ROCCA, Agostino
– Nacque a Milano il 25 maggio 1895 da Giuseppe, ingegnere della Società ferrovie dell’Alta Italia, e da Enrichetta Sismondo (figlia di Filippo, tenente generale, senatore e comandante dell’Arma dei carabinieri fra il 1904 e il 1908); fu il terzo di quattro figli: Elisa (nata nel 1892), Carlo (1893-1903) ed Enrico (nato nel 1898).
La famiglia paterna, originaria di Loano, nel Ponente ligure, svolse attività armatoriale e mercantile nel Mediterraneo fino all’ultimo quarto del XIX secolo.
Nel 1908 il padre, dal 1905 alle Ferrovie dello Stato, divenne capodivisione del dipartimento di Reggio Calabria e quando il 28 dicembre 1908 il terremoto distrusse la città vi perse la vita insieme alla moglie, mentre Agostino, Enrico ed Elisa rimasero illesi.
Rocca visse con il nonno materno, studiando prima a Roma e poi, nel 1909, ad Asti. Nel 1910, al termine del ginnasio, proseguì gli studi liceali al Collegio militare di Roma e nel 1913, dopo la maturità, entrò all’Accademia militare di Torino.
In quegli anni perfezionò la propria formazione intellettuale. Si abbonò a La Voce, apprezzandone l’approccio anticonformista e le battaglie d’avanguardia. Come molti altri giovani della sua generazione simpatizzò con il movimento nazionalista, non condividendo lo stile di governo di Giovanni Giolitti.
Dopo l’intervento dell’Italia in guerra divenne sottotenente d’artiglieria. Nel dicembre del 1915 fu inviato in Albania, ma alla fine del 1916 rientrò in Italia, assegnato alla linea del fronte di Gorizia. Dopo Caporetto fu dislocato nella zona del monte Grappa e nella primavera del 1918 ottenne il trasferimento negli arditi. Terminò il conflitto con il grado di capitano e fu decorato con una medaglia d’argento al valore e due croci di guerra. Fu poi dislocato in Libia e nell’autunno del 1919 sul confine con la Iugoslavia. Alla fine dello stesso anno chiese di essere posto nel ruolo degli ufficiali ausiliari e raggiunse Milano dove, nell’estate del 1917, si era iscritto al Politecnico per completare gli studi.
Si laureò ingegnere industriale nel maggio del 1921, mese in cui sposò Maria Queirazza, figlia di un dirigente della Banca commerciale italiana; dal matrimonio nacquero Anna Maria e Roberto. Nell’agosto del 1922 fu assunto alla Dalmine (costituita come Società anonima tubi Mannesmann a Milano il 27 giugno 1906, divenuta nel 1920 Società anonima stabilimento di Dalmine, controllata dalla Banca commerciale italiana, per produrre tubi d’acciaio senza saldatura). Il 1° dicembre 1923 decadde definitivamente dal ruolo degli ufficiali effettivi e aderì al Partito nazionale fascista.
Alla Dalmine divenne ingegnere capo nel 1925. Si distinse come innovatore tecnologico, approfondendo la più recente letteratura internazionale e compiendo numerosi viaggi di studio all’estero e, in particolare, in Germania e negli Stati Uniti, Paesi di cui ammirava la razionalizzazione produttiva e l’organizzazione manageriale delle imprese industriali.
Giuseppe Toeplitz lo volle all’ufficio tecnico-industriale della Banca commerciale italiana, ma la svolta decisiva della carriera di Rocca coincise con il suo ingresso nella Società finanziaria industriale italiana (Sofindit), la finanziaria (creata nel 1923) che rilevò le partecipazioni azionarie della banca dopo la grande crisi del 1929, ove curò la gestione e la ristrutturazione della Terni - Società per l’industria e l’elettricità, della Unione esercizi elettrici (Unes) e della Società idroelettrica piemontese (SIP).
Quando nel 1933 l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) incorporò la Sofindit, entrò a far parte di quella nuova holding pubblica, e fu, dapprima, consigliere d’amministrazione e componente del comitato direttivo della Dalmine, poi, nel 1935, amministratore delegato della stessa società nonché dell’Ansaldo e della nuova Società italiana acciaierie di Cornigliano (SIAC). Nel 1934 divenne segretario del Comitato tecnico per lo studio dei problemi della siderurgia bellica speciale, ove sostenne le concezioni di Oscar Sinigaglia, dal 1932 presidente dell’Ilva, secondo il quale il settore doveva essere radicalmente riorganizzato puntando sulla produzione di acciaio a ciclo integrale e sull’aumento delle dimensioni degli impianti. Il piano si arenò sia per le resistenze all’interno dell’Ilva sia per l’opposizione degli industriali privati, guidati da Giovanni Falck, e così, nel marzo del 1935, Sinigaglia si ritirò a vita privata.
Il progetto fu rilanciato dopo che il 23 marzo 1936 Benito Mussolini varò «il piano regolatore della nuova economia italiana», in cui aveva delineato i punti fondamentali dell’autarchia. Sostenuto da Alberto Beneduce e Donato Menichella, Rocca convinse Mussolini ad avviare la siderurgia a ciclo integrale sia perché la concentrazione in pochi grandi impianti avrebbe razionalizzato la produzione e ridotto gli sprechi e i costi, in linea con l’indicazione del duce di creare nell’industria pesante «grandi unità», definite «industrie-chiavi», sia perché così l’Italia si sarebbe affrancata dall’estero per l’approvvigionamento del rottame (Opera omnia di Benito Mussolini, 1959, pp. 244 s.).
Nel 1937 l’IRI divenne un ente permanente e per il coordinamento tecnico delle imprese siderurgiche pubbliche, nonché per la raccolta tramite obbligazioni delle risorse necessarie per gli investimenti, fu costituita la Società finanziaria siderurgica (Finsider), di cui Rocca fu nominato direttore generale. Da questa carica si dimise quando il programma siderurgico fu ridimensionato dal presidente dell’IRI, Francesco Giordani, che nel novembre del 1939 aveva sostituito Beneduce.
Nel maggio dello stesso anno Rocca era stato eletto alla Camera dei fasci e delle corporazioni.
Durante la seconda guerra mondiale ebbe accesi scontri con i vertici dell’IRI perché riteneva che, mantenendo in vita anche gli impianti più obsoleti, non si stesse facendo abbastanza per migliorare la produttività e contenere i costi; denunciò così ripetutamente le carenze del sistema di pianificazione della produzione bellica, sottolineando la mancanza di un «piano organico» e di un vero e proprio «comando unico» (Roma, Archivio centrale dello Stato, ASIRI, Serie nera, b. 30, La produzione bellica e le assegnazioni di materiale, 24 agosto 1942). Nel marzo del 1941 abbandonò i consigli di amministrazione di Finsider, Terni, Ilva e SIAC e si concentrò sulla gestione dell’Ansaldo e della Dalmine.
Nei quarantacinque giorni del governo Badoglio presentò un programma dell’Ansaldo per il dopoguerra (Serie rossa, b. 435, Ansaldo. Relazione su attività postbellica, 20 agosto 1943) e, «a scopo di cultura e informazione», fece pubblicare e diffondere all’interno dell’impresa la Costituzione dell’Unione Sovietica, non celando la sua ammirazione per i grandi stabilimenti siderurgici costruiti dai sovietici e sottolineando come all’interno del sistema produttivo il Partito comunista esercitasse una «disciplina di ferro» (MI, DGPS, DAGR, Segreteria del capo della polizia RSI, b. 49, f. 945, Ansaldo Dic/Stu, segnalazione n. 107, 27 agosto 1943).
Nel novembre del 1943 rifiutò la carica di ministro della Produzione bellica della Repubblica sociale italiana offertagli da Mussolini. Nella lettera in cui comunicava tale sua decisione denunciò che neanche il regime fascista aveva risolto la grande «indisciplina» – caratteristica dell’industria italiana – che aveva ostacolato la «razionalizzazione della produzione, dei concentramenti industriali, dell’accentramento di comando, della messa in comune di brevetti e procedimenti e del trasferimento di macchine e tecnici da uno stabilimento all’altro» (SPD, RSI, b. 15, f. 70, Rocca a Graziani, 6 novembre 1943). I fascisti repubblicani lo arrestarono nella primavera del 1944, ma dovettero rilasciarlo in seguito all’immediato intervento dei tedeschi.
Fece quindi parte di un comitato per la riconversione nel dopoguerra, istituito segretamente dall’IRI. Durante l’occupazione tedesca cercò di garantire almeno una parziale continuità della produzione e si adoperò per impedire la distruzione degli impianti da parte delle truppe germaniche, avviando contatti con i partigiani. Il suo carisma come capo d’impresa restò intatto agli occhi delle maestranze perché, al di là delle divergenze ideologiche, gli riconoscevano di aver garantito, oltre alla sopravvivenza degli stabilimenti, anche l’assistenza sociale e il sostentamento agli operai e alle loro famiglie.
Il 27 aprile 1945 il nuovo prefetto di Milano, Riccardo Lombardi, firmò un mandato di arresto a suo carico, ma Rocca scampò al carcere nascondendosi in una casa privata finché quel provvedimento non venne ritirato (fu prosciolto il 5 febbraio 1946).
Nell’estate del 1945 scrisse a Sinigaglia (chiamato alla presidenza della Finsider), esplicitando la propria filosofia industriale: l’Italia non avrebbe mai potuto divenire un Paese siderurgico moderno con «mentalità nazionalistica» per la scarsezza delle materie prime e le ridotte dimensioni del mercato interno e avrebbe quindi dovuto integrarsi in una più vasta area economica che comprendesse il Nord Europa e l’Africa settentrionale; solo lo Stato avrebbe potuto attuare questa rivoluzione, in parte già avviata con lo stabilimento a ciclo integrale di Cornigliano, vista l’inadeguatezza della siderurgia privata, «vissuta sempre alle spalle del paese sotto la protezione di altissime tariffe doganali e di consorzi di produzione». La sua disistima verso quella che definiva la «plutocrazia italiana» (Roma, Archivio centrale dello Stato, ASIRI, Serie nera, b. 98, Rocca a Sinigaglia, 7 giugno 1945) era assoluta, e ne stigmatizzava le subdole manovre politiche utilizzate per opporsi alla logica economica del suo piano.
Il programma avrebbe dovuto essere realizzato dalla Finsider. Auspicava che l’IRI fosse conservato e sperava anzi che assorbisse tutti gli enti dello Stato, come l’Azienda generale italiana petroli (AGIP), salvaguardandone però la natura privatistica della gestione industriale, così come era stata congegnata dai suoi ideatori, escludendo assolutamente qualsiasi intromissione della burocrazia pubblica. Il potenziamento della siderurgia avrebbe altresì rafforzato la capacità dell’industria meccanica di competere all’estero. L’ultima raccomandazione era quella di proseguire nell’opera di formazione di un nuovo tipo di manager industriale visto il «basso livello dei dirigenti italiani [...] tecnico [...] generale e organizzativo» (Rocca a Sinigaglia, 21 giugno 1945).
Fu un convinto «corporatista». La sua idea del rapporto tra Stato e capitalismo era affine a quella di Walther Rathenau: come lui concepiva un’economia di piano mista, penetrata da una volontà di solidarietà sociale. Fulcro ne sarebbe stata la moderna grande impresa industriale, pubblica e privata, la cui redditività, frutto della crescente efficienza, oltre a rafforzarne la gestione, sarebbe stata in parte indirizzata verso un dividendo collettivo che avrebbe assicurato l’armonia nazionale. Pur non condividendo l’idea della socializzazione delle aziende, perché avrebbe dissolto l’iniziativa e il rischio d’impresa individuali, essenza dello spirito capitalistico, era favorevole all’istituzione di forme di consultazione dei lavoratori per accrescerne la cooperazione e incentivarne il senso di responsabilità.
Nel novembre del 1945 aveva fondato a Milano la Compagnia tecnica internazionale (poi Techint, in Argentina dal 1947) per progettare, costruire e montare impianti industriali basati «su progetti italiani e a mezzo di tecnici» nazionali in patria e all’estero (Rocca a IRI, 6 novembre 1945). Si offrì come intermediario in Sudamerica per l’Ufficio sviluppo esportazione (USE), creato nella primavera del 1946 dall’IRI e dalla FIAT per promuovere le vendite all’estero dei rispettivi gruppi, ma le trattative non ebbero esito positivo.
All’inizio optò per il mercato argentino perché offriva opportunità allettanti: proprio in quegli anni il presidente Juan Domingo Peron, ammiratore del corporativismo fascista, concepì il programma di industrializzazione che avrebbe dovuto trasformare l’economia, mediante la pianificazione centralizzata, procedendo alla nazionalizzazione della banca centrale e delle imprese di pubblica utilità, allontanando dal Paese i capitalisti britannici e statunitensi.
Il governo affidò alla Techint la costruzione del gasdotto dalla Patagonia a Buenos Aires, concluso nel dicembre del 1949. In seguito la compagnia costituì una società assieme alla Dalmine (Dalmine-Safta) per fabbricare tubi nello stabilimento di Campana, inaugurato nel 1954. Nel decennio successivo le sue energie furono indirizzate verso una nuova impresa, la Propulsora siderurgica, che avrebbe dovuto avviare la produzione di acciaio a ciclo integrale. Techint diversificò la propria attività verso altri Paesi dell’America Latina, come Messico e Brasile (Dino Grandi ne fu inizialmente a capo della filiale), e anche nel resto del mondo.
Nel 1966 venne nominato cavaliere del lavoro. Nel novembre del 1968 cedette la presidenza effettiva per assumere quella onoraria, che abbandonò nel novembre del 1975.
Morì a Buenos Aires il 17 febbraio 1978.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, ASIRI, Serie Nera, bb. 24, 30, 53, 95, 98, 112, 113. Si vedano inoltre la documentazione d’archivio e le pubblicazioni relative anche alle attività estere di Rocca conservate presso la Fondazione Dalmine. Opera omnia di Benito Mussolini, a cura di E. Susmel - D. Susmel, XXVII, Dall’inaugurazione della provincia di Littoria alla proclamazione dell’Impero (19 dicembre 1934 - 9 maggio 1936), Firenze 1959, pp. 244 s.; L’Archivio di A. R. Inventario, a cura di S. Martinotti Dorigo - P. Fadini Giordana, in Annali, 1977, vol. 11, pp. 295-653; Acciaio per l’industrializzazione. Contributi allo studio del problema siderurgico italiano, a cura di F. Bonelli, Torino 1982, ad ind.; L. Offeddu, La sfida dell’acciaio. Vita di A. R., prefazione di I. Montanelli, postfazione di G. Malagodi, Venezia 1984; P. Rugafiori, A. R. (1895-1978), in I protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, a cura di A. Mortara, Milano 1984, pp. 383-403; C. Lussana, 1946: la prima frontiera. Dalla corrispondenza argentina di A. R., Dalmine 1999; Storia dell’Ansaldo, a cura di G. De Rosa, VI, Dall’IRI alla guerra. 1930-1945, Roma-Bari 1999, ad ind.; Storia dell’IRI, I, Dalle origini al dopoguerra, a cura di V. Castronovo, Roma-Bari 2012 (in partic. M. Doria, I trasporti marittimi, la siderurgia, pp. 329-419; G.L. Podestà, Nella guerra, pp. 455-518).