AKBAR
Sultano della dinastia mongola dell'India, nato il 15 ottobre 1542, morto il 16 ottobre 1605. Il suo nome completo è Muḥammad Abū'l-Fath Gialāl ad-dīn, e Akbar ("il Massimo") non è che il soprannome onorifico col quale, secondo l'uso musulmano, egli viene designato in quanto sovrano. Benché la sua dinastia si fosse resa signora dell'India settentrionale già sotto suo nonno Bāber (v.), suo padre Humāyūn (v.), sconfitto da Shēr Shāh e spogliato interamente del regno, ne aveva appena iniziato la riconquista quando venne a morire, lasciando il trono malfermo al figlio Akbar appena quattordicenne (2 rabī‛ II 963 èg. = 14 febbraio 1556). Questi, coll'aiuto di fedeli generali, seppe non solo riguadagnare il dominio paterno, ma lo estese di molto, stabilendo saldamente il suo regno, oltre che sull'Indostan propriamente detto, sull'Afghānistān orientale, il Bengala, il Kashmīr e gran parte del Deccan, estensione che l'impero mongolo dell'India non raggiunse in seguito mai più. A. scelse come sua capitale, in luogo della vecchia sede di Delhi, Agra (v.).
Ricostituita l'unità e la potenza dell'impero, A. diede opera, durante il suo lungo regno, mentre ne allargava e assicurava i confini, a migliorarne l'amministrazione e a promuovere il benessere del popolo con una serie di riforme arditissime per le quali egli merita di essere ricordato tra i più grandi sovrani di tutti i tempi. Mirò a spegnere i dissidî di razza e di religione e a parificare tutti i sudditi di fronte allo stato, e come primo passo su questa via compì, assistito dal suo geniale ministro Todar Mall, di razza indù, la riforma delle finanze dello stato, abolendo l'imposta sui non musulmani, la gizyah (v.), e distribuendo egualmente tra tutti i sudditi gli obblighi fiscali. Tale pareggiamento implicava, di fatto, anche l'eguaglianza religiosa che, esempio unico nella storia dell'Islām e che non aveva precedenti neppure nell'Occidente cristiano, A. proclamò ben presto: in tal modo egli veniva ad abolire uno dei principî fondamentali della religione musulmana, dalla quale finì con lo staccarsi anche formalmente, introducendo come religione di stato (ma con piena tolleranza verso le altre religioni professate nel suo regno) una nuova fede, cui diede il nome di tawḥīd-i ilāhi, "monoteismo". Centro del sistema è la fede in un Dio unico e invisibile, fondamento comune di tutte le religioni storiche: soltanto come concessione alla debolezza umana è consentito il culto della manifestazione suprema della divinità, il sole o il fuoco. La purezza e la semplicità della vita vengono proclamate doveri supremi dell'uomo. L'impulso a questo singolare rinnovamento religioso (che ricorda stranamente la riforma della religione egiziana istituita dal faraone Amenofi IV [v.]) venne ad A. da un lato dal ṣūfismo (v.), che da lungo tempo aveva proclamato l'inadeguazione di tutte le religioni positive all'essenza della divinità, dall'altro dall'esperienza diretta delle molteplici religioni professate dai suoi sudditi: islamismo, brahmanesimo, zoroastrismo, il quale ultimo sembra aver avuto un'influenza decisiva, come si scorge nel sole-fuoco assunto come simbolo della divinità; a queste religioni è poi da aggiungere il cristianesimo, portato in India dalle missioni dei francescani e dei gesuiti, alle quali A. fece le migliori accoglienze (ai gesuiti richiese una traduzione persiana della vita di Gesù e degli apostoli). Del resto, egli fu sempre pronto ad accogliere nel suo regno gli Europei, e cercò anzi di stringere relazioni regolari con le potenze cristiane. La sua fama si diffuse pertanto anche in Occidente, dove fu noto col nome di "Gran Mogol" dovuto all'origine della sua dinastia ed esteso in seguito anche ai suoi successori.
La riforma religiosa di A. non ebbe tuttavia alcun risultato pratico e non sembra aver varcato la stretta cerchia degli intimi di lui, quasi tutti filosofi e letterati; certo non divenne mai popolare e si estinse col suo fondatore, essendo il suo figlio e successore Giahānghīr (v.) tornato all'ortodossia musulmana.
Delle guerre e della politica interna di A. ci rimane un fedele documento nell'Akbar nāmeh (il libro di A.) compilato dal suo ministro Abū'l-Faḍl ‛Allāmī (morto assassinato nel 1602), il quale sembra aver anche avuto grande influenza sulla riforma religiosa.
Bibl.: V. A. Smith, Akbar the Great Mogul, 2ª ed., Oxford 1919; I. Goldziher, Vorlesungen über den Islam, 2ª ed., Heidelberg 1925, pp. 287-90 (traduzione francese, Parigi 1920, pp. 242-43).