett. b), n. 3-bis, 304, co. 2, 328, co. 1-bis, 371-bis, 406, co. 5-bis, 407, co. 2, lett. a), n. 3, c.p.p.
Bibliografia essenziale
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