DATI, Agostino
Nacque a Siena da Niccolò e da Angela ai primi del 1420.
Il D. risulta infatti battezzato il 18 febbr. 1420 (Arch. di Stato di Siena, Biccherna 1132, c. 384v); la famiglia, appartenente alla borghesia raccolta nel Monte del Popolo, era di condizioni piuttosto agiate, come testimoniano i possedimenti che essa aveva nel contado senese e soprattutto a Pienza. Del padre Niccolò sappiamo che fu letterato e giurista; della madre Angela risulta soltanto che dette al marito oltre venti figli.
Assecondato dal padre, che lo considerava dotato di particolari attitudini per le lettere, il D. si affermò negli studi e in modo speciale nella conoscenza dei latino, che perfezionò sotto la guida di Francesco Filelfo, professore a Siena dal 1434 al 1438.
Secondo la testimonianza del figlio del D., Niccolò (De laudibus eloquentiae), il Filelfo avrebbe affermato che il D. era stato di gran lunga il più dotto dei suoi scolari senesi, e che era solito chiamarlo "balbus" a causa di un difetto di pronuncia che il D. poi riuscì a vincere perfettamente così come era riuscito a fare Demostene. Alla conoscenza del latino, il D. aggiunse presto anche quella del greco e dell'ebraico; vasti e approfonditi, come dimostrano i continui riferimenti delle sue opere, e come egli stesso solennemente afferma in un passo del De connubiis sanctorum, furono anche i suoi studi sulle sacre lettere.
L'estendersi rapido della sua fama e della sua dottrina fu certamente all'origine dell'invito rivolto al D. nel 1443 dal duca di Urbino, Oddo Antonio da Montefeltro, a recarsi in quella città ad insegnare lettere, con l'offerta di favorevoli condizioni. L'invito fu accettato e il D. trovò buona accoglienza nella nuova dimora e presso il principe, anche se là non gli mancarono contrasti con alcuni uomini di corte. Ma già il 22 luglio 1422 il duca Oddo Antonio veniva ucciso in un tumulto popolare; in quell'occasione anche il D. corse pericolo di vita e a stento si salvò rifugiandosi in una chiesa.
Egli passò quindi al servizio del fratello dell'ucciso, Federico III, per il cui insediamento pronunciò un solenne discorso. Ma di lì a poco il D. rientrava in patria, dopo quasi due anni di assenza, né volle ritornare ad Urbino, nonostante che di là ricevesse inviti e promesse. P, incerto se successivamente egli sia stato ad insegnare per qualche tempo in Sicilia; è sicuro invece che si recò a Roma, invitato da papa Niccolò V, come "magister pontificiarum epistolarum". Ma anche questa permanenza a Roma fu breve, perché il D. preferì tornare poco dopo a Siena, rifiutando le insistenze del papa perché rimanesse presso di lui. A Siena apri una scuola di retorica: illustrando le opere di oratori e poeti classici prese la consuetudine di tenere prolusioni al corsi di lezione. Ne rimangono, ad esempio, sulle commedie di Terenzio, su opere di Cicerone, di Virgilio, di Valerio Massimo.
L'insegnamento del D., secondo quanto è lecito dedurre dagli scritti a noi pervenuti, era animato dall'impegno di inculcare nei giovani l'aspirazione ad un elevamento culturale e spirituale, oltre a quello di fornire le norme di un linguaggio perfetto sulla base dell'imitazione dei classici. La rilevante quantità delle sue opere, e in particolar modo le orazioni e le lettere, testimoniano non solo una costante attività negli studi letterari e filosofici, ma anche una non indifferente occupazione forense e frequenti interventi di carattere politico ed amministrativo. Inoltre la padronanza del D. nel campo delle conoscenze bibliche gli procurava anche l'incarico, affidatogli dall'arcivescovo Francesco Todeschini-Piccolomini, di leggere e spiegare, lui non ecclesiastico, testi delle Sacre Scritture. Oratore facondo, il D., secondo il figlio, fu anche predicatore ammirato del Vangelo; certo dell'arte oratoria il D. si servì nelle più diverse occasioni: nelle solennità religiose, nei funerali di illustri cittadini, nei passaggi da Siena di grandi personaggi, giacché - come afferma il figlio nel De laudibus eloquentiae - i suoi concittadini sapevano che egli era preparato e pronto a parlare, in latino e in volgare, su qualunque argomento per il quale occorresse un oratore.
Il D. si rivolse anche all'attività politica e amministrativa. Dal 1458 tenne la pretura di Massa per più anni; vari incarichi amministrativi ricoprì in Siena, dove aderì alle "partes populares" e s'impegnò per riportare la pace fra le fazioni cittadine; nel bimestre novembre-dicembre 1460 raggiunse la suprema magistratura della Repubblica. Nel 1462 (e forse anche altre volte) fu inviato ambasciatore al papa Pio II a Roma. Ma l'incarico pubblico più importante ricoperto fin dal 1452 dal D. fu quello di cancelliere della Repubblica: un incarico non politico e che non si esplicava nel governo diretto dello Stato, ma nel curare in bello stile latino la corrispondenza politica e ufficiale. Però la posizione che il D. in tal modo veniva a ricoprire nell'ambito della vita pubblica lo teneva a diretto contatto coi responsabili delle vicende politiche del suo tempo, soprattutto di Siena e della Toscana, sicché i suoi scritti storici - su Siena e su Piombino - rivestono notevole importanza per la sicurezza delle loro testimonianze.
Negli ultimi anni il D. si dedicò ancor più agli studi sacri ed accentuò il suo impegno di maestro e guida morale dei giovani: il De immortalitate animae, che compose inserendosi nel vivace dibattito umanistico intorno all'anima umana e al suo destino, sarebbe da collocarsi proprio nell'ambito di questo maggiore impegno spirituale e religioso. Ma proprio mentre era intento a quest'opera fu colpito dalla peste che investì Siena nel 1478, e dopo soltanto tre giorni di malattia morì l'8 aprile di quello stesso anno.
A trentacinque anni, il D. aveva sposato Margherita Petrone, dalla quale ebbe tre figli: Niccolò, Igino (morto all'età di otto anni), Teodora (chiamata talvolta dal padre "Lepidula", che poi entrò in un convento a Napoli).
Gli scritti dei D. incontrarono subito una notevole fortuna, non solo in Italia, che perdurò per qualche tempo anche dopo la sua morte, e che è da attribuire alla vastità delle conoscenze che in essi si rivela, alla pluralità e all'attualità dei vari argomenti trattati, infine allo.stile letterario piano e maieme solennemente retorico. Fra queste opere, in particolare, le Elegantiòkw ebbero un successo editoriale, superiore a quello di qualsiasi altro manuale scolastico italiano del Quattrocento. Per l'interessamento della moglie Margherita, il figlio Niccolò provvide alla raccolta degli scritti patemi, spesso però pervenutigli già in forma. Niccolò non dispose le opere secondo la loro successione cronologica, ed intervenne di frequente su di esse sia per dare alcune indicazioni illustrative, sia per eliminare alcuni passi ritenuti non più opportuni. La raccolta fu pubblicata, col titolo Opera, prima a Siena nel 1503 a cura di Girolamo Dati, nipote di Niccolò, che morì nel 1501, e in seguito a Venezia nel 1516. Essa contiene certamente la stragrande maggioranza degli scritti del D., ma non tutti, abbiamo, infatti, notizie di altri che sono andati perduti, mentre alcuni furono pubblicati separatamente in luoghi e tempi diversi. Comunque le opere dei D. non continuarono a lungo ad essere lette e ricercate, a causa del rapido mutare dei gusti e delle esigenze: in esse, d'altronde, non si riscontrava alcun apporto culturale e spirituale veramente nuovo ed originale. Non a caso, quindi, il Dionisotti ha potuto parlare di e umanesimo all'acqua di rose per definire l'esperienza culturale del Dati.
Gli scritti dei D., a noi pervenuti attraverso la silloge curata dal figlio, possono raggrupparsi in base all'argomento: opere filosofiche, retoriche e storiche, orazioni e lettere. Fra gli scritti filosofici il più importante è il De immortalitate animae. Dopo una prefazione che intende delineare lo sviluppo della trattazione e avvertire che tutto il ragionamento, che ha lo scopo di combattere le idee ereticali del tempo, si baserà sulle testimonianze di filosofi classici e cristiani, il De immortalitate animae avrebbe dovuto svilupparsi per dieci libri: ma alcuni di essi mancano quasi completamente, altri in parte. Nel primo libro sono ampiamente riportate le opinioni di antichi pensatori pagani sull'origine dell'anima; quindi si passa alle opinioni dei cristiani e in particolare di Lattanzio; dal terzo all'ottavo libro sono esposte le opinioni di Alberto Magno, S. Tommaso, s. Bonaventura, e. Bernardino, Socrate, Platone, Aristotele e Cicerone; il nono si diffonde sulle testimonianze che si possono trarre dai poeti; il decimo si occupa della sorte delle anime nell'aldilà con ampie citazioni di vari scrittori classici, da Lucrezio a Omero, da Catone a Seneca: neppure questa parte è finita, ma anche così ciò che resta dei decimo libro è la metà di quanto ci è giunto dell'intera opera. La caratteristica essenziale del De immortalitate animae consiste certamente nella vastità straordinaria delle conoscenze che in esso il D. rivela - particolarmente notevole quella sulle opere medievali - e insieme nell'acume con cui egli sa attingere da tanti autori quanto meglio serve al suo scopo: e tutto egli riesce ad esporre con studiata retorica. Ma l'opera è debole nella sua costruzione e, soprattutto, priva di un qualunque originale apporto di pensiero. Quanto si è detto sugli aspetti generali del De immortalitato anirnao può essere esteso, in sostanza, a tutti gli altri scritti del Dati. Rimanendo ancora fra quelli dei gruppo filosofico, ricordiamo il dialogo De voluptate, che il figlio del D. pubblicò in forma molto ridotta e suddiviso in due parti, mentre pare che all'origine fosse un dialogo continuato fra due personaggi. Il tema è quello dei discordanti pareri degli antichi sul piacere, soprattutto degli epicurei da una parte e degli accademici dall'altra. Ma dalla rievocazione delle più svariate opinioni si spazia all'esame dei vari aspetti del piacere, come, ad esempio, l'etimologia di "voluptas", le specie del piacere, i mali del piacere, e così via.
Vicino al De voluptate è il trattato De vita beata, volto a ricercare il modo con cui gli uomini possano raggiungere la felicità. Sulla base dell'autorità di antichi filosofi, il D. mostra che facilmente gli uomini riescono ad ottenere la felicità se non si inorgogliscono per le cose favorevoli e non si abbattono per le avverse, e vivendo onestamente non temono la morte. In modo speciale si esaminano i e?? commoda che si incontrano nella vita, e quindi alcune affermazioni di Marziale: c'è anzi, da parte del D., uno sforzo per adattare alcune idee dei poeta latino ad una concezione cristiana della vita; né manca un'esortazione al clero a condurre una vita semplice. Il tutto è convalidato da antiche testimonianze greche e latine.
Opera di ispirazione più religiosa e morale che specificamente filosofica è l'opuscolo De septem virtutibus, che trova i suoi motivi ispiratori in testi di diversa natura: libri sacri per la trattazione sulle tre virtù teologali (fra le quali particolare attenzione è rivolta alla carità); scritti filosofici per le virtù cardinali. Lo stesso avviene nell'operetta De sacramentis panis et aquae, divisa in due libri: il primo tratta dell'acqua rievocando i luoghi in cui ne parla la Sacra Scrittura, e dei valori ad essa attribuiti, oscillanti fra virtù e vizio; simile è il procedimento nel secondo libro, che ha per oggetto il pane, e per il quale l'autore si sofferma particolarmente sull'eucarestia. Legato ai testi biblici è anche il breve trattato De connubiis sanetorum, nel quale, partendo da- Adamo e ricollegandosi allo parole di Cristo sull'uomo e la donna che tormano una carne sola, si passa a nevocare le condizioni di mariti famosi, da Noè ad Abramo, a Isacco, e di tanti altri ancora, fino agli apostoli.
Gli scritti retorici del D. sono determinati in generale dal desiderio di insegnare ai giovani, e in primo luogo al figlio Niccolò, a cui più volte l'autore si rivolge, le nonne del bello stile sulla base delle testimonianze degli scrittori latini più diffusi: fra questi tiene sempre il primo posto Cicerone. Ricordiamo in primo luogo gli scritti che più o meno completamente sono stati riportati dal figlio nella raccolta da lui curata e coi titolo da lui fissato. L'Isagogicus libellus, redatto per insegnare come comporre lettere e orazioni, oltre a dare norme sul modo di scrivere, presenta una scelta di "fiores" dalle pagine di Cicerone, di Terenzio e altri scrittori classici. Elaborato dal D. in poco tempo e quindi non con tutta la cura che egli avrebbe desiderato, il libro vide la luce la prima volta nel 1470 a Colonia, stampato da Ulrich Zell insieme con i Praecepta de ordine studendi di Guarino Veronese; ristampato subito dopo a Ferrara nel 1471 da André Belfort, ebbe un'immediata e straordinaria diffusione in tutta l'Europa, raggiungendo, alla fine del secolo XV, più di cento fra edizioni e ristampe (mentre molte altre edizioni ebbe ancora nel secolo XVI), principalmente sotto il titolo Elegantiolae. La massima parte dell'Isagogicus, insieme con altre norme che dovrebbero servire soprattutto ai giovani che s'indirizzano alla poesia, è riportata nel De praeceptis elegantiarum linguae che contiene oltre duecento precetti in gran parte desunti da Cicerone.
Indirizzato al figlio Niccolò è Usagoge de ordine discendi, dove il D. dà consigli sull'arte oratoria e sugli studi relativi: dapprima il discorso è incentrato sull'orazione, i suoi generi, le sue diverse parti; quindi sul piacere della lettura e dello studio, oltre che dei grandi dell'antichità, dei libri sacri e delle opere degli scrittori cristiani, sempre con una straordinaria quantità di riferimenti e di esempi tratti dai più diversi autori.
Il De novem verbis, opuscolo più volte stampato fuori dall'opera omnia (e spesso anche con le Elegantiolae soprattutto a partire dall'edizione veneziana del 1516) e rivolto ai discepoli "più cari", è una dissertazione alquanto polemica nei riguardi dei grammatici e della diversità delle loro opinioni, intorno alla retta interpretazione del significato di nove parole: "manes", "lucus", "bellum", "officium", "parca", "ludus", "ocium", "coeluni", "cumenides". Le maggiori critiche sono rivolte a Prisciano, mentre molto lodato è Lorenzo Valla, che di Prisciano notò gli errori. Come risposta al discepolo Domenico Biliotti, che a proposito di alcuni versi delle Georgiche (I, 299-302) aveva chiesto al D. il suo parere sul significato di "genio" e di "geniale", il D. compose il Tractatusde geniali hieme. Anche questo scritto presenta molti riferimenti al pensiero degli antichi; interessante è, in particolare, quanto è detto sul "genio socratico". Per la sua ispirazione genericamente filologica, a questo trattato si può avvicinare il commento ai primi versi dell'Eneide, nel quale, fra l'altro, dalla trattazione dell'ira di Giunone si passa a parlare dell'ira del vero Dio secondo le tesi di Agostino e di Lattanzio.
Il Flosculorum liber, infine, è una raccolta, compiuta da Niccolò, di sparse annotazioni del padre su diverse questioni e parole: in ordine alfabetico si illustrano centotrenta termini riguardanti le più diverse cose e persone. Una raccolta miscellanea sono anche i tre Libri stromatum, di cui solo il primo è integro, il secondo manca completamente e il terzo manca in gran parte; in tutto abbiamo una quarantina di capitoli che, con ricercatezza straordinaria di riferimenti, trattano delle cose più varie: dai doveri degli uomini all'economia e alla politica, dalla prudenza alla disciplina militare e alle arti. Ma anche qui hanno preminenza i temi letterari e oratori con la rievocazione di grandi uomini antichi divenuti famosi nel congiungere la sapienza con l'eloquenza, come Platone, Demostene, Aristotele e altri ancora.
Gli scritti storici dei D. sono giunti a noi lontani dallaloro completezza e originalità, ma a torto sono stati trascurati ai fini della conoscenza della storia toscana, di Siena e di Piombino in modo speciale. Se, infatti, il compito del D. come cancelliere della Repubblica fu soprattutto quello, come si è detto, di dare, secondo lo stile umanistico, una bella forma alle lettere pubbliche dei governanti, e anche se il D. non aveva doti né esperienze politiche e diplomatiche di vero uomo di Stato, è certo che la posizione da lui a lungo ricoperta al centro delle attività di governo e dei rapporti diplomatici, alimentata anche da numerose amicizie e conoscenze fuori delle mura senesi, gli fornì tutte le opportunità per avere una visione approfondita delle molteplici vicende in cui Siena e la Toscana si trovarono allora implicate: sicché i suoi scritti storici assumono, nonostante molti limiti, il valore di sicura e valida testimonianza:
L'opera storica più importante, dal D. composta per incarico pubblico, è costituita dai tre Libri Senensium Historiarum, che narrano le vicende di dieci anni, dal 1447 al 1457: uno dei periodi più complessi della vita di Siena nel corso del secolo XV. Ma Niccolò, nel pubblicare quest'opera paterna, vi intervenne, come si è accennato, e la svilì per compiacere Pandolfo Petrucci, signore di Siena: e ciò fece sia eliminando i passi in cui veniva criticata la condotta dell'antenato di Pandolfò, Antonio Petrucci, sia intitolando il libro Fragmenta Senensium Historiarum, quasi si trattasse di brani staccati di un'opera mai compiuta e quindi poco valida per una precisa ricostruzione della verità storica. Lo stesso Niccolò nel già ricordato De laudibus eloquentiae parla esplicitamente di questo suo comportamento, considerandolo addirittura meritorio perché la totale narrazione dei vero, a suo giudizio, avrebbe offeso qualcuno. Fortunatamente oltre al testo pubblicato da Niccolò esiste una stesura completa delle Historiae Senenses nel manoscritto Larino, cl. X., 318 (=3521) della Bibl. Marciana di Venezia. Dopo una breve prefazione, in cui si espongono i propositi e i metodi del racconto, e dopo una rapida rievocazione delle lodi di Siena, il primo libro è incentrato sulla guerra portata da Alfonso d'Aragona in Toscana contro i Fiorentini nel 1447-1448, e culminata con l'assedio di Piombino e l'eroica difesa di Rinaldo Orsini. Il secondo libro racconta, quindi, le vicende del successivo triennio, toccando fatti che vanno oltre i rapporti politici e militari, come il giubileo, l'apoteosi di s. Bernardino, la peste che provocò tante vittime. Molta attenzione è rivolta, anche in questo libro, alle complicate vicende di Piombino, e successivamente alle azioni svoltesi nei territori di Arezzo, di Firenze e di Siena. Molteplici sono anche i fatti narrati nel terzo libro, che abbraccia gli ultimi quattro anni del decennio: dall'assedio di Sorano agli interventi dei papi Niccolò V e Callisto III., alle rovinose lotte cittadine e quindi alla pace e all'elezione di nuovi magistrati. A quest'opera del D. non si può negare accuratezza d'indagine, cura nella disposizione della materia, impegno stilistico; ma non vi mancano digressioni del tutto inutili.
Minore è il valore dell'altro scritto storico del D., la breve Plunbinensis historia, la cui inferiorità deriva probabilmente dal fatto che il testo a noi pervenuto, cioè quello pubblicato da Niccolò, non è l'originario che il D. aveva composto in un primo tempo, su richiesta del cardinale Francesco Todeschini Piccolomini (il futuro papa Pio III), e che era andato smarrito insieme con altri scritti. Il lavoro era stato quindi poi rifatto, ma senza entusiasmo e con notevoli difficoltà perché erano andate perdute anche le fonti documentarie su cui si basava la storia. All'inizio del Poperetta, dopo un'introduzione storico-filosofica, si parla dell'importanza di Piombino in relazione alla Toscana e all'Italia in generale, e quindi della genealogia degli Appiano, signori di quella città, riassumendo, senza precisazioni di date e avvenimenti le vicende fino al 1440.Da quest'anno il racconto procede più particolareggiato, ma sempre molto slegato, con digressioni su fatti non strettamente inerenti alla vita di Piombino. Molto scarsa è anche l'obiettività della narrazione, perché nell'evidente proposito di far cosa gradita ai Piccolomini e ai suoi concittadini in generale, il D. accentua le benemerenze di Siena verso Piombino e i demeriti di Firenze. Con tale metodo il racconto arriva al secondo anno di dominio di lacopo IV, concludendosi col suo matrimonio con Vittoria Piccolomini, avvenuto nel 1475. La Plumbinensis historia evidenzia l'incapacità dell'autore nel penetrare il valore dei fatti storici, la sua mancanza di sintesi critica. la tendenza a mescolare sentenze morali e racconti superstiziosi alla realtà obiettiva. Ma nonostante queste ed altre carenze anche quest'opera ha una certa importanza documentaria.
L'insieme delle orazioni pronunziate o scritte dal D. costituisce una parte essenziale della sua personalità e della sua attività di uomo e di studioso. là, infatti, in questi scritti che il D. fa sfoggio in modo speciale della sua vasta cultura, basata soprattutto sulla padronsanza delle opere classiche, da cui egli continuamente trae motivi, spunti, sentenze, immagini per arricchire così enorme quantità di scritti, nei quali anche la lingua, quasi sempre latina, e lo stile, sempre sostenuto e ricco di eleganze, appaiono modellati sull'oratoria classica. Poco meno di trecento sono le orazioni - comprendendo sotto questo nome, accanto alle orazioni vere e proprie, anche prolusioni e allocuzioni diverse di contenuto e ampiezza - che, in condizioni varie di integrità, sono state raccolte dal figlio nell'Opera, in sette libri sulla base dell'argomento trattato o dei personaggi a cui sono rivolte. Ne ricordiamo le più significative: nel prúno libro, sette molto eleganti che hanno per argomento la filosofia; nel secondo, sei pronunciate in chiese a celebrazione di altrettanti santi; nel terzo, varie che esalta no Siena, la sua storia, i suoi ordinamenti; nel quarto, diverse che glorificano il papa, principi e sovrani; nel quinto, otto orazioni funebri per noti personaggi senesi; nel sesto, un gruppo di allocuzioni pronunciate per fidanzamenti e matrimoni; nel settimo, altre occasionali, specie per l'entrata in carica di nuovi magistrati.
Anche le lettere rivelano la complessità dell'impegno sociale e letterario del Dati. Secondo la raccolta realizzata dal figlio, esse (come le orazioni) sono sistemate in tre libri in base all'argomento o ai destinatari. Il primo contiene circa centocinquanta lettere prive di indicazioni di tempo e di luogo; è da notare che talvolta una stessa lettera compare m duplice esemplare. Varie sono indirizzate a personaggi di rilievo, come papi e cardinali; molte sono di argomento letterario o riguardano comunque aspetti della cultura; altre trattano di argomenti morali; altre ancora sono raccomandazioni. Il libro secondo è costituito da venticinque lettere soltanto, ma in generale molto ampie: anzi, più che lettere vere e proprie, sono di solito dissertazioni su temi culturali o aspetti della vita, come ad esempio il comportamento nell'amore, il miglior sistema di vita, il matrimonio, il valore del tempo, le virtù, il destino, passi di libri sacri. Il libro terzo è la collezione delle lettere che il D. scrisse come cancelliere della Repubblica. Si tratta di circa quattrocentocinquanta missive a pontefici, all'imperatore, a re, ai signori di varie città, a cardinali: sessantacinque al solo cardinale Todeschini-Piccolomini, settanta ai magistrati di Firenze. Non di rado sono scritti importanti, perché costituiscono una fonte diretta della storia di Siena in un vasto arco di anni. Lo stile si sforza sempre di essere elegante e sostenuto.
Il Bandiera, nell'accurata rassegna che fa delle opere del D., accenna anche ad alcune di cui ai suoi tempi si aveva ancora notizia ma che erano andate più o meno completamente perdute, e ad altre che il D. avrebbe avuto in animo di comporre ma che poi non poté realizzare. Sono Orazioni, un elogio di Guarino Veronese, scritti storici (come il De annalibus et commentariis composto per papa Pio II), filosofici (come un De philosophia),letterari (come un De hebraicis litterariis elementis) ed altri ancora; a tutto ciò sarebbero da aggiungere traduzioni dal greco in latino.
Fra quanto era andato perduto e non era stato ricordato dal Bandiera è da segnalare un breve dialogo (conservato presso la Bibl. comunale di Perugia, ms. F- 78) dal titolo Chaerea, centrato sull'incontro di due giovani, e poi di essi con un vecchio saggio, che discutono sull'amore: all'entusiasmo passionale di uno dei due giovani fa da contrapposizione il consiglio del vecchio a rivolgere l'animo a pensien più nobili e meno materiali.
Edizioni: Come già si è detto l'opera omnia del D. fu pubblicata a cura dei figlio Niccolò e poi del nipote di questo, Girolamo, col titolo Opera, a Siena nel 1503 e a Venezia nel 1516. Essa contiene anche, come prefazione, il De laudibus eloquentiae di Niccolò cui si è fatto più volte riferimento. Nei Rerum Ital. Script. muratoriani, XX, coll. 55-64, compaiono anche Adiecta per F. Thomasium ad fragmentum historiae senensis A. Dathi. Edizioni moderne di opere dei D. sono: Super Tullianis eleganciis, Cambridge 1905; Storia di Piombino, a cura di R. Cardarelli, Livorno 1939 (su cui cfr. la rec. di G, Prunai, in Bull. senese di storia patria, X (1939 p. 354); Chaerea, a cura di P. Viti in Letteratura umanistica e tradizione classica. Per Alessandro Perosa, Roma 1985-, pp. 195-222.
Non è possibile dare qui conto delle numerose stampe quattro-cinquecentesche di varie opere del D. (e soprattutto delle Elegantiolae), per le quali si rinvia ai tradizionali repertori: J. C. Brunet, Manuel du libraire, II, coll. 525 s.; L. Hain, Repertorium bibl., I,nn. 5967-6026; Gesamtkatalog der Wiegendrucke, VII, nn. 8032-8138 (che registra anche come ps. D. un., Epistola amoris e una Rhetorica minor, più volte pubblicata); Indice generale degli incunaboli, II, nn. 3332-3377.
Fonti e Bibl.: Circa l'attività pubblica del D.. molte testimonianze sono conservate in fondi diversi dell'Arch. di Stato di Siena: ad esempio Concistoro, Balia, Biccherna, ad annos; Manoscritti A. 11, A. 13, A. 15, A. 30 (che sono raccolte genealogiche sulle famiglie senesi); Famiglie senesi. Particolari 45 (Dati), che fra l'altro raccoglie alcune lettere inviate al D.; i copialettere della sua attività cancelleresca comprendono gli anni 1455 (Balia 396), 1458 (Balia 398), 1478 (Balia 400). Altri documenti anche presso la Bibl. comunale di Siena, ad esempio Manoscritti 204. Cfr. inoltre C. Gesnero, Bibl. instituta et collecta, Tiguri 1583. pp. 90 s.; I. Ugurgieri Azzolini, Le pompe sanesi, I, Pistoia 1649, pp. 552, 628; G. N. Bandiera. De Augustino Dato, Romae 1733; G. Tiraboschi, Storia della letter. ital., VI. Modena 1790, p. 711; D. Moreni, Bibliografia storico-ragionata della Toscana, I, Firenze 1805, pp. 314 s.; C. De Rosmini, Vita di F. Filelfò, III, Milano 1505, p. 12; L. De Angelis, Biografia degli scrittori senesi, I, Siena 1824, pp. 262 ss.; E. Micheli, Storia della pedagogia ital., Torino 1876, pp. 130 ss.; G. Voigt, Il risorgimento dell'antichità classica, Firenze 1888, 1, p. 409; II, pp. 428, 432; A. Baldini, Il primo libro stampato in Ferrara, in Il Bibliofilo, IX (1888), pp. 127-129; A. Rósler, Kardinal Iöhannej Dominicis Erziehungslehre und die übrigen Pedagogischen Leistungen Italiens im M. Yahrh., in Bibliothek der kathol. Pedagogik, VII, Freiburg i. B. 1894, pp. 164-75; L. Zdekauer. Lo Studio di Siena nel Rinascimento, Milano 1894. pp. 73, 94 107, 110-15; A. Della Torre, Storia dell'Accad. platonica in Firenze, Firenze 1902, p. 147; G. Fumagalli, Lexicon typographicum Italiae. Florence 1905, pp. 252 L; R. Sabbadini, Il metodo degli umanisti, Firenze 1920, p. 64; E. Fueter, Storia della storiografia moderna, I, Milano-Napoli 1944, pp. 59 s.; L. De Feo Corso, Il Filelfo in Siena, in Bull. senese di storia patria, XI (1940), pp. 24-28; G. Saitta, Il Pensiero italiano. I, L'Umanesimo, Firenze 1960, pp. 365-68; E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze 1961, pp. 108-11; Id., La letteratura degli umanisti, in Storia della letteratura italiana, III, Milano 1966, pp. 118, 231; G. Múller, Bildung und Erziehung im Humanismus der italienischen Renaissance, Wiesbaden 1969, pp. 49-52 e Passim; C. Dionisotti, L Tolomei fra umanisti e rimatori, in Italia medioevale e umanistica, VI (1963), pp. 137. 176; Id., Fortuna del Petrarca nel Quattrocento, ibid., XVII (1974), p. 73; G. Fioravanti, Alcuni aspetti della cultura umanistica senese nel Quattrocento, in Rinascimento, XIX (1979). pp. 117-67 Passim; Id., Pietro de' Rossi. Bibbia ed Aristotele nella Siena del Quattrocento, ibid., XX (1980), pp. 87-156, poi in Università e città. Cultura umanistica e cultura scolastica a Siena nel Quattrocento, Firenze 1991; Inventario dei manoscritti della Bibl. Comunale di Siena, a cura di G. Garosi, II, Firenze 1990, ad Indices; M. E. Cosenza, Biographical and Bibliographical Dictionary of Italian Humanists, II, pp. 1184-87; VI, p. 100; P. O. Kristeller, Iter Italicum, I-II, ad Indices; Repertorium fontium historiae Medii Aevi, IV, pp. 120 s.