BECCARIA, Agostino Maria
Non si sa se il B. possa identificarsi con un Agostino Beccaria che, intorno al 1450, ottenne in feudo dal duca di Milano il paese di Tromello; più probabile è la sua identificazione con quell'Agostino Beccaria che fu nominato da Galeazzo Maria Sforza, il 1º genn. 1472, podestà di Gambolate, carica rinnovatagli sino al 1477.
Il B. apparteneva al ramo di Pavia della sua famiglia. La prima notizia sicura a lui relativa risale al 1499, allorché fu designato da Ludovico Sforza come successore di Cesare Guaschi nella carica di residente milanese a Siena; il Guaschi sarebbe passato a sua volta a rappresentare il duca di Milano presso Alessandro VI, proprio nel momento in cui si stringeva l'accordo tra la Sede apostolica e Luigi XII ai danni del ducato di Milano. Il B. assumeva dunque il suo ufficio in una situazione assai delicata; egli tuttavia, nella crisi politica che portò all'insediamento dei Francesi in Lombardia, certamente ebbe un ruolo secondario, relegato come fu a rappresentare il proprio signore presso uno degli Stati che minore influenza ebbero nel determinare lo svolgimento degli eventi: questo però fu appunto il risultato sfortunato della missione del B. nei pochi, drammatici mesi nei quali egli rimase nella città toscana. Le relazioni tra Ludovico Sforza e la Repubblica di Siena, o meglio con il signore effettivo della città Pandolfo Petrucci, erano state sempre improntate alla più grande cordialità. Il compito che il Moro affidò al B. fu appunto quello di indurre il Petrucci a tradurre tale cordialità in un impegno politico preciso a sostegno del dominio sforzesco, contro gli accordi che ai danni di questo venivano presi tra il re di Francia, il papa e la Repubblica di Venezia.
Certamente non fu per scarso impegno del diplomatico pavese se questo risultato non fu ottenuto. Il B. anzi dimostrò, nel periodo durante il quale rimase a Siena, un esemplare attaccamento alla causa pericolante del suo padrone, fu zelante ed accorto osservatore, sempre attento a cogliere l'occasione favorevole per chiarire a vantaggio di Ludovico la situazione e a riferire le notizie che pervenivano a Siena sulle iniziative franco-pontificie, così da permettere adeguate risposte da parte del duca. Ma una decisa presa di posizione dei Senesi in difesa del Moro gli apparve presto assai problematica. Scriveva infatti il B. allo Sforza il 22 ag. 1499 che i Senesi gli sembravano "molto alienati e... suspesi. Né demostrano estimare come solevano chi tiene loco qui per epsa V.ra Ex.tia, credendosi che le cose sue debano andare male. E però mi pare significarli che tanto tengono conto de lo amico, quanto ne possono sperare o cavare fructo, e quanto vedono che si sta in favore; e de questi Pandolpho ne è uno" (Pélissier, Quelques documents..., p. 292).
In effetti la freddezza dei Senesi aumentava in proporzione dei progressi dell'esercito invasore di Gian Giacomo Trivulzio; tuttavia il B. non rinunziava ai suoi tentativi, spingendosi sino a divulgare informazioni politiche e militari addomesticate per indurre il Petrucci a prendere posizione in favore del duca. Erano, naturalmente, ben miseri accorgimenti: la situazione dello Sforza appariva ormai chiaramente compromessa e Pandolfo era certamente uomo troppo accorto per lasciarsi ingannare dalle astuzie diplomatiche del Beccaria. Il B. però continuava a coltivare speranze che erano addirittura commoventi per la loro palese fragilità. Così al principio di agosto era venuto in contatto con un "maestro Emanuele, portugalese, frate conventuale de Sancto Francesco", il quale, vantando potenti conoscenze alla corte dei re cattolici e non poca influenza presso gli stessi sovrani, offriva i propri servigi al duca di Milano: "crederia fare qualche bono fructo per epsa Ex.tia V.ra contro lo inhonesto appetito e furia de Francesi", come riferiva allo Sforza; ma era poi egli stesso ad avanzare qualche dubbio sulla buona fede del frate, evidentemente desideroso delle sovvenzioni ducali per raggiungere i lidi natii: "però vorria el modo di potere andare" (ibid., p. 290).Non maggiore consistenza e possibilità di risultati favorevoli allo Sforza ebbero, alla fine di agosto, i contatti del B. con il legato pontificio cardinale Borgia, di passaggio per Siena. Riferiva il B. che il Borgia lo aveva assicurato "che li dolevano assai li travaglii in li quali intendeva che la V.ra Celsitudine era et che la Santità de N. S. lo mandava a Venetiani per vedere de fare cessare le arme, fare pace o almanco tregua, massime per questo anno sancto...". E tuttavia queste notizie confortanti, che avrebbero potuto lasciar sperare in un riavvicinamento tra Alessandro VI e il duca di Milano, venivano subito smentite dallo stesso B., il quale era costretto ad aggiungere che "da altri de li suoi [del Borgia] de grandissima auctorità cum li quali ho parlato a lungo secretamente, mi è facto intendere la sua andata essere tutta per fare contrarii effecti e per tener firmi Venetiani in la dispositione che sono stati fin qui cum Francesi" (Pélissier, Notes italiennes d'histoire de France, pp. 392 s.).
Il 10 settembre si seppe a Siena della pace stipulata tra Massimiliano d'Asburgo e gli Svizzeri. Sembrò allora che l'imperatore, libero da altri impegni militari, potesse e dovesse scendere in Italia a contrastare il passo ai Veneziani ed ai Francesi. A questa notizia il Petrucci e gli altri maggiori esponenti del governo della Repubblica si abbandonarono a plateali manifestazioni di solidarietà, con lo Sforza e con il B., il quale, pur consapevole ormai di quanto si potesse fare assegnamento su simili testimonianze di amicizia, raccoglieva la loro esortazione al duca di Milano affinché richiedesse al più presto l'intervento in Italia dell'imperatore: "perché giudicano che la venuta sua sarà causa de la universale quiete e salute de Italia" (ibid., p. 393).
Nella nuova situazione che la pace tra Massimiliano e gli Svizzeri apparentemente prospettava il B. si incontrò nuovamente con il cardinale Borgia, il quale rinnovò le sue proteste dell'inclinazione di Alessandro VI alla pace, "purché la Beatitudine sua possa assicurarsi che ad Valenza [Cesare Borgia] sia dato conveniente stato del quale intende che sia cosa honesta; e volendo io intendere - riferiva il B. a Ludovico - più ultra de la sua voluntà, mi disse che quando fusse di 16 in 20milia ducati si contentaria...". Erano le ultime, intempestive illusioni ed il B., pur commentando "io fo conjectura che parli de core, e che sii per fare assai in beneficio de la Celsitudine Vostra" (ibid., p. 394), chiedeva al duca di essere richiamato a Milano. Ma ormai il congedo del diplomatico pavese non dipendeva più dallo Sforza, come da lui non dipendeva nessun atto di sovranità: attaccato dall'esercito francese e dalle milizie veneziane, il Moro si rifugiava presso il genero Massimiliano d'Asburgo, abbandonando il ducato.
Il governatore provvisorio di Milano richiamò allora il B. insieme con gli altri diplomatici sforzeschi. Ma il B. non tornò a Milano: lasciata Siena, si rifugiò con la propria famiglia a Mantova. Egli seguì così la sorte riservata dal nuovo governo del ducato ai fuorusciti sforzeschi: i suoi beni furono sequestrati e le rendite, calcolate in 300 ducati, furono assegnate in parte alla Camera ducale ed in parte al cavaliere francese M. de Ravastain.
Non si sa se il B. partecipasse al tentativo operato da Ludovico il Moro con l'alleanza degli Svizzeri nel 1500 per riacquistare il possesso del ducato: è comunque probabile che fosse la sconfitta subita dallo Sforza a Novara nell'aprile di quell'anno ad indurre il B. ad entrare al servizio del marchese di Mantova Francesco Gonzaga. Questi negli anni seguenti impiegò il fuoruscito milanese in numerose missioni diplomatiche. Nel dicembre del 1502, secondo quanto riferisce il Sanuto, il B. fu inviato dal Gonzaga a Venezia per offrire alla Repubblica cento uomini d'arme mantovani, ma "fo ringratiato, dicendo non esser tempo", e un'analoga missione gli fu affidata nel febbraio dell'anno successivo. Nel 1504 il Gonzaga lo nominò podestà di Mantova, ma egli esercitò la carica per assai breve tempo poiché nello stesso anno fu nuovamente inviato in missione diplomatica dal marchese, questa volta alla corte imperiale.
Non è troppo chiaro l'atteggiamento politico del B. in questo periodo, in cui era opinione generale che Massimiliano andasse preparando una spedizione in Lombardia contro i Francesi; lo stesso ruolo di ministro del Gonzaga è difficilmente conciliabile con le simpatie politiche del B., giacché il marchese di Mantova inclinava verso il partito francese: cosicché l'informazione del Sanuto (Diarii, V, col. 856) secondo cui il B. fu inviato nel 1504 presso l'imperatore (per conto, a quanto pare, non soltanto del Gonzaga, ma anche di Alfonso I d'Este, duca di Ferrara), "con presenti di comestibili al re [Massimiliano] e la raina; e questo per intender la soa andata a Roma, e poter, avisando Mantoa e Ferara, notificharlo a Franza", deve essere probabilmente valutata come una interpretazione delle intenzioni del Gonzaga e dell'Este, i quali si sarebbero semmai serviti dell'opera non sospetta del fuoruscito milanese per rimanere al corrente delle intenzioni della corte imperiale e così regolare la propria politica filofrancese; al di là delle intenzioni, invece, dello stesso B., il quale è credibile che comprendesse ciò che ci si aspettava da lui e ciò nonostante ritenesse utile alle proprie opposte speranze politiche di rimanere presso l'imperatore in una veste ufficiale.
In ogni caso il B., che dalla corte imperiale, dove rimase finché abbiamo notizie di lui (salvo una breve parentesi a Bologna nel 1506), corrispondeva non soltanto con il Gonzaga, ma anche, a quanto pare ufficialmente, con il governo fiorentino, non fa che vantare la potenza dell'imperatore ed auspicare un suo intervento nelle cose italiane, sino a che, quando apparve certo che gli Imperiali intendevano marciare su Milano, finì per identificare la propria causa con la loro. Così, scrivendo il 27 luglio 1507 a Pier Soderini, dopo che alla dieta di Costanza si era concluso un accordo tra la Baviera e il Palatinato che restituiva la pace alla Germania e quindi permetteva piena libertà all'imperatore di intervenire in Italia, affermava che vane erano le speranze di coloro che credevano Massimiliano sempre troppo impegnato nelle cose dell'impero, giacché "per la mia fede, ingannano molto forte, e questa ignorancia ne farà capitar mal alcuno. Io dico che la Maestà Sua non solo ze amata et obedita da tutti tutti li principi et terre franche, ma adorata et ogni zorn se ne vedano li effecti" (Rubinstein, p. 153). E il 23 ottobre dello stesso anno scriveva da Innsbruck ad un esponente della corte di Mantova (e qui pare di cogliere un suo preciso avvertimento al marchese Francesco): "qui si fanno apparati non che di recuperare el Stato di Milano, ma di vincere el mondo... Veneremo senza fallo alcuno e vinzaremo" (cfr. Franceschini).
Dopo questa data non si hanno più notizie del Beccaria.
Fonti e Bibl.: M. Sanuto, Diarii, II, Venezia 1879, col. 561; IV, ibid. 1880, coll. 555, 687, 709, 712; V, ibid. 1881, coll. 781, 856; L. G. Pélissier, Documents pour l'histoire de la domination française dans le Milanais (1499-1513), Toulouse 1891, p. 145; Id., Sopra alcuni documenti relativi all'alleanza tra Alessandro VI e Luigi XII (1498-1499) in Arch. d. R. Soc. romana di storia patria, XVIII(1895), pp. 144-150; Id., Louis XII et Ludovic Sforza (8 avril 1498-23 juillet 1500), I, Paris 1896, pp. 233, 234, 325, 488; Id., Notes italiennes d'histoire de France. A. M de B. ambassadeur milanais à Sienne..., in Bullettino senese di storia patria, IV(1897), pp. 390 394; Id., Quelques documents pour l'histoire d Sienne…, ibid., VII(1900), pp. 288-293; C. Santoro, Gli uffici del dominio sforzesco (1450-1500), Milano 1948, p. 360; G. Franceschini, Le dominazioni francesi e le restaurazioni sforzesche, in Storia di Milano, VIII, Milano 1957, p. 103; N. Rubinstein, Firenze e il problema della politica imperiale al tempo di Massimiliano I, in Archivio stor. italiano, CXVI(1958), p. 153.